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Dante: un talento per la grazia

Domenicale del Sole 24 ore21 Marzo 2021

Il tema – le donne di Dante – potrebbe apparire futile, ma se trattato seriamente non lo è per niente, anche perché obbliga a fare i conti sia con la biografia del poeta sia con la sua opera. Quanto alla prima, bisogna lavorare a partire da una documentazione lacunosa sempre, e specialmente per quel che riguarda gli anni dell’esilio; quanto alla seconda, bisogna interpretare cercando di non cadere nelle tante trappole che quel grosse Mystificator che era Dante (definizione di Curtius riferita da Contini) tende al suo lettore. Marco Santagata – il suo saggio su Le donne di Dante (Il Mulino) esce a pochi mesi dalla sua morte – era in grado di fare bene entrambe le cose, perché a Dante aveva dedicato una biografia, e perché sulla poesia di Dante, soprattutto sulla Vita nova e sulla Commedia, aveva scritto molto nei suoi ultimi anni. Aveva anche un certo gusto per la contaminazione romanzesca che, se non era sempre condivisibile nei saggi scientifici, conferisce ai suoi scritti divulgativi (come questo volume, appunto) una splendida leggibilità.

Se guardiamo al cuore e al cervello, Dante Alighieri ha avuto una traiettoria di vita diversa, anzi quasi opposta, rispetto a quella che consideriamo normale in un uomo del nostro tempo. Quanto al cervello, la sua cultura, la straordinaria erudizione che metterà a frutto nel Convivio, nella Monarchia e nella Commedia, Dante se la costruisce soprattutto intorno ai trent’anni, cioè non nell’adolescenza ma nella gioventù, e poi la rassoda nella piena maturità, durante l’esilio, meditando i libri che poteva trovare in città come Bologna e Verona, o nelle corti dei prìncipi più illuminati. È lui stesso a dircelo in una pagina celebre del Convivio in cui data a dopo la morte di Beatrice, cioè a dopo i suoi 25 anni, l’immersione nell’alta cultura scolastica («cominciai ad andare […] nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti»). Quanto al cuore, la sua educazione sentimentale inizia e finisce con Beatrice: alla lettera. La vede per la prima volta a 9 anni, la rivede a 18, se ne innamora ma con lei non ha certo quella che oggi chiameremmo una relazione: lui sposerà un’altra donna (della quale non farà parola nelle sue opere), lei sposerà un altro uomo, e morirà a 24 anni. Eppure. Eppure nei trent’anni successivi questa ragazza appena sfiorata sarà insieme la sua ossessione e la sua primaria fonte d’ispirazione artistica.

In Piattaforma, Houellebecq ricorda un detto di Schopenhauer secondo cui «ci si ricorda della propria vita appena un po’ di più di un romanzo che si sia letto nel passato». Di fatto, che cosa ricorderemo, che cosa ricordiamo della nostra gioventù, alla fine della vita? Poco, e quel poco ha confini sempre più incerti. Dante invece ricordava tutto. Non solo gli odî (non è raro che gli odî si ricordino a lungo) ma anche gli amori, cioè l’amore: «Tu m’hai di servo tratto a libertate / per tutte quelle vie, per tutt’i modi, / che di ciò fare avei la potestate». Siamo verso la fine del Paradiso, Beatrice ha ripreso il suo scanno nella rosa dei beati, Dante le rivolge un ultimo ringraziamento. Sono versi scritti attorno al 1320, dalla morte di lei sono passati trent’anni: rivoluzioni politiche, guerre, poesia, miseria, l’Italia percorsa in lungo e in largo e, soprattutto, quel trauma fisico e psicologico che è (e allora doveva ancora di più essere) il diventare vecchi – non c’è cosa che sia rimasta ferma, nella vita di Dante, in tutto questo tempo, salvo il ricordo grato e amorevole, la devozione per Bice Portinari.

Ciò considerato, non è strano che a Beatrice sia dedicata buona parte di questo libro di Santagata. Le altre donne della vita di Dante sono troppo evanescenti per meritare qualcosa di più della semplice menzione: la donna-schermo alla quale Dante finge di rivolgere le sue attenzioni nella prima parte della Vita nuova; la donna gentile che lo tenta nel finale del libro; la donna-pietra che ispira una piccola serie di canzoni dette appunto ‘petrose’. E del resto: si tratterà di donne reali o di personaggi immaginari? Nelle opere in cui le troviamo rappresentate, la Vita nuova, appunto, e le Rime, il confine tra verità e fantasia è labile. Più interessanti sono le donne reali, storiche, trasfigurate dall’arte poetica di Dante: e qui Santagata unisce in maniera molto felice l’analisi dei versi danteschi alle notizie erudite ricavate soprattutto dagli antichi commentatori, e ci restituisce i profili di figure memorabili (ma destinate all’oblio, se non le avesse eternate la penna del poeta) come Francesca da Rimini, Pia de’ Tolomei, Piccarda Donati; ma riesce a dare consistenza anche a personaggi che il lettore non specialista ignora o ha dimenticato: Sapia, Cunizza da Romano, l’inafferrabile Matelda.

C’è infine, appena sfiorato da Santagata ma ben degno di sviluppo, il tema connesso ma distinto del ‘femminile’ non nella trama delle opere di Dante ma nella sua scrittura. In una delle sue Note in margine a una vita assente Paolo Milano osserva che «la tenerezza di Dante, tanto più intensa quando è segreta, commuove più d’ogni altra qualità del suo genio», e come campione di tenerezza cita il meraviglioso passo del Purgatorio in cui Matelda accoglie l’invito di Beatrice, e accompagna Dante all’Eunoè: «Come anima gentil, che non fa scusa, / ma fa sua voglia della voglia altrui / tosto che è per segno fuor dischiusa…».

Leggendo certe parti della Commedia io ho sempre avuto un’impressione simile, ma me la sono spiegata in maniera leggermente diversa, cioè come prova di un’eccezionale sensibilità alla grazia e alla gentilezza, sensibilità che si manifesta sia attraverso l’impiego di un certo vocabolario (la pletora di vezzeggiativi e dolci epiteti non solo in certe liriche giovanili ma anche nella Commedia, per esempio nella miniatura che apre Inf. 24: il villanello, le pecorelle, la «sorella bianca» per dire la neve, eccetera), sia, soprattutto, attraverso l’evocazione di certe immagini: immagini – vengo al punto – quasi sempre femminili, che si trovano non solo là dove uno se le aspetta, nelle poesie d’amore, ma anche incastonate nelle similitudini del poema, in alcuni dei versi danteschi più belli e, credo, relativamente meno noti: la «perla in bianca fronte» di Par. 3; la rapida successione tra rossore e pallore di Par. 18 («E qual è ’l trasmutar in picciol varco / di tempo in bianca donna, quando il volto / suo si discarchi di vergogna il carco»); e soprattutto l’incantevole paragone di Par. 10 tra le anime del paradiso e le danzatrici che, interrotta la danza, aspettano che l’orchestra riprenda a suonare («donne mi parver, non da ballo sciolte, / ma che s’arrestin tacite, ascoltando / fin che le nove note hanno ricolte»). Tutti brani del Paradiso, com’è giusto, dato che è da lassù che nell’anno 1300, mentre Dante brancolava nella selva oscura, si è mosso il drappello di donne, tutte donne – la Vergine Maria, santa Lucia, Beatrice – che gli ha salvato l’anima.

Marco Santagata, Le donne di Dante, Il Mulino 2021.

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