L’osservazione non è nuova, ma vale sempre la pena di ripeterla. L’educazione umanistica a scuola passa per buona parte attraverso lingue morte, come il latino e il greco, e generi non morti ma quiescenti, come il teatro e la poesia. È un dato di fatto, ed è tutt’altro che un invito a disfarsi del latino, del greco, del teatro e della poesia. Ma, insieme col fatto, non si può fare a meno di rilevare due circostanze: che fino a qualche decennio fa il teatro e la poesia non erano affatto quiescenti, e avevano una presenza sociale imparagonabile a quella odierna; e che fino a qualche decennio fa gli studenti – ma tutti noi – non avevano quasi esperienza di arti verbali alternative a quelle veicolate dai ‘generi della scuola’ (romanzo, poesia, teatro). Oggi questa esperienza si dà con facilità estrema, perché nuove arti verbali o anche verbali (la canzone, il cinema, le serie televisive, i videogiochi) hanno affiancato i generi tradizionali sino quasi a soppiantarli nella mente e nella coscienza dei più. Con surrogati così luccicanti, e così vicini alla vita che viviamo, chi ha bisogno di quei polverosi originali che sono le opere dei drammaturghi e dei poeti? Di fatto, nessuno dei miei conoscenti, e ben pochi tra i miei colleghi (e insegno in un dipartimento di Lettere), legge regolarmente poesia, cioè la cerca sugli scaffali delle librerie, oppure riapre l’antologia scolastica per rileggere Petrarca o Leopardi o Montale.
Eppure. Eppure quando càpita di far leggere una poesia davvero bella ad amici intelligenti che non ne leggono da anni, l’effetto è quasi sempre garantito, la gratitudine sempre sincera: mi è capitato non più di qualche settimana fa con una poesia presa dall’ultimo libro di Patrizia Cavalli, Con Elsa in paradiso: anche i meno inclini alla poesia non sono rimasti indifferenti, anche la loro giornata è stata illuminata da quelle parole. Forse l’errore sta nel somministrare overdosi di poesia a chi per età non è ancora pronto ad apprezzarla, forse è un genere che, specie quando si tratta di poesia post-romantica, esige un pubblico adulto. Poco prima di morire per un cancro al pancreas, Richard Rorty scrisse per la rivista «Poetry» un brevissimo articolo intitolato The Fire of Life nel quale raccontava di come, dopo la diagnosi, suo cugino gli avesse chiesto se in quei giorni difficili pensasse alla religione. «No», gli aveva risposto Rorty. «Alla filosofia, allora». No, neppure a quella: «Non ero in disaccordo – scrive Rorty – con l’idea di Epicuro secondo cui avere paura della morte è irrazionale, né col suggerimento di Heidegger che l’ontoteologia nasce dal tentativo di sfuggire alla nostra mortalità». Ma né l’atarassia né il Sein zum Tode sembravano capaci di destare il suo interesse di morituro. «Che cosa allora?», gli ha domandato il cugino. «La poesia». Dopodiché Rorty cita una manciata di versi di Swinburne e di Landor, e conclude: «Adesso vorrei aver passato un po’ più della mia vita in compagnia dei versi. Questo non perché temo di essermi perso delle verità che la prosa è incapace di formulare. Non c’è niente, nella morte, che Swinburne e Landor sapevano e che Epicuro e Heidegger non sono stati capaci di afferrare. Ma perché avrei vissuto in maniera più piena […]: culture con vocabolari più ricchi sono più pienamente umane, più lontane dalle bestie, di quelle con vocabolari più poveri; e gli individui sono più pienamente umani quando la loro memoria conserva un numero più grande di versi».
