Un sottogenere della narrativa italiana recente è quello di ambientazione scolastica; ne fa parte La materia alternativa, di Laura Marzi. Romanziera esordiente, non possiede purtroppo l’ironia sorniona e la profondità, anche politica, dei racconti scolastici di Domenico Starnone, che alla fine degli anni Ottanta avevano inaugurato il filone. Ma neppure esibisce – ed è un bene – lo spiritualismo entusiasta e vacuo dei professori di Alessandro D’Avenia, protagonisti di romanzi quali L’appello (2020) o Bianca come il latte, rossa come il sangue (2010).
Certo, anche la professoressa della Materia alternativa non sopporta la normalità e predilige gli studenti difficili; anche lei usa la scuola per frullare molti temi caldi del momento – il multiculturalismo, la droga, la rete, gli abusi sessuali e i problemi familiari. Anche lei non è priva di nobili ambizioni pedagogiche («Se solo vi rimanesse una goccia di ciò che provo a insegnarvi sul sessismo, sul classismo, sul razzismo, avrei fatto qualcosa di utile»), per giunta aggiornate alle teorie alla moda («somiglianza tra la sharia, che impone il burka, e il neoliberismo maschilista, che impone i tacchi. La logica di questo accostamento è talmente forte che colpisce anche quelli che vorrebbero solo non sentire»). Ma a differenza dei professori di D’Avenia, questa di Laura Marzi non si limita a catechizzare i suoi studenti (e i suoi lettori); anzi, quando li ascolta è capace di revocare in dubbio la certezza di avere ragione – fino a scoprire, grazie ai suoi studenti, che anche le cose brutte hanno un loro fascino («mi piacciono i video in cui si massacrano di botte…»); che c’è energia nel male («mentre non ce n’è più nelle lezioni sulla legalità, nei progetti sul cyberbullismo, nel diario di Anna Frank, nelle poesie di Primo Levi»). E che «sono innumerevoli, nel mondo, le possibili alternative alla giustizia».
Di questo romanzo colpisce soprattutto un aspetto strutturale, e strutturante il racconto in due livelli. Sul piano sociale implicato dal suo ardente impegno professionale, la protagonista mostra una spiccata passione per l’Altro da sé – non solo la materia che insegna si chiama appunto ‘alternativa’ (e serve a coltivare la differenza di genere, orientamento sessuale e religione), ma i suoi allievi preferiti sono migranti o figli di migranti, depositari di culture, abitudini e linguaggi lontani e differenti. Sul piano della vita privata, e nelle scelte sentimentali e sessuali, quel che invece l’attrae è con tutta evidenza lo Stesso: al ragazzo albanese che si è innamorato di lei – bello, dolce, attento, maturo – la protagonista preferisce l’irrequieto coetaneo Davide, un italiano di origini meridionali come lei, come lei cresciuto tra le montagne del Nord, come lei seduttore, solitario, egocentrico. «Mi piace vedermi attraverso di lui: guardare nello specchio la mia parte più piccola, la ragazzina che sono stata, amarla». Del tratto narcisistico che la lega ai suoi amori più veri la narratrice si mostra consapevole («A volte mi dico che mi sono innamorata di uno specchio di me stessa e che l’ho fatto solo per narcisismo. Altre volte, invece, mi convinco che amare lui significa voler bene alla mia incapacità, alla mia solitudine, al mio carattere di amianto, accettare la mia eresia»). Ciò che invece non sembra registrare è la contraddizione tra l’ideologia che la spinge a dedicarsi all’Altro e l’inconscio che la spinge a servire lo Stesso. Anche se talvolta la contraddizione è convocata indirettamente – per esempio quando spiega ai suoi studenti come funziona la paura di ciò che è uguale a noi («Chi ha schifo, rigetto degli omosessuali, ha paura di essere omosessuale. E questa cosa non ve la dico io, ve lo dicono la parola e anche la psicanalisi: le paure più grandi sono sempre le paure di ciò che desideriamo»).
Il finale del libro, con analoga e interessante simmetria, tiene insieme due situazioni opposte. La protagonista deve rinunciare a Davide, indisponibile a una dedizione esclusiva (quella cessione di sé dalla quale lei stessa è scappata per anni). Al tempo stesso matura la scelta futura di una nuova e diversa materia alternativa, tutta privata stavolta: quella dell’amore inteso come fede e scommessa, «negazione della mia durezza, della diffidenza e della dipendenza». L’ideologia tenta la pedagogia più difficile, educare l’inconscio: è questo, sembra di capire, il vero lieto fine.