Ho avuto anch’io la Chiamata, qualche anno fa, anzi più d’una, ma non ero pronto, non ero sicuro, ho esitato, e la Voce ha chiamato invano.
Nel 2015 ho pubblicato per Il Mulino un libretto del genere ‘spiritoso’ dal titolo Essere @matteorenzi che non si può dire abbia venduto molte copie ma che ha circolato abbastanza tra Roma e Milano, tra giornalisti e politici, e mi è anche valso due minuti di celebrità all’interno della trasmissione Ballarò allora condotta da Massimo Giannini. Nel libretto, tra l’altro, parlavo maluccio di un grande giornale italiano, sia per il modo in cui era scritto (certi titoli osceni, soprattutto) sia per la tendenza a reclutare tra i commentatori – cito – «certi inverosimili tromboni che passano la vita coll’indice alzato, ammonente, senza avere in testa la più vaga idea di come funzioni veramente il mondo». Qualche settimana dopo l’uscita del libro mi ha telefonato un redattore proprio di quel giornale:
«Noi però alla fine le stiamo simpatici, no?».
«Mah, veramente no».
Proprio questo volevano: uno che non le mandava a dire. Benissimo, dunque: volevo iniziare una collaborazione ‘ad ampio spettro’? E che cosa, in particolare, mi sarebbe piaciuto scrivere?
Il redattore si aspettava, credo, un certo entusiasmo, invece io ho cominciato a balbettare, un po’ perché quel giornale davvero non mi piaceva e po’ perché ero quasi sicuro che le cose di cui avrei voluto scrivere non erano quelle di cui lui, cioè loro avrebbero voluto che io scrivessi.
«Viaggi. Secondo me sono abbastanza bravo a scrivere di viaggi».
È il sogno dell’adolescenza, girare il mondo a spese degli altri: Concorde, Four Seasons, ma all’occorrenza anche bivacco sull’Himalaya, hippy o signore a seconda della situazione. Non come corrispondente o come inviato, che è troppo lavoro, ma come reporter-scrittore at large all’uso anglosassone, genere Chatwin o Naipaul, anche se con una frazione del loro talento. Ma anche Sandro Viola, volendo limitare gli obiettivi.
«No – ha risposto il redattore – quella è roba che non legge più nessuno, la gente preferisce i post su TripAdvisor, i video su YouTube, non gliene frega niente dell’occhio dello scrittore in transito».
Peccato, ma lo sapevo anch’io, in realtà, che i racconti di viaggio non si leggono più. E poi se uno ha un altro lavoro, com’è il mio caso, di viaggi ne può fare al massimo tre o quattro all’anno: invece la collaborazione doveva essere più frequente, almeno settimanale. Libri, allora. Avevo letto da qualche parte la frase Parlare di libri è un bel modo di parlare, era il momento di usarla:
«Allora posso scrivere di libri. Cioè, parlare di libri mi sembra un bel modo, un modo civile di parlare… Parlarne bene, cioè bene o male ma sempre con una certa ampiezza, argomentando con precisione, magari soprattutto di libri che sono usciti da un po’, non necessariamente quelli appena usciti, e piuttosto saggi che romanzi. C’è tanto bisogno, lo vedo coi miei studenti…».
Avevo in mente quello che fa John Gray sul «New Statesman» (sempre modelli stellari, sempre con una frazione del talento): una recensione di un libro più o meno ogni mese, senza limiti di spazio perché esce online, libri anche difficili – lui di filosofia morale, io avrei potuto pescare nella storiografia letteraria, nella filologia, ma un po’ dovunque – per il pubblico ristretto ma strategico degli iper-colti o aspiranti tali. Insomma, volevo rifare «Il Giorno» degli anni Sessanta, o il «Corriere» dei Settanta. Il redattore, che al contrario di me abitava in questo mondo, non era dello stesso avviso.
«Be’, sì, certo, anche libri, tutto quello che vuole, figuriamoci. Ma a noi serve soprattutto qualcuno che intervenga nel dibattito, che partecipi alla conversazione come osservatore, come critico della cultura in senso largo, anche per la prima pagina…».
Anche su «prima pagina» il redattore si aspettava un po’ d’entusiasmo, invece su di me la formula ha avuto l’effetto contrario, e non per modestia o disgusto per la notorietà, non sono meglio di tutti gli altri, ma perché mi si stava insomma proponendo di diventare opinionista, e della vita di un’opinionista avevo un nitido e non piacevole ricordo.