Immagino che Luca Serianni sottoscriverebbe queste parole, anche perché tra i vocabolari, più ancora che tra le poesie, ci ha passato la vita. Uno dei maggiori linguisti viventi, Serianni alterna da anni la ricerca scientifica serissima, con edizioni e commenti a testi soprattutto medievali, alla divulgazione fatta bene (Scritti sui banchi, 2009; Leggere scrivere argomentare, 2013; Prima lezione di storia della lingua italiana, 2015) e allo studio della tradizione poetica nazionale (pochi libri, per chi fa questi studi, sono più utili della sua Introduzione alla lingua poetica italiana, 2001). Ora da questa passione per la poesia è nato uno di quei libri a cui tutti prima o poi pensano, nella loro carriera, ma che quasi nessuno poi si mette a scrivere: s’intitola Il verso giusto, l’ha pubblicato Laterza e contiene, come dice il sottotitolo, 100 poesie italiane (o brani di poesie: ci sono anche pezzi della Commedia e dei Sepolcri) parcamente commentate. Parcamente significa che ogni testo è preceduto da un’introduzione di un paio di pagine che dà qualche ragguaglio sulla vita dell’autore e sulla natura del testo, e seguìto da un numero molto contenuto di note, per aiutare il lettore là dove la parafrasi è più difficile, ma senza quell’apparato spesso un po’ pletorico di rinvii ad altre opere del poeta, riscontri intertestuali e chiacchiere che si trova nelle edizioni cosiddette scientifiche. La paginetta e mezza dedicata ai Criteri di trascrizione, e poi le note relative alle edizioni dei testi citati, alla fine del volume, andrebbero mandate a memoria da parte di tutti coloro che insegnano letteratura, perché in una manciata di battute spiegano come meglio non si potrebbe fare come vanno pubblicati e letti i testi antichi, e per esempio che cos’è il raddoppiamento fonosintattico, e per quale ragione non è opportuno riprodurlo nelle edizioni moderne, perché nei manoscritti antichi si trovano grafie come ausgello per augello, e di nuovo non è opportuno riprodurle nelle edizioni moderne né tantomeno pronunciarle come sono scritte (analogamente il baciò/basciò del celebre verso di Francesca), o perché le parole «il somno et l’otiose piume» non vanno lette come sono scritte, e molto altro.
Di qui in poi c’è solo il piacere di discutere: approvando, obiettando. Quali autori scegliere? Quali testi? Perché questo e non quest’altro? Discutiamo, contro-proponiamo.
«Il duecentesco Detto del gatto lupesco – scrive Serianni – non è il primo testo che venga in mente, in questo panorama, lo riconosco, ma a me pare molto interessante, anche per documentare la presenza della cultura giullaresca in un mondo, quello della poesia più antica, che i ricordi di scuola affollano, e forse saturano, di donne angelo e di poeti che si lagnano dei loro amori infelici». Non si poteva dire meglio: della poesia del Medioevo la scuola ci consegna un’immagine un po’ troppo idealizzata, e anche noiosa, con tutte quelle minime variazioni sul tema dell’amore cortese, mentre i manoscritti sono pieni di testi bizzarri e divertenti come questo misterioso poemetto in distici di otto-novenari:
Sì com’altr’uomini vanno,
ki per prode e chi per danno,
per lo mondo tuttavia,
così m’andava l’altra dia
per un cammino trastullando
e d’un mio amor gìa pensando
e andava a capo chino.
Allora uscìo fuor del cammino
ed intrai in uno sentieri
ed incontrai duo cavalieri
de la corte de lo re Artù,
ke mi dissero: «Ki sè tu?».
E io rispuosi in salutare:
«Quello k’io sono, ben mi si pare.
Io sono uno gatto lupesco»
Un viaggio forse allegorico, i personaggi della saga bretone, la fauna fantastica delle fiabe (che sarà mai questo «gatto lupesco»?): dove trovare un invito migliore alla poesia delle origini di questo guazzabuglio?
Venendo alle cose più serie e scolastiche, di Cavalcanti ci si poteva aspettare Perch’i’ no spero di tornar giammai, o qualche sonetto d’amore. Ma qui Serianni continua a seguire la linea eccentrica avviata col Detto del gatto lupesco e sceglie un sonetto meno noto, Noi siàn le triste penne isbigottite, un sonetto che in giapponese si definirebbe kawaii, cioè più o meno ‘carino’, nel quale gli strumenti dello scrivere apostrofano la donna amata (non direi possa trattarsi invece di «lettori in genere») a nome del poeta che muore per amore:
Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.
Scelta originale, ma un testo solo, per Cavalcanti, è poco, e ce ne sono altri più belli e più rappresentativi, e altrettanto kawaii: io avrei messo quella ballata stranissima, forse unica nel panorama romanzo, Era in penser d’amor, nella quale l’io lirico riferisce un dialogo che ha avuto con due ragazze di campagna, un dialogo durante il quale il poeta rievoca un altro incontro con un’altra ragazza, questa conosciuta tempo prima a Tolosa, una ragazza che il dio d’Amore chiamava «la Mandetta» (Amande, Amandette?). Non ci sono animali rari, qui, ma l’atmosfera e il significato stesso del testo non sono meno misteriosi; e la modalità di gestione del dialogo – uno degli aspetti che sta più a cuore a Serianni, in questo libro e in altri suoi studi – è particolarmente interessante se paragonata a quella che ispira altri testi stilnovisti.
