Nella seconda metà degli anni Novanta dopo pranzo ascoltavo quasi sempre il Deejay Time di Albertino con il fondamentale trittico di supporto Fargetta-Molella-Prezioso, e nelle altre ore della giornata finivo un dottorato in Letteratura italiana occupandomi tra l’altro di critica letteraria italiana del secondo Novecento e leggendo Contini Baldacci Mengaldo Garboli, e ricordo di non essermi neanche stupito tanto quando una sera un po’ prima del Tg2 capitai per caso su una puntata di un programma che s’intitolava I fanatici del libro in cui il conduttore, Albertino del Deejay Time, giubbotto di pelle nero e capelli lunghi fino alle spalle, intervistava Cesare Garboli, del quale avevo appena letto il libro forse più bello, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli. Erano anni così. O forse, meglio: sono stati, sono anni così a partire da quegli anni, e non saprei neanche dire se è stato un bene o è stato un male, forse la questione non va posta in questi termini, forse non va posta proprio.
Rai Due la dirigeva Freccero, ancora compos sui: bisognava ringiovanire, contaminare. Tommaso Labranca aveva da poco pubblicato Andy Warhol era un coatto (1994) ed Estasi del pecoreccio (1995), e aveva fatto Anima mia insieme a Fazio e Baglioni. In Estasi del pecoreccio c’era un capitoletto molto spiritoso intitolato Come si diventa Fiorello scritto in forma di lettera aperta a Roberto Calasso («Mi dia ascolto: lasci Fleur e prenda Fiorello. Cominci magari dalle cose più esteriori. Le copertine, per esempio. La smetta con quei dettagli tratti da quadri classicheggianti! Vede, vuole fare il raffinato e poi cade nella trappola del peggior Barocco brianzolo. Angeli, sindoni, mercuri alati… bleah. Prima o poi rischierà di scegliere qualche pagliaccio triste o qualche marina di Camogli all’alba […] Ha presente le giacche o i cappotti di Fiorello? Quei colori sono adatti a un impatto pop»); e c’era un capitoletto intitolato Come si diventa Albertino nel quale Albertino veniva molto elogiato per aver saputo creare «capolavori energetici come Alba volume 1, Alba volume 2 e via numerando [mentre] la Bompiani sforna la compilation più moscia e autocelebrativa dell’anno, ossia Panta». Sia Fiorello sia Albertino lavoravano a Radio Deejay, insieme (o un po’ prima o un po’ dopo, è lo stesso) a molti di quelli che sarebbero diventati i protagonisti dello show-biz musicale-televisivo dell’ultimo quarto di secolo (Amadeus, Scotti, Jovanotti, Elio e le Storie Tese, la Gialappa’s Band tra gli altri: pochissime donne). Negli anni Novanta Radio Deejay aveva tradotto in pratica la teoria di Antonio Gramsci, anche se in un suo modo peculiare (ma non è sempre così?): era diventata culturalmente egemone.
Siamo qui per un compleanno. Deejay nasceva quarant’anni fa esatti: i programmi sono partiti il primo febbraio 1982, ma il primo intervento in voce è arrivato qualche mese più tardi, il 28 settembre, ed era la voce allora esilina di Gerry Scotti ventiseienne: «Anche un vecchio marpione come me [sic!] vive momenti di emozione come questo. Speriamo che lo sia anche per voi». Nei primi tempi ha continuato ad essere quasi solo una radio di musica, quasi solo inglese o americana, pochissimo spazio per le chiacchiere: l’idea era quella di fare una anti-Rai calibrata soprattutto sugli ascoltatori più giovani. Poi le cose sono cambiate in fretta. Sono arrivati i programmi comici, poi i programmi dedicati alle nicchie musicali (hip hop, rap eccetera), poi il Deejay Time che era e ancora è una specie di spettacolo d’arte varia; e soprattutto – mentre crescevano i deejay, cresceva il pubblico, nascevano internet, YouTube, TikTok, Spotify – si è preso atto che le canzoni si ascoltano ormai da altri canali, e che la salvezza passa proprio dalle chiacchiere, cioè dalla simpatia autorevolezza piacevolezza intelligenza (o anche idiozia, eh) di chi sta davanti al microfono. E insomma aveva ragione la Rai.
Oggi Deejay è, presa in blocco, una delle radio più ascoltate in Italia (se la gioca con 105, RDS e RTL), ed è senz’altro la più riconoscibile tra le private, in un ambiente in cui la riconoscibilità dei suoni, della musica e delle voci è tutto, perché genera fidelizzazione, cioè un attaccamento al marchio, al canale che generalmente non si dà nel caso della televisione: uno non vede Rete 4 o La 7, vede la TV; invece uno ascolta Deejay (o la Rai, o Radio 24), e tendenzialmente solo quella. «Che radio ascolti di solito?» è una domanda sensata, «Che canale televisivo guardi?» no.