L’anno prima avevo trascorso un pezzo delle vacanze estive insieme a un gruppo di amici, e nel gruppo c’era anche un bravo scrittore che, non avendo a differenza di me uno stipendio fisso a fine mese, scriveva molto per i giornali, più o meno di qualsiasi argomento (ma non di viaggi e non di libri à la John Gray), e in particolare aveva un contratto, discretamente pagato, con un grande giornale (non quello che voleva reclutare me, un altro). Ad agosto, si sa, non succede niente, i giornali non sanno cosa mettere in pagina, così il suo cellulare squillava a giorni alterni verso metà pomeriggio, mentre stavamo smaltendo il pranzo sotto le frasche o ci stavamo attrezzando per andare al mare; il gruppo degli amici guardava l’amico opinionista con costernazione, lui costernato a sua volta si appartava e rispondeva. Dall’altra parte, la voce anche lei costernata del redattore estivo gli sussurrava molto gentilmente una richiesta: nessun obbligo, si capisce, ma lo sforzo sarebbe stato apprezzato, anche personalmente, lo avrebbe tolto dall’imbarazzo: un commento, una nota di trenta, cinquanta righe, niente di impegnativo, «una sua riflessione, una sua opinione su…», e lì partiva la farandola degli argomenti opinionabili, quasi tutti lontanissimi dalle competenze dell’amico scrittore (che a voler essere giusti di competenze vere e proprie, essendo scrittore laureato in Lettere, non ne aveva). Alla fine, l’amico scrittore non si appartava nemmeno più, metteva in vivavoce, e dalle sdraio orecchiavamo conversazioni di questo tenore:
«Mi spiace disturbarla ancora proprio a metà agosto…».
«Ma no, s’immagini, sono qui… Mi dica».
«Ecco, no, c’è questa cosa del tabacchificio a Foggia».
«Sì».
«Che sta chiudendo. Il tabacchificio».
«Sì, ho letto, cioè ho visto alla TV».
«Ecco, servirebbe una sessantina di righe di commento. Anche cinquanta».
«Sì. Gesù…».
«Eh, lo so».
«No, voglio dire, massima disponibilità. Ma è una cosa tecnica, no? Forse serve più un economista, uno specialista di distretti industriali, uno che se ne intende. Io ho solo sentito…».
«No, ma l’economista c’è, solo che vorremmo affiancare anche un punto di vista, come dire, più alto, no? Cioè, la cosa vista dal punto di vista diciamo filosofico, non solo così, banalmente…
«Sì. Gesù… No, voglio dire, rischio di dire delle banalità. Pure delle cazzate, se vogliamo…».
«No, figuriamoci, cazzate, lei, proprio…».
«No no, cazzate, cazzate».
«No, mi perdoni. Una cinquantina di righe».
Ero pronto a fare questo vita? Ero tentato dal farla? Ho ripensato all’amico opinionista, ho passato in rassegna gli opinionisti dei giornali. A parte le chiamate a Ferragosto, i necrologi per i poeti morti stenografati in due ore, la necessità di condividere la «prima pagina», con gente con cui non vorrei condividere neanche la hall di un albergo, c’era il rischio di parlare, una volta su due, di argomenti su cui non ero abbastanza preparato, o che non m’interessavano, e quindi di scrivere male, di scrivere sciocchezze. Il rischio? La certezza. Praticamente tutti gli scrittori o gli studiosi che mi venivano in mente, diventati opinionisti in servizio permanente, anche a Ferragosto, avevano finito – mi pareva – per guastare la loro reputazione e forse anche un po’ la loro intelligenza scrivendo spesso cose mal informate o superficiali o addirittura ridicole, perdendo anche un sacco di tempo per farsi un’idea intorno a questioni assurde o vane, o troppo complicate per poterne dire qualcosa di sensato senza prima studiare, come la chiusura del tabacchificio di Foggia. In cambio di cosa? Notorietà? Contatti? Ma i giornali ormai li leggono quattro gatti; e poi chi se ne importa della notorietà e dei contatti se uno ha come massima ambizione (è il mio caso) quella di starsene a casa sua. Soldi? Non abbastanza per ripagare della pena. Eccomi a dire la mia sugli asterischi al posto delle desinenze maschili, sul degrado del territorio, sugli stipendi da fame degli insegnanti, sul romanesco di Zerocalcare sotto titoli demenziali come Giù le mani da Zerocalcare: lo dice Gadda, eccomi condannato a passare le mie giornate, che non sono infinite, in mezzo a queste idiozie invece che in mezzo alle cose intelligenti, Dante Platone Proust nella penombra della Sala di Consultazione della Biblioteca Nazionale di Firenze. E poi, come ho fatto presente alquanto trombonescamente, mi rendo conto, al redattore del grande giornale (a questo punto, con ragione, un filo irritato):
«Io sono un professore universitario, ho delle priorità, le lezioni, le tesi, potrei scrivere solo di quello di cui sono competente, coi miei tempi, cioè devo cercare di mantenere un certo rigore, anche pensando ai miei allievi, non è che posso dire la mia sul campionato di calcio o il Festival di Sanremo, o i tabacchifici…».