Per il Dante lirico la scelta è invece perfettamente equilibrata. Niente donne-angelo, niente languori cortesi, ma due testi ben noti, uno esemplare per la sua solarità (Guido, i’ vorrei) l’altro per il suo virtuosismo formale (Al poco giorno), e in più un sonetto meno noto e bizzarro, nel quale Dante mette in scena una specie di conflictus tra i piaceri della caccia e quelli dell’amore, un po’ come aveva fatto Ovidio negli Epodi e nei Remedia amoris, o come farà Poliziano all’inizio delle Stanze per la giostra:
Sonar bracchetti e cacciatori aizzare,
lepri levare ed isgridar le genti,
e di guinzagli uscir veltri correnti,
per belle piagge volger e ’mboccare,
assai credo che deggia dilettare
libero core e van d’intendimenti.
Il bello di un’antologia del genere è che si può andare avanti e indietro nel tempo, e per esempio saltare a un sonetto di Eustachio Manfredi (1674-1739), Vegliar le notti e or l’una or l’altra sponda, anch’esso, come il sonetto dantesco, costruito su una lunga serie di verbi all’infinito. Salvo che l’analogia è meramente formale, perché là dove Dante adopera gli infiniti per fissare azioni che vede compiere intorno a sé, Manfredi li adopera come figure dell’introspezione: «la soluzione espressiva – nota benissimo Serianni – di affidare sensazioni o rappresentazioni della realtà vissuta a un infinito, dunque assolutizzandole e quasi proiettandole al di fuori dell’io poetante, ha un sapore indubbiamente moderno (in fondo il Meriggiare montaliano si fonda sul medesimo procedimento espressivo)».
Della Commedia Serianni sceglie tre bei brani non scontati, che illustrano anche tre diversi modi nei quali Dante gestisce il dialogo tra e con i suoi personaggi: gli insulti tra maestro Adamo e Sinone nel trentesimo dell’Inferno, terzina contro terzina, brulicanti di termini materici e dissonanti come anguinaia, epa croia, criepa, acqua marcia…; il dialogo splendidamente naturale tra Dante e Nino Visconti nell’ottavo del Purgatorio («Quant’è che tu venisti / al piè del monte per le lontane acque?», cioè ‘da quant’è che sei in zona?’ La domanda, osserva Serianni, «che spontaneamente userebbero anche oggi per avviare la conversazione due interlocutori di diversa provenienza»); e, nel terzo del Paradiso, il dialogo di tono infinitamente più sostenuto e solenne con Piccarda Donati, dialogo che contiene alcune delle terzine più belle del poema, e tra le altre questa, in cui Piccarda spiega che, per abusare di un’altra immagine dantesca, il desiderio dei beati e il velle, la volontà di Dio coincidono: «in la sua voluntate è nostra pace, / ell’è quel mar al qual tutto si move / ciò ch’ella cria, o che natura face».
Siamo attorno a pagina 70, ne restano ancora 350. Uno dei guai della storia letteraria italiana è che è lunga. Quindi si può saltare, obliterare. Nel Canzoniere di Petrarca Serianni ha pescato benissimo, anche perché è difficile pescare male. Io non avrei rinunciato al sonetto 9, quello impostato sul paragone tra il sole primaverile e lo sguardo di Laura, che si chiude su quello che è uno dei più begli endecasillabi del Medioevo: «primavera per me pur non è mai» (magari al posto di Zefiro torna, che svolge un motivo analogo, ma su una corda più solenne, declamatoria). E avrei tolto almeno un paio di pagine ai Fragmenta per darle ai Trionfi: pochissimo letti a scuola, il Trionfo del Tempo e soprattutto il Trionfo dell’Eternità sono testi splendidi, che non sfigurano accanto all’ultimo canto della Commedia:
Quel che l’anima nostra preme e ’ngombra,
dianzi, adesso, ier, diman, mattino e sera,
tutti in un punto passeran com’ombra;
non avrà loco «fu», «sarà» ned «era»,
ma «è» solo, in presente, ed «ora» ed «oggi»,
e sola eternità raccolta e ’ntera.
È l’eternità secondo Petrarca, una tabula rasa che mette addirittura un po’ d’angoscia.
Dopo la morte di Petrarca si apre, diceva Croce, il secolo senza poesia: «una letteratura stanca, che vive di ricordi e di abitudini, incapace di rinnovare…». Non è vero, ma lo saltiamo lo stesso, e arriviamo all’inizio del Cinquecento. Qui, dopo quella di tanti poeti un po’ manierati, ascoltiamo la voce di un genio, Ariosto, con le ottave della follia di Orlando: «ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, / cavalli e buoi rompe, fracassa e strugge» (e il lettore diligente si ricorda, ma per contrasto, gli accumuli nominali o verbali di Petrarca: «fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi»), e soprattutto, ottima idea averle inserite, con le Satire, dove Ariosto racconta pari pari i fatti suoi, come forse nessuno aveva fatto prima nella tradizione italiana, senza idealizzare e senza parodiare, ma dicendo pianamente la verità: «E non mi nocerebbe il freddo solo; / ma il caldo de le stuffe, ch’ho sì infesto, / che più che da la peste me gl’involo» (Satira prima, Ariosto si rifiuta di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria, e accampa ragioni: laggiù fa freddo, gli ambienti sono troppo riscaldati; più avanti accuserà i cibi troppo speziati, il vino che dà alla testa, il puzzo e le cattive maniere dei barbari rutteggianti che vivono in quelle regioni).
