Passato qualche giorno, vorrei tornare sulla questione Dostoevskij-Bicocca, perché ho l’impressione, per quanto ho letto, che non se ne sia tratto l’insegnamento che secondo me è il caso di trarne. Non su Dostoevskij o la Bicocca, ma sull’idea che abbiamo dell’istruzione. O gli insegnamenti, perché se ne può trarre forse più d’uno.
Dunque l’Università di Milano Bicocca aveva proposto allo scrittore e studioso di letteratura russa Paolo Nori un breve corso su Dostoevskij, quattro lezioni. Corso cancellato – hanno comunicato a Nori qualche giorno fa – dato che la Russia ha invaso l’Ucraina, per «evitare tensioni». Alla giusta protesta di Nori, e di mezza Italia intellettuale, è seguita l’offerta di fare sì il corso, ma inserendo magari qualche autore ucraino, a fianco del russo Dostoevskij, «ampliando il messaggio per aprire la mente degli studenti». Giusto rifiuto di Nori («Non condivido questa idea che se parli di un autore russo devi parlare anche di un autore ucraino»), che farà il corso altrove.
1. Ora, in primo luogo è facile osservare che, almeno in astratto, le cose della cultura – libri, quadri, palazzi, chiese – meritano di essere conosciute non in quanto significano o in quanto simboleggiano bensì in quanto sono. Nell’ottica della cultura, il romanzo L’idiota non riguarda il lettore russo dell’epoca di Dostoevskij più di quanto riguardi il lettore italiano odierno. Solo che a questa nobile e un po’ polverosa idea umanistica (Dostoevskij patrimonio dell’umanità) non sembra si creda più molto: dei libri, a scuola – e l’università è scuola – preme soprattutto vedere ciò che rappresentano, e ciò che rappresentano non è l’umanità ma solo un frammento di essa, accanto al quale è allora giusto e utile disporre altri frammenti che giacciono – anche questo è importante – tutti sul medesimo piano. Dostoevskij è uno scrittore russo cristiano, slavofilo. La sua parziale prospettiva andrà integrata con altre prospettive altrettanto parziali, perché solo nell’Intero balugina la verità.
Coerente con questo equivoco che potremmo chiamare ‘nostalgia della Totalità’ è la propensione ad attualizzare i prodotti culturali del passato. Al prorettore della Bicocca non è venuta in mente l’idea che l’opera del russo Dostoevskij possa non avere alcun rapporto con la nostra esistenza attuale, men che meno con la guerra in atto, perché contro questa idea sta – molto più potente, e a mio avviso piuttosto volgare – l’idea scolastica che nelle opere del passato occorra cercare sempre un contatto con la vita che viviamo, e quasi una risposta ai problemi correnti: invece di cercare nel passato un altro presente, come vuole l’adagio crociano, rispettandone l’alterità, le discontinuità, si presentifica il passato adattandolo al nostro attuale orizzonte d’esperienza. Ecco perciò che I fratelli Karamazov può diventare ‘tema sensibile’, dunque vitando, in un ambiente nel quale si è stati educati a ritenere che ogni parola pronunciata, ogni azione compiuta dagli uomini del passato debba stimolare una nostra reazione solidale od oppositiva. Mentre bisognerebbe insegnare a comprendere in silenzio, senza per forza reagire.
2. In secondo luogo, l’ipotesi di affiancare a Dostoevskij imprecisati «autori ucraini» per dare agli studenti un quadro più articolato (più articolato di che cosa? Vedi al punto precedente: della ‘problematica’ della quale Dostoevskij sarebbe uno dei fattori) induce a riflettere sulla bizzarra forma dilemmatica che ha preso negli ultimi anni l’istruzione umanistica. È un po’ la forma aggiornata della vecchia sindrome del ‘collegamento’. Le cose (libri, quadri, eventi storici) sono ineffabili in sé, prese da sole, e si capiscono solo se messe in relazione con altre cose: principio anche sensato, ma che diventa assurdo quando pretende di trasformare ogni evento umano e ogni prodotto culturale in materia di dibattito, specie quando a dibattere sono ragazzini che, necessariamente, ignorano quasi tutto dell’argomento del quale si apprestano a discutere: così si formano nella migliore delle ipotesi dei sofisti, nella peggiore dei figuranti da talk-show, ma non delle persone colte. Credo che l’idea ‘mettiamoci anche qualche ucraino’ rifletta, anche, questa stravolta applicazione del metodo socratico: la verità matura nel dialogo. Mica sempre. Freud dice da qualche parte di non essere mai riuscito a convincersi che Eris, la Contesa, sia la madre della verità. Quante ore dovremo ancora sprecare su Twitter per capire che un po’ di ragione ce l’aveva?
3. In terzo luogo, ho l’impressione che la gaffe della Bicocca rispecchi, cioè sia coerente con un sistema dell’istruzione che si pone come obiettivo non tanto l’acculturazione, quella per cui aver letto un paio di romanzi di Dostoevskij è cosa opportuna e utile, quanto l’edificazione morale, quella per cui agli studenti, specie più giovani, è bene non tanto comunicare nozioni e idee relative a ciò che è successo e si è pensato e scritto nel passato quanto spiegare in che modo dev’essere vissuta la vita (la vita insieme: il lathe biosas epicureo non ha più tanti fan, ed è un peccato). In quest’ordine di idee, i libri di Dostoevskij potrebbero non essere consigliabili, potrebbero dover essere sacrificati (ovvero «sospesi», o «rimandati», come soavemente hanno comunicato a Nori) in un determinato ambiente o momento storico. Così come, naturalmente, quelli di qualsiasi altro scrittore troppo complicato o contraddittorio – e anche, perché no, troppo immorale – perché lo si possa inserire in una narrazione edificante.
Naturalmente il sottoscritto, in ciò molto serenamente binario, pensa che le tre tendenze qui sommariamente descritte – a misurare gli oggetti culturali del passato col metro della loro attualità, cioè della loro capacità di illuminare certi caratteri della vita odierna; a impostare lo studio di questi oggetti in forma di tesi e antitesi; a sostituire l’acculturazione con l’edificazione – siano tutte e tre sbagliate, e che sia giusto invece parlare di Dostoevskij sempre, in qualsiasi luogo, tempo e occasione, senza dedurne alcunché sulla Russia dell’Ottocento o sulla Russia di oggi, e senza mettere in mezzo «autori ucraini». O Tolstòj.
Un’ultima osservazione. Chi fa o scrive cose per il pubblico (è il caso dei docenti e degli amministratori di un’università) è esposto molto più che in passato a errori e figuracce come questa, perché tutto è immediatamente noto a tutti e perché il pubblico è virtualmente il mondo intero, ed è composto per buona parte da persone suscettibili. Chieste e ottenute le scuse, il «pubblico» non ha altro da pretendere. È fuori luogo che il biasimo si estenda a un’intera istituzione; ed è fuori luogo la richiesta di dimissioni (un tic, questo, che per uno spiegabile paradosso sembra affliggere in particolare coloro che predicano l’intangibilità del posto di lavoro, specie se pubblico). Quello che è successo è abbastanza interessante – per le ragioni che ho cercato di spiegare – e molto ridicolo, ma non è grave. Grave è la guerra; e non sarebbe male se almeno la guerra riuscisse a farci ritrovare un po’ di misura nella conversazione.