«Tabacchifici?».
Sipario. O meglio, altre Chiamate sono venute, in realtà, ma più facili da ignorare perché, per esempio, come si fa a collaborare a «L’Espresso» dopo quello che hanno fatto a Ilaria Capua? E simili. Il contesto conta, specie a una certa età.
Ho perso così, felicemente, il treno dell’opinionismo culturale. Il grande giornale ha trovato un adeguato rimpiazzo, e lui adesso – ignaro di essere una seconda scelta – scrive i pezzi che avrei dovuto scrivere io, lunghi pezzi inutili sugli asterischi al posto delle desinenze maschili e sugli stipendi da fame degli insegnanti; e io mi complimento tanto con me stesso per aver preso la strada meno battuta, come nella poesia di Frost, e continuo a fare quello che faccio da una quindicina d’anni a questa parte, cioè parlo soprattutto di libri, che è un bel modo di parlare, su giornali e siti di scarsa o media popolarità, come il Domenicale del «Sole 24 ore», «Il Foglio», qualche rara volta «Internazionale» e «Il Post», o appunto la rivista del Mulino. Tutti felici.
Questa è, con una stringatezza che non le rende giustizia, la storia della mia carriera nella pubblicistica culturale, e l’ho raccontata non solo perché illumina di luce buona la mia tempra morale, ma perché mi pare dica qualcosa su come vanno le cose oggi in questo campo.
Quand’ero adolescente, abitando a Torino, leggevo «La Stampa» e, letterato in erba, aspettavo il sabato per «Tuttolibri». Era e tuttora è un supplemento fatto soprattutto di recensioni. Circa la loro qualità, non saprei fare un paragone tra allora e oggi: è probabile che, come càpita, ci fossero cose buone e meno buone (ricordo in realtà un certo diffuso grigiore), ma insomma la lezione era che ogni seria comunicazione culturale non poteva accamparsi nel vuoto ma doveva partire da un libro, e di quel libro dire ordinatamente, e in buon italiano, il contenuto, e poi i pregi e i difetti. Le opinioni dello scrivente, che era appunto prima di tutto un recensore, contavano, sì, ma in relazione a un oggetto che a sua volta conteneva idee e opinioni: era insomma una civile conversazione alla quale il lettore era chiamato a partecipare, silenziosamente, come terzo.
Sempre in quegli anni, sull’«Espresso», che avevo cominciato a comprare per darmi un tono, non c’erano ormai più le recensioni di Paolo Milano ma c’erano già molte inchieste sulla cultura e giri di pareri tra gli intellettuali, e soprattutto c’era La bustina di Minerva di Eco nell’ultima pagina. Eco raramente parlava di un libro, semmai i libri li usava come spunti per parlare d’altro: politica, media, costume. L’oggetto non era così importante: si leggeva La bustina di Minerva per compiacersi dell’acume di Eco.