Il prodotto, naturalmente, può piacere o non piacere: salvo che a qualcuno non piace per pregiudizio, perché il nome evoca musicaccia da discoteca, il che era in parte vero un tempo ma non è più vero da parecchio; anzi, nel complesso, la selezione musicale di Deejay è probabilmente la migliore, cioè la meno rozza tra quelle che si possono ascoltare alla radio italiana, canali Rai compresi a parte Radio 3. Politica poco o niente, per fortuna, quasi solo nello spazio perimetrato dei pochi radiogiornali. Tra i rari talenti radiofonici che Linus avrebbe voluto arruolare, negli ultimi anni, c’è Giuseppe Cruciani, che un po’ di politica, a suo modo, l’avrebbe portata, ma che per fortuna è rimasto a Radio 24: sarebbe stato un disastro, per lui e per loro. Del resto, è chiaro che Radio Deejay non è veramente un prodotto fatto e finito ma è composta da tanti prodotti quante sono le voci che parlano dai microfoni, tutte molto distinguibili, tutte – come si dice – con una spiccata personalità. Costanti, tra un programma e l’altro, sono pochi elementi che appartengono a quello che gli esperti chiamano sound design, come per esempio il booonk che introduce gli spot pubblicitari (si provò a eliminarlo, anni fa, ma ci fu una mezza sollevazione popolare, e il booonk rimase al suo posto). A parte questa omogeneità di contorno, si cerca la varietà, vale a dire che ogni programma, in tagli da due o tre ore, segue strategie diverse per coinvolgere i vari tipi di ascoltatori, che è la cosa essenziale, perché senza gli ascoltatori non ci sono gli sponsor, e senza sponsor la baracca crolla, con effetto-domino sulle baracche vicine, visto che Deejay fa parte del gruppo editoriale GEDI (non ho letto i bilanci, ma ho l’impressione che le tre radio del gruppo, Deejay Capital e M2O outperformino rispetto alle aziende sorelle); per esempio: la radio come kindergarten con il Trio Medusa dalle 7 alle 9; la radio come amabile conversazione con Linus e Nicola Savino dalle 10 alle 12, la radio come comunità solidale con La Pina dalle 17 alle 19, eccetera.
Da circa vent’anni la radio è diretta da Linus, che era nato per farla, la radio, non per dirigerla, e non ha un master in Bocconi, ma che sembra essersela cavata impressionantemente bene. È un’azienda, ma non vende cose; non bisogna gestire operai o agenti commerciali, e nemmeno dei semplici speaker che mettono i dischi e per il resto del tempo se ne stanno zitti; si tratta di gestire dei talenti, e talenti non ordinari, cioè non facilmente incasellabili in vocazioni, professioni, ruoli predefiniti: non veramente artisti (anche se spesso affetti dai vizi dell’artista: egocentrismo, vanità, irresponsabilità nei confronti del gruppo), non veramente impiegati (anche se soggetti a un orario ferreo, durante l’anno e durante la giornata: concentratissimo ma ferreo).
Non dev’essere facile sceglierli, farli crescere, raffinarli, combinarli con altri talenti in modo da far venir fuori un palinsesto che funzioni e – negli ascolti, nella raccolta pubblicitaria – prevalga sui palinsesti più facili (cioè più pop, con tutto quello che il nome contiene) delle altre radio. Si va un po’ a naso, un po’ ci si raccomanda alla fortuna, mi ha detto Linus (stiamo facendo un podcast celebrativo con interviste ai veterani della radio); uno vorrebbe cambiare, sperimentare, ma cambiare è un rischio, specie quando le cose funzionano. Bisogna tenere conto di ciò che preferisce fare il deejay (orario, tipo di programma, compatibilità coi colleghi, perché non tutti stanno bene con tutti, anzi quasi nessuno), ma soprattutto bisogna tenere presente ciò che vuole il pubblico, e il pubblico è ovviamente iper-conservatore, come insegna la storia del booonk. Ma vale anche per i programmi. Tempo fa, in uno dei periodici restyling, si è pensato di cambiare l’orario super-collaudato della trasmissione Pinocchio (La Pina + Diego + Valentina), che va in onda dalle 17 alle 19 (c’è un nome tecnico: drive time, uno accende la macchina e si aspetta di trovare quelle voci, non altre). Tumulti popolari, e-mail indignate al direttore, come e più che per il booonk, così alla fine Pinocchio è rimasto dov’era. Li capisco: tumultuerei anch’io se spostassero Deejay chiama Italia al pomeriggio. In un’epoca e in una società fluide, in cui persino le stagioni non sono più quelle di una volta, uno ha bisogno di punti fermi, del ritorno dell’identico alle cinque di un pomeriggio feriale. Ma restare immobili non si può, se non altro perché i deejay invecchiano e le mode cambiano, e quindi… Quindi è difficile.
