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Su “Ombre dal fondo” di Maria Corti

Domenicale del Sole 24 ore6 Marzo 2022

Ho cominciato a leggere questo libro con un pregiudizio negativo. Ho sempre avuto dei dubbi sul culto degli autografi, sulle edizioni critiche dei testi contemporanei, sullo studio delle varianti degli scrittori; e non sono mai stato convinto del fatto che abbia molto senso, specie da parte delle istituzioni pubbliche, comprare spesso a caro prezzo questi materiali per salvarli dalla dispersione o dalle mire dei collezionisti. La lettura di Ombre dal fondo non ha capovolto le mie opinioni ma un po’ le ha corrette.

Maria Corti è stata una delle migliori storiche della lingua e della cultura italiana del secondo Novecento, e una delle più eclettiche in un campo nel quale l’eclettismo può anche essere impressionismo, superficialità: ma non in lei. Dopo studi molto rigorosi sulla letteratura italiana antica (a settant’anni di distanza i suoi Studi sulla sintassi della poesia duecentesca restano un libro fondamentale), ha scritto in maniera acuta e originale su Dante (La felicità mentale, Percorsi dell’invenzione) e poi si è dedicata soprattutto al Novecento.

Tra le molte cose interessanti che ha fatto in quest’ultimo ambito c’è stata l’ideazione e la cura del Fondo manoscritti di autori moderni e contemporanei all’Università di Pavia. Nato quasi estemporaneamente, nel corso degli anni ’70 e ’80 il Fondo è andato ampliandosi grazie a donazioni e acquisti, ed è oggi uno dei più importanti archivi italiani deputati alla conservazione di materiali autografi: lettere, copie manoscritte di romanzi, poesie, saggi, appunti e scartafacci d’autore. Dal Fondo è geminato il Centro Manoscritti, che fa sempre parte dell’Università pavese e promuove appunto lo studio e l’edizione di questi materiali.

Pubblicato per la prima volta nel 1997, Ombre dal Fondo racconta la nascita e i primi anni di vita del Fondo, e lo fa mescolando ricordi personali, conversazioni (la più bella è quella con Bilenchi che apre il volume), riflessioni di metodo e notizie sulla storia dei vari archivi d’autore. È una miscela suggestiva, ed era anche forse l’unico modo possibile per rendere vivo e a volte addirittura poetico un resoconto che altrimenti sarebbe stato un arido elenco di titoli, nomi e date. A volte accade però che l’evocazione dei grandi scrittori defunti ispiri uno stile troppo enfatico (si sa che il più empirico e oggettivo dei metodi, quello filologico, fa presto a trasformarsi in mistica):

È un andare e venire di comunicazione fra i testi e i lettori, una sorta di polifonia impalpabile come le voci dell’anima. Il mondo reale scompare per chi è immerso in un momento di incanto…

oppure che suggerisca metafore un po’ fuori controllo:

Sono il silenzio e lo spazio della sala Manganelli […] a dare quella sottile felicità dell’uso della penna che è trepida, instabile e drammatica come l’attesa che una pallina della roulette si fermi al numero prescelto, su cui hai puntato tutto quello che possiedi.

Ma si parla di letteratura, di grandi scrittori, è comprensibile che ogni tanto il tono provi ad adeguarsi a questa grandezza, non bisogna neanche sempre dire tutto in écriture blanche. Però la questione della grandezza torna pertinente per giudicare dei due dubbi o pregiudizi a cui ho accennato in apertura.

Primo: vale la pena di spendere tanti soldi – pubblici per lo più, ma anche di privati – per salvare gli autografi di scrittori grandi come Montale o Moravia ma anche di scrittori meno grandi come Capuana e De Marchi? Non parliamo di quadri o di sculture ma di testi per la grandissima parte disponibili a stampa, acquistabili in libreria, consultabili in biblioteca. Secondo: è un buon metodo critico quello che si propone di riflettere non tanto sull’opera in prosa o in poesia come dato quanto sull’opera come processo, cioè sulla sua genesi e sulla sua storia, valorizzando appunto le stesure intermedie, gli abbozzi custoditi nel Fondo pavese? Come accennavo, avrei risposto «più no che sì» a entrambe le domande, e spesso anche «decisamente no» (è una vecchia e lunga questione che qui non posso nemmeno iniziare a descrivere: gli interessati possono leggere per esempio, tra le cose recenti, il saggio di Claudio Vela Spazio e tempo della filologia d’autore, in «Filologia italiana» del 2018).

Ma la lettura di Ombre dal Fondo mi ha portato a un più irenico «bisogna giudicare caso per caso». Ma a esprimere caso per caso un simile giudizio non possono che essere studiosi qualificati, i quali a loro volta hanno bisogno di strutture come il Fondo e il Centro pavesi che ne favoriscano e coordino le ricerche. Il che significa che Maria Corti aveva ragione – forse.

Maria Corti, Ombre dal fondo, Torino, Einaudi 2022, pp. 158.

 

 

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