Ci si può domandare perché, e se sia un bene o se sia un male, ma non c’è dubbio che in questi anni il modello-bustina abbia prevalso sul modello-«Tuttolibri», ovvero che a chi scrive di cose culturali sui giornali o in rete oggi si chiedano soprattutto opinioni, e non l’ordinata descrizione e il giudizio su un libro. Non è un fatto nuovo, o meglio è un fatto che si è sedimentato nel tempo: «poi è nato in Italia questo costume giornalistico», ha detto una volta Calvino ad Arbasino (Ritratti italiani, Milano, Adelphi 2014, p. 124): «gli scrittori che fanno la predica settimanale; a poco a poco ci cascate tutti». Ma è una questione di quantità: quindi, di riflesso, di qualità. Ai tempi di Calvino gli scrittori che settimanalmente glossavano la vita erano pochi ed erano piuttosto bravi. Su «La Stampa» lo facevano molto bene Fruttero & Lucentini e, non benissimo ma neppure male, Ceronetti; più di rado, ricordo, Rigoni Stern, Primo Levi, la Ginzburg. Le prime pagine contenevano uno o due editoriali di politica, e poi notizie. Oggi che le notizie si sono già lette il giorno prima in rete, lo spazio per le opinioni si è dilatato, dando occasione di lavoro e visibilità e modico guadagno a un numero cospicuo di scrittori, saggisti, professori delle facoltà umanistiche. Gli oggetti finiscono in secondo piano e la ribalta è occupata dalla chiacchiera sugli oggetti o, appunto, dalla «predica settimanale». Il livello di questi prodotti non è quasi mai memorabile: perché non tutti hanno l’acume di Eco, perché manca spesso il tempo per documentarsi e curare un po’ lo stile; perché l’opinione che si chiede e che si dà riguarda spesso questioni un po’ sciocche sollevate il giorno prima in TV o in rete, la polemica del giorno; e anche perché nella maggior parte dei casi si tratta sempre dei soliti problemi, delle solite indignazioni, come ha osservato con molto spirito Francesco Piccolo:
Mi telefonavano e mi dicevano: una barca di immigrati clandestini è naufragata, ti va di scriverne? Lo chiedevano a me come ad altri per altri giornali. E io e gli altri scrivevamo un articolo indignato e addolorato in cui dicevamo che era molto brutto che la barca fosse naufragata, che le barche sarebbe molto meglio che non naufragassero; che era molto brutto che gli immigrati non venissero accolti, che era molto brutto in generale che la gente nel mondo soffrisse di fame e di povertà e fosse costretta a prendere barche per andare a cercare fortuna in Paesi più ricchi e che poi queste barche naufragassero. Poi ci chiamavano e ci dicevano che una donna era stata violentata in una citta del Nord, noi scrivevamo che era molto brutto che le donne venissero violentate, e che non bisognava violentarle, e che era molto brutto in generale che ci fosse qualsiasi tipo di violenza, non solo nel Nord, ma anche nel Sud, e che tutte le persone, e in special modo le donne, dovevano essere rispettate e amate […]. Scrivevamo che bisognava dare lavoro ai disoccupati, che la cultura era importante, e un sacco di altre cose che sono tutte li, a testimoniare il mio (nostro) senso civile. Non era compito nostro trovare soluzioni, pero era compito nostro tenere desta l’indignazione (Il desiderio di essere come tutti, Torino, Einaudi 2013).
Terribile, soprattutto se si pensa che non tutti sono bravi come Piccolo, non tutti sanno correggere il moralismo con l’ironia e il distacco, anzi quasi nessuno. Ma in generale la predica laica è un tipo di esercizio che attira, mi pare, gli intelletti peggiori, cioè più inclini all’esibizionismo, l’approssimazione, il settarismo, la semplificazione dei fatti e delle idee altrui. Il proliferare di questa roba è una delle ragioni che mi hanno fatto smettere di leggere quasi tutti i giornali italiani.
Se invece del brillante modello-Eco si opta per il più modesto ma utile modello-«Tuttolibri», se anziché di astratte opinioni si parla di libri, le qualità da coltivare dovrebbero essere tutt’altre. Ma come accennavo, questo genere di discorso non ha l’aria di essere molto in salute. Assediati dalle e-mail e dai social network, i lettori non hanno né il tempo né la voglia né l’attenzione necessaria per sorbirsi lunghe articolate analisi di libri che quasi certamente non leggeranno. «Tutto quello che vuoi, ma non la recensione dell’ultimo romanzo o dell’ultimo saggio. Se parli di un libro, fallo dentro un racconto, in una cornice»: più o meno con le stesse parole, è questa la raccomandazione che in tempi diversi ho ricevuto da due redattori di giornali con cui mi è capitato di collaborare. Se lo spazio per il racconto-cornice non c’è, meglio limitarsi a segnalare, a indicare, a comunicare l’esistenza del maggior numero possibile di libri, fra i tantissimi che escono: gli editori sono contenti, gli autori sono contenti, lo span di attenzione del lettore apprezza quelle dieci righe. E lo spazio è sempre meno. Una decina d’anni fa «La Repubblica» ha aumentato le dimensioni del font e ridotto la lunghezza degli articoli per adeguarsi a un mondo nel quale, semplicemente, il tempo che si può dedicare alla lettura dei giornali è una frazione di quello che le si dedicava ancora alla fine del Novecento. E così hanno fatto altri giornali. Il recente restyling del «Sole 24 ore» ha aumentato anche nel supplemento culturale lo spazio dedicato alla pubblicità, a grafici e tabelle e ornamenti, sottraendolo alla scrittura, gli articoli si sono accorciati, l’argomentazione ha dovuto semplificarsi: parlare di quei libri dotti, importanti anche se con poco mercato, che sono la ragion d’essere del Domenicale, è diventato più difficile, e anche un po’ meno appagante.
