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Su “Insegnare al principe di Danimarca” di Carla Melazzini

Il Foglio8 Gennaio 2022

I bei libri sulla scuola non invecchiano, perché anche se tutto cambia intorno a insegnanti e studenti, e quasi tutto è cambiato in questi ultimi decenni, il fondamento della scuola, che è appunto la relazione tra gli uni e gli altri, resta sempre il medesimo. Mutevoli, naturalmente, sono i modi di questa relazione, e sui modi è interessante ascoltare anche l’opinione di persone vissute in epoche remote, o in contesti diversi da quello che la gran parte di noi ha sotto gli occhi ogni giorno: perché si tratta di opinioni che, se formulate con coscienza e serietà, ruotano intorno alla domanda non su come bisogna insegnare bensì su come bisogna vivere.

Dieci anni fa l’editore Sellerio ha pubblicato un libro di Carla Melazzini dal titolo Insegnare al principe di Danimarca. Il libro, che ha avuto ed ha lettori affezionati, è però adesso fuori catalogo, e qui se ne vorrebbe sollecitare la ristampa, non tanto per il suo specifico interesse pedagogico, che pure c’è, ma appunto perché si tratta di uno di quei casi – non rari, come accennavo – in cui il discorso sulla scuola allude a questioni più grandi, che dovrebbero stare a cuore anche a chi con la scuola non ha niente a che fare.

Nata in Valtellina nel 1944, nei primi anni Sessanta Carla Melazzini vinse il concorso d’ammissione alla Scuola Normale di Pisa, ma la abbandonò prima di concludere il regolare corso di studi e andò a vivere a Napoli, dove lavorò come insegnante. Non saprei ricostruire con esattezza il suo percorso professionale: nel sito della rivista «Una Città» un suo vecchio articolo è preceduto dalla didascalia «insegna all’Istituto Nautico di Napoli». Ma non importa. Importa che a un certo punto incrociò i colleghi insegnanti che poi sarebbero diventati i «Maestri di strada» e insieme a loro, alla fine degli anni Novanta, iniziò a lavorare a un progetto di scuola chiamato Chance, che intendeva dare un’opportunità di educazione e di crescita ai ragazzi «poli-problematici» della periferia napoletana. Chance è durato undici anni, preparando per la licenza media centinaia di ragazzi che avevano abbandonato la scuola anzitempo. Melazzini è morta nel 2009. Due anni dopo il marito Cesare Moreno – insegnante anche lui, e uno dei motori del progetto «Maestri di strada» – ha raccolto parte dei suoi scritti nel volumetto in questione.

Il principe di Danimarca del titolo è naturalmente Amleto. Ricordate la trama? Suo padre, il re di Danimarca, è stato ucciso, e l’omicida è il fratello Claudio, che ha sposato la vedova Gertrude usurpando il trono. Che cosa farà Amleto? Chi negherà il suo diritto alla vendetta? Chi lo potrà biasimare se prenderà le armi per lottare contro «i torti dell’oppressore e le offese del superbo»? Ebbene, il quindicenne Mimmo è il protagonista di una tragedia molto simile: la madre ha abbandonato lui, i quattro fratelli e il marito, ed è andata a vivere con un altro uomo. Mimmo è convinto che sia suo dovere uccidere quest’uomo. «Un insegnante di media cultura e umanità – così comincia il libro – è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l’intensità e la consequenzialità del principe Amleto?».

A dire la verità, gli adolescenti e pre-adolescenti di cui si parla in questo libro sono molto più intensi e consequenziali di Amleto, le passioni hanno su di loro una presa molto più forte, e la razionalità un dominio molto meno esteso. Vengono da famiglie disastrate, spesso senza il padre o con il padre in prigione; succube dei genitori, le madri si sono sposate presto e hanno fatto subito troppi figli, sui quali non esercitano alcun controllo o autorità; hanno pochi soldi e quei pochi li spendono male, in consumi vistosi; vivono in quartieri presidiati dalla camorra, e dal quartiere non si muovono per inerzia, paura, mancanza di opportunità. Una delle pagine più belle di un libro che pagine belle ne ha molte è quella in cui Melazzini riflette su questo esiziale radicamento, che càpita spesso di veder idealizzato da osservatori frettolosi e inclini all’autoinganno:

… A ciò concorre la napoletanità, esaltazione della comune radice. Chiunque si prendesse la briga di venire in questi quartieri a verificare la maledizione di certi cognomi, che ricorrono di generazione in generazione, sempre gli stessi, scritti in rosso sui tabelloni dei bocciati, scritti in nero sui manifesti funebri recanti la sigla “è mancato all’affetto dei suoi cari”, riservata ai morti ammazzati, costui si leverebbe il vizio di elogiare il radicamento.

