C’era una volta il magico mondo di Downton Abbey, quello in cui i ricchi e nobili stanno al piano di sopra e la servitù sta al piano di sotto, e tutti sono contenti, oppure tutti sono scontenti, in alto e in basso, ma non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che questa scontentezza possa essere medicata favorendo il passaggio dal piano di sotto al piano di sopra, invocando ‘maggiore mobilità sociale’…
Quel mondo è finito a causa di mutamenti nell’ordine materiale (le guerre, l’inurbamento, l’automazione, il consumismo, la diffusione dei media) che hanno prodotto mutamenti nell’ordine dello spirito (suffragio universale, rule of law, parità fra i sessi, aspirazione alla giustizia, all’uguaglianza e alla lealtà entro una cerchia più ampia di quella del proprio clan), e ora viviamo tutti in un mondo di infinite opportunità nel quale chiunque se lo meriti può diventare qualsiasi cosa voglia diventare, e la mobilità sociale non solo non è impedita ma è addirittura incoraggiata, promossa attraverso azioni positive.
Ma se le cose stanno così – e di fatto stanno così – come mai questo paradiso ci sembra un inferno?
Il problema principale risiede in quella clausola, se lo meriti, che può apparirci neutra, addirittura ovvia alla luce del senso comune (e non solo, anche in sintonia con la filosofia di Aristotele: «giustizia è dare a ciascuno ciò che merita»), ma che a un esame più meditato mostra tutta una serie di aporie, a loro volta fonti potenziali di conflitto. Davvero una società fondata sul merito può dirsi più giusta di una società fondata sul privilegio ereditato? E che cosa bisogna intendere esattamente per merito? E posto che i meriti si acquisiscono attraverso l’educazione e il denaro, non è forse la società meritocratica niente più di una dissimulata società del privilegio, che rispetto a questa ha anche il difetto di nevrotizzare e frustrare i suoi abitanti, che adesso sono liberi soprattutto di fallire (se ‘tutte le strade sono aperte a tutti’, come dice lo slogan meritocratico, non riuscire a fare strada non è più una fatalità ma una colpa, e la colpa si espia con la frustrazione, la depressione, la scarsa considerazione di sé). Sono domande a cui molti hanno tentato di rispondere, negli ultimi decenni, e le voci più convincenti sono parse quelle di coloro che hanno argomentato non a favore ma contro il feticcio del merito, da Michael Young, il sociologo inglese che nel 1958 pubblicò il celebre pamphlet The Rise of Meritocracy, alle pagine che al tema dedica Rawls in Una teoria della giustizia (1971), fino al recente libro di Michael Sandel La tirannia del merito (2019).
Soprattutto con questi autori dialoga il filosofo del linguaggio Marco Santambrogio in un libro da poco uscito per Laterza che va invece nella direzione opposta, e difende le buone ragioni che sottostanno all’ideale meritocratico. Non è la prima deviazione che Santambrogio si concede rispetto a quelli che sono i suoi specifici interessi professionali. Un quarto di secolo fa, in un libretto dal titolo Chi ha paura del numero chiuso? (Laterza 1997), aveva provato a descrivere l’università italiana in un modo un po’ diverso – e a mio avviso molto più acuto e intelligente – rispetto a come comunemente la si descrive: un «paese di Tranquillità», così la chiamava, nel quale tutti gli atenei sono più o meno uguali in quanto erogatori di titoli di studio con valore legale, i costi della macchina vengono sostenuti dai contribuenti e non dagli iscritti (cioè da coloro che ne beneficeranno), l’onesta competizione è bandita perché si «evita sistematicamente il confronto tra individui (ma non certo fra le famiglie, i gruppi, le cordate) per quel che riguarda talenti, meriti, qualificazioni intellettuali». Il problema – sosteneva – è che, facendo poco o nulla per raggiungere una vera eguaglianza di opportunità (quella in base alla quale tutti partono da condizioni iniziali simili se non uguali), l’Italia cerca di medicare questa ingiustizia introducendo una mendace «uguaglianza dei risultati», tale per cui «le disuguaglianze iniziali devono essere compensate agendo sui loro effetti disuguali e riportandoli a una certa uniformità – usando indulgenza con gli studenti part-time, consentendo un fuoricorso illimitato e livellando verso l’alto i voti di laurea».
Con Il complotto contro il merito il discorso – pur rimanendo sugli stessi binari – sale di livello, diventando più spiccatamente filosofico, e allarga il suo compasso, perché qui la questione del merito non riguarda più soltanto la sfera dell’istruzione ma l’intera macchina sociale. Ora – riducendo all’osso un’argomentazione che procede per duecento pagine, nessuna superflua – Santambrogio non dà affatto torto ai critici del merito, anche lui vede con chiarezza i guasti di una società meritocratica, ma rispetto ai suoi contradditori ha una posizione distinta soprattutto in relazione a due aspetti. In primo luogo, non crede affatto che le società contemporanee siano soltanto arene in cui i fuoricasta privi di merito vengono guardati con disprezzo da un’élite che ritiene di aver meritato i propri privilegi (così Sandel): la realtà è più complessa, e può essere corretta e migliorata attraverso mutamenti nella sfera pratica (maggiore equità nella distribuzione della ricchezza) e in quella ideale (attenuarsi del pregiudizio contro i lavori non intellettuali, sfruttamento dei propri autentici talenti, non solo del talento scolastico). In secondo luogo, se da un lato ammette l’ingiustizia della società meritocratica, descrive con molta intelligenza (come non hanno fatto né Young né Sandel) l’ingiustizia di un’eventuale società non meritocratica, la società in cui il vincitore di un concorso si decide per sorteggio e gli sforzi fatti per eccellere vengono vanificati dall’istanza livellatrice: come si vivrebbe in questa – come la definisce Santambrogio – «società deprimente»?
Ma è tutto più complicato e più interessante, e qui posso solo dare un’idea delle tante questioni toccate, discusse, risolte, cioè nuovamente consegnate al dibattito, in questo splendido saggio. Da dilettanti interessati alla materia si resta spesso allibiti di fronte a certe pagine e a certe uscite dei professori di filosofia; poi per fortuna si cade su libri come questo – scritti con chiarezza, argomentati con rigore – e le perplessità spariscono.
Marco Santambrogio, Il complotto contro il merito, Laterza, 18 euro.