Ramo di produzione sempre meno attrattivo, quindi sempre meno remunerativo, non è strano che venga abbandonato a sé stesso, e che cioè la discussione sui libri, soprattutto sui grandi giornali, sia spesso di qualità medio-bassa: o perché chi recensisce non è veramente capace di farlo, e mette insieme un riassuntino stentato; o perché chi recensisce è amico o collega o allievo del recensito, e naturalmente ogni sua parola è una lode, nella ragionevole speranza che il recensito ricambierà prima o poi il favore (questa è una bella specialità dei grandi giornali, dove tutti prima o poi scrivono un libro o pubblicano con la casa editrice della holding). È difficile trovare non una stroncatura, che in sé è un esercizio volgare, ma un giudizio equilibrato, che sappia dire con chiarezza e buoni argomenti meriti e demeriti del libro in questione; si elogia molto, troppo, perché costa meno fatica e non crea conflitti. E a tal punto si è abituati alla retorica da ‘segnalazione’, piuttosto che a quella ‘da recensione’, che spesso – parlo di nuovo per esperienza personale – le critiche vengono accolte non solo dal recensito ma dal pubblico dei lettori come un’indelicatezza. «Se non ti piaceva, potevi non parlarne»: che è un’idea un po’ bizzarra della deontologia di un recensore, ma ben intonata a tempi nei quali ci si crea una propria zona di conforto dalla quale restano bandite le idee dissonanti degli altri.
A chi dare la colpa? Un po’ ai direttori dei giornali, che scommettono su una comunicazione culturale semplice, chiassosa, sintonizzata su ciò che si agita nei media più potenti, e così perdono per strada i lettori forti e colti che finiscono per abbonarsi ai giornali stranieri; ai redattori, che lasciano fare; ai collaboratori, che anziché spendere un pomeriggio su un articolo se la cavano in mezz’ora. Un po’ a tutti, insomma, come sempre. Ma d’altra parte tutti sono anche innocenti, perché è chiaro che è soprattutto una questione di soldi. Si cura e si protegge un prodotto che rende; se cessa di farlo – se i lettori evaporano e i compensi, sia per chi scrive sia per chi stampa, si asciugano (e si sono asciugati vertiginosamente in questi anni) – allora la cura della qualità diventa un puntiglio irrazionale.
Spostiamo tutto in rete? Di fatto, per i miei studenti, quasi tutti nati dopo il 2000, la questione non si pone nemmeno: i giornali praticamente non li comprano più. Ma il fatto è che il mezzo – o perlomeno il modo in cui lo adoperiamo in Italia – non sembra veramente propizio a quel ritorno al rigore che uno si auspicherebbe. Io sono molto contento dei miei meditati 25.000 caratteri sulle Lezioni di letteratura di Nabokov pubblicati sul sito di «Internazionale», e tengo molto anche alle mie tre paginette (sempre online) sulle cattive traduzioni di Orwell, ma non credo che più di qualche decina di lettori, ad andar bene, sia arrivata alla fine dell’un saggio e dell’altro (sì, l’idea di ‘fare come John Gray’ devo tenerla per la prossima vita); mentre molto più traffico l’ho generato parlando bene del comico Alessandro Gori alias Lo Sgargabonzi o parlando male di tre diplomate della Scuola Normale convinte di aver vissuto per anni in un sistema universitario neoliberale. Nabokov non attira, il pop o le risse sì, come nella vita.
Quanto non al contenuto ma alla forma della comunicazione culturale online, chi è nato in età predigitale ancora fatica a capacitarsi del modo in cui l’autorità si è trasferita dai giornali e dalla scuola ai social media, e di come il discorso sulla cultura abbia assorbito non solo le strategie del marketing (gratificazione immediata, soddisfazione delle attese, rispecchiamento in scala 1:1) ma anche le sue cattive maniere, quel misto di vanità, megalomania e risentimento che esonda dalle interazioni social degli intellettuali. I miti scrittori che leggevo da giovane su «La Stampa» non si troverebbero a loro agio. O chissà? In fondo è l’ambiente che modella i caratteri. Se vivesse oggi, forse anche Levi posterebbe su Facebook uno di quegli accoranti spot autopromozionali del tipo «Ringrazio di cuore l’amico XY per la bella recensione al mio Se questo è un uomo sull’Eco del Chisone», con sotto la fotografia dell’articolo e i commenti solidali dei sopravvissuti al Lager, per tre quarti mitomani. Che sollievo che non si possa fare la prova!