In questo ambiente non esattamente propizio, gli insegnanti di Chance fanno quello che possono. In un’intervista recente, Moreno – che, come Melazzini, è un uomo abbastanza immune dalla retorica – ha descritto in modo molto efficace l’obiettivo che ci si può realisticamente porre in contesti del genere: «Ma quindi dobbiamo fare una scuola di serie B? Sì, dobbiamo fare una scuola di serie B, cioè di serie B per chi la vuole vedere così, io la vedo come una serie soggetta a promozione, sto in B ma voglio andare in A. Quindi non è brutto stare in serie B. La cosa essenziale è che io lo faccia bene e che lo faccia in modo tale da ottenere un certo progresso».

Insegnare al principe di Danimarca è il diario o registro di questa scuola di serie B, o anche di serie C, e addirittura non-scuola ma, volta a volta, a seconda delle esigenze, rifugio, comunità di ascolto, consultorio, luogo adatto a sedute di autocoscienza, e insomma tutto quello che può servire perché i Mimmo-Amleto crescano decentemente o almeno non si mettano nei guai. A rigore, quindi, non è nemmeno un libro sulla scuola: parla infatti di un tipo di scuola così particolare che gli insegnamenti che offre apparentemente non possono essere applicati alle molto più normali scuole che tutti noi conosciamo o per esperienza diretta o attraverso l’esperienza dei nostri figli, le scuole in cui il problema principale è calibrare bene il POF, Piano dell’Offerta Formativa, o decidere se fare più Odissea o più Iliade. Ma appunto: apparentemente. Perché in realtà le lezioni che s’imparano facendo scuola nelle periferie di Napoli non sono meno valide se dal sud si passa al nord, dalle periferie al centro e dalle scuole medie alle superiori: che nei pre-adolescenti e adolescenti quello che si deve educare è anche e soprattutto un corpo; che gli spazi in cui essi sono ospitati (il decoro, la comodità, l’agio di muovercisi dentro) sono cruciali; che parte della crescita consiste nell’abbandonare la propria zona di conforto, quindi anche, concretamente, nell’uscire dal quartiere e nel trovarsi in ambienti non familiari, tra persone che non conosciamo e che non ci conoscono (molte belle le pagine sull’importanza del camminare insieme, adulti e ragazzi); che quasi niente s’impara se tra docente e discente non esiste un rapporto di fiducia, meglio ancora di affetto, e che perché questo rapporto si dia – come Melazzini ripete più volte nel corso del libro – «ci vuole tempo», quindi continuità, in un contesto che di tempo ne concede poco.

Sono, se si vuole, cose ovvie, ma che è facile dimenticare, distratti come siamo, appunto, dalla compilazione dei programmi e dal penoso slalom tra gli ‘adempimenti burocratici’. E del resto il libro contiene anche osservazioni molto intelligenti proprio intorno ai programmi, e in particolare intorno ai testi narrativi – letteratura, cinema, teatro – che è più produttivo proporre ai ragazzi (e di nuovo: non c’è ragione di pensare che ragazzi meno disagiati abbiano bisogno di una dieta diversa, qui si parla di tutti). Portare la realtà in classe – attraverso il giornale, il documentario, il reportage – non è probabilmente la scelta giusta. La realtà è anche troppo presente nella loro vita quotidiana e nella loro immaginazione; bisogna accompagnarli fuori, mostrargli che esistono altri mondi e altri usi possibili delle parole. «Il testo che maggiormente offre strade ai processi di identificazione ed elaborazione – scrive Melazzini – è quello narrativo; più è metaforico, meglio è: protegge l’adolescente dai rischi di un’intrusione che lo spaventa, e gli dà maggiore libertà di scelta su ciò che può prendere o rifiutare. Il messaggio implicito dovrebbe essere positivo, ma non banale. Mi sono trovata bene con fiabe, aneddoti, storie di animali o di personaggi di altre epoche o ambienti, mentre il realismo contemporaneo di certi raccontini confezionati per ragazzi è quasi sempre insulso. La grande letteratura è sempre la cosa migliore». E quindi va benissimo, per esempio, La metamorfosi di Kafka (chi, dei familiari, verrà in soccorso del giovane uomo trasformato in insetto? La madre? Il padre? La sorella? Ecco un bel modo di ‘lavorare sul testo’, specie per ragazzi che hanno quasi sempre situazioni familiari complicate), che va letta in classe, ad alta voce, più volte («ci vuole tempo», appunto).