Io, devo dire, li amo tutti di un amore incondizionato. Dopo anni di ascolto, di alcuni conosco non solo la voce ma anche il carattere, le smanie, i difetti; di un sottogruppo conosco bene anche le biografie: i divorzi, i nomi dei figli, dove vanno al mare. Anzi, di certi mi sono trovato inaspettatamente ad approfondire le biografie, un po’ come faccio con gli scrittori che studio, probabilmente perché sono vite che – come la coppia Albertino-Garboli – dicono qualcosa di interessante sull’Italia di fine Novecento, quando i genitori borghesi o anche piccolo-borghesi volevano i figli dottori, o almeno geometri o ragionieri, e perciò brigavano, ammonivano, pagavano soggiorni all’estero in vacanza-studio, o accordi au pair da cui i figli e le figlie tornavano magari senza tanto inglese ma con uso di mondo, e quelle che oggi si chiamerebbero competenze extra-curricolari. Ecco, invece a Deejay no, o solo in una minoranza di casi. Qui le storie di successo più notevoli e – posso dirlo? – più commoventi sono quelle dei figli dei poveri o quasi-poveri, gente che faceva fatica: Linus e Albertino da Paderno Dugnano, Fabio Volo (si sa) dalla Brescia panificatrice; ma anche i giovani: Alessandro Cattelan da Tortona. Ci si domanda come hanno fatto non solo ad amministrare sé stessi o un’azienda ma anche più banalmente a imparare quel po’ di inglese che a un certo punto è diventato necessario per cavarsela coi titoli dei dischi e con gli ospiti. Working class heroes, mi ha detto Albertino. In effetti. Mi piace sentire, vedere come si sono emancipati: è da un pezzo che non sono più, per continuare con Lennon, «fucking peasants, as far as I can see». Grazie al successo e ai soldi, naturalmente. Ma anche (m’illudo? Illudiamoci) grazie a quel tipo di comprensione dell’esistenza che si acquista non studiando ma, semplicemente, vivendo con gli occhi bene aperti e lavorando. ‘Università della vita’ non si può più dire se non ridendo amaro, dopo che i no-vax e simili l’hanno fatto diventare il blasone degli imbecilli, ma la verità è che l’università della vita funziona eccome, cioè può funzionare se lo studente si applica, ha funzionato splendidamente per gli ex-proletari di Via Massena 2.
Se si tiene conto di tutto questo, una certa bulimia si spiega e si giustifica. Hanno fatto e fanno di tutto, di tutto. Radio, televisione, serate in discoteca, riunioni aziendali, capodanni con orchestra e cotillons nelle balere nei palasport nelle piazze, linee di vestiti, di cancelleria, di oggettistica varia; e insomma – per usare la formula che usano loro – un’infinità di cose con gli sponsor, il tutto in cambio di una quantità di denaro che non so né voglio precisare, e che loro giustamente non precisano, ma che quasi sempre supererà, e di parecchio, il tetto massimo degli stipendi pubblici annui (240k). Tutto tassato? Immagino di sì, se ti contrattualizza l’Adidas. Con le discoteche della riviera immagino andasse diversamente, specie ai tempi eroici in cui tutti erano giovani, il riflusso degli anni Ottanta aveva tracimato nei Novanta e si lasciava allegramente cavalcare da questi artisti con partita IVA. Ma soprattutto: LIBRI. Quasi tutti ne hanno scritto uno, o hanno collaborato alla stesura di uno, due, tre libri. Linus tre o quattro, la Pina tre o quattro, Volo la carrettata che sappiamo. Nicola Savino resiste, ma prima o poi cederà.
Intanto fuori, sul marciapiede, una comitiva di turisti o viaggiatori di commercio o passanti non milanesi riconosce il marchio e ha l’agnizione: «Ah, ma è qui, One Nation One Station?». E partono con le foto. Dentro, al di là della porta di vetro, c’è una scala con i gradini trasparenti illuminati da led che proiettano le faccine di Pac-Man, il videogioco giapponese che è solo di qualche mese più anziano di Deejay. Forse la scoperta più rivoluzionaria del secondo Novecento è stata questa: aver capito che era possibile cambiare così tante vite, e così tanto la vita di tutti, attraverso cose effimere come i videogiochi o la musica da discoteca, o le chiacchiere semi-improvvisate davanti a un microfono. Che bello, dopotutto.