Niente impicci teorici, nessuna ‘chiave interpretativa’ imposta sconsideratamente sui pochi testi che si riescono a leggere in classe, che sono anche gli unici dei quali gli studenti abbiano esperienza:

La moda strutturalista dei decenni passati è riuscita a surgelare e disattivare perfino le pagine più ricche di potenziale metaforico, che sono i testi letterari. Mi veniva da piangere a vedere classi intere intente a dissezionare le pagine più belle sul tavolo anatomico per scoprire che cosa? Non i significati che arricchiscono la vita, ma la fabula e l’intreccio, per non dire delle 31 funzioni di Propp. Come se a un bambino che non ha mai incontrato un animale si presentasse un capretto da sezionare e disossare, per capire come fanno i macellai.

E oltre alla narrativa, il teatro: «Un tipo di testo che facilita molto la lettura è quello teatrale […], perché il piacere, la curiosità, o la paura di impersonare, identificarsi, esibirsi, ecc., e la naturale teatralità dei ragazzi e della loro cultura materna è tanto forte che spinge quasi tutti ad affrontare la difficoltà tecnica».

Invece, dicevo, bisogna stare molto attenti quando si pensa di usare la letteratura o il cinema per predicare, per seminare valori o produrre una virtuosa mozione degli affetti. Uno dei brani più acuti del libro è quello in cui Melazzini riflette sulla proiezione di Schindler’s List a una classe di studenti delle medie. Le vecchie fiabe mostrano il debole che alla fine la spunta sul più forte. Che effetto deve fare invece a ragazzi non ancora formati una storia in cui, cito, «il debole, spogliato delle sue vesti, cioè della sua identità, si avvia senza ribellarsi all’annientamento insieme a milioni di suoi simili? Non è pensabile che l’angoscia prodotta dalla immediata identificazione con la vittima non produca a sua volta un segreto desiderio di identificarsi con il carnefice. Allora il senso di colpa connesso a un simile desiderio non potrebbe trovare sollievo finalmente nella negazione che tutto ciò sia mai realmente accaduto?». Sono parole su cui riflettere: non è detto che l’ostensione del male produca, in persone immature, un moto istintivo verso il bene; si rischia di ottenere anzi l’effetto contrario (viene in mente Giusva Fioravanti, che ricordando gli anni della scuola dichiara candidamente che lui e i suoi camerati non erano affatto neofascisti, non sapevano nemmeno cosa volesse dire: volevano solo essere odiati).

Come appare chiaro dalle poche righe che ho citato, Insegnare al principe di Danimarca è scritto molto meglio di come sono scritti di solito i libri sulla scuola. È concreto, vicinissimo alle cose, perché Melazzini non parla delle sue letture ma delle sue esperienze. I nomi celebri che si trovano nel libro sono, ogni tanto, quello di Freud o quello di Winnicott, entrambi usati con la discrezione e l’intelligenza che traspare anche solo dall’ultimo brano che ho citato. Non c’è nessun flirt con la bibliografia accademica o con i filosofi, nessuna citazione da Husserl o da Dewey per rafforzare un’argomentazione zoppicante. D’altra parte, Melazzini si tiene lontana anche dal linguaggio assiomatico e oracolare di certi altri insegnanti che hanno lavorato con ragazzi non votati, diciamo, al successo scolastico (c’è qualcosa di urtante nella prosa di educatori pur ammirevoli come Deligny o don Milani). Lei racconta, e sulla base del racconto, cioè della realtà esperita, argomenta con ordine e senza retorica. Anche questa appropriatezza di tono fa di questo strano libro sulla scuola, semplicemente, un bel libro, che se tornasse in catalogo piacerebbe certamente a un pubblico molto più ampio di quello degli insegnanti.

 

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