Tra il Cinquecento, dopo Tasso, e il tardo Settecento si apre un altro di quegli abissi che la scuola di solito lascia insondati, anche per mancanza di tempo. Ma, sempre seguendo la scelta di Serianni, conviene fare una sosta almeno su due testi probabilmente ignoti ai non specialisti, e diversamente belli: La libertà di Metastasio, che è il canto di gioia dello spasimante finalmente libero dal giogo di un’amante capricciosa («Sogno, ma te non miro / sempre ne’ sogni miei; / mi desto, e tu non sei / il primo mio pensier»). Di tenore opposto il sonetto che Faustina Maratti Zappi (1679-1745) scrive per la morte del figlio di due anni. Osserva giustamente Serianni che «all’epoca la mortalità nei primissimi anni di vita era un’evenienza comune, in qualche modo messa in conto dai genitori». Ma la triste normalità dell’evento finisce per rendere persino più toccante lo sfogo di questa madre, che di fatto non si lamenta della morte del bambino bensì della «rimembranza» che le riporta alla mente una ad una le sofferenze di lui, l’angoscia del respiro, i rantoli: «ti basti il rammentar l’ore sue corte, / e ad uno ad un non mi contar gli affanni».
L’Ottocento è, col Medioevo, il campo di studi prediletto da Serianni, che perciò ha giustamente abbondato. Qui, forse più che altrove, la scelta ricalca il canone scolastico, che però è un canone giusto, consolidato. Di Manzoni c’è La pentecoste, non i cori dell’Adelchi; di Leopardi non c’è mai abbastanza, e tre soli Canti possono sembrare pochi. Ma al di là del numero, A se stesso a me pare non solo inferiore a molte altre poesie leopardiane ma quasi brutta, con quella sintassi singhiozzante, quel tono da melodramma («Assai / palpitasti … T’acqueta omai. Dispera / l’ultima volta») che fa pensare a ciò che diceva non ricordo quale scrittore (a torto, eh!): «Non mi piace Leopardi, non mi piacciono quelli che si lamentano». Forse il Coro di morti nel Dialogo di Federico Ruysch; o forse un pezzo della Ginestra ci sarebbero stati meglio, per esempio, della Ginestra, il meraviglioso notturno che inizia così:
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa,
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
Il Novecento è naturalmente il secolo più difficile, perché bisogna sacrificare moltissimi testi che tutti hanno nella memoria: i posti sono pochi. Inoltre, bisogna trovare un equilibrio tra i testi che devono essere conosciuti perché storicamente rilevanti e i testi che, semplicemente, piacciono. Qui forse avrei concesso qualcosa di più al piacere e qualcosa di meno al dovere. Meno D’Annunzio, meno Gozzano risaputo, più poesia del pieno e del secondo Novecento, dando anche un po’ più di spazio a quella linea ‘novecentista’ alla quale Serianni confessa onestamente di non essere molto sensibile. Tra i viventi può darsi che abbia giocato un ruolo anche l’intenzione di mettere qualche donna accanto a tanti uomini; ma certo non tutte le scelte convincono, soprattutto nelle ultime pagine. Tra i non viventi, meritava ancora più spazio Montale (potando agli estremi, e cioè scegliendo dalle Occasioni e dalla Bufera), e certamente Penna, qui un po’ mortificato con una sola quartina; mentre – sempre nell’ottica di risparmiare spazio per usarlo meglio – io avrei saltato pari pari Ungaretti, che è ancora troppo letto, soprattutto a scuola, e ha fissato nella mente degli italiani un ideale retorico di poesia, fatto di miracolose illuminazioni e afflati solenni («Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?»: come perdonare versi simili?). Semmai il quasi coetaneo Rebora. Anche Caproni fuori, per quanto mi riguarda; ma, se dentro, non con la leziosa Preghiera o col piagnisteo che è Congedo del viaggiatore cerimonioso bensì con A mio figlio Attilio Mauro. E confesso che a me non piace neanche il Saba lieve e solare scelto da Serianni (A mia moglie e Trieste), meglio quello più amaro e tormentato di poesie della maturità come Vecchio e giovane o Quando si apriva il velario («… Ma possiedo, / giovane amica, il tuo bacio, che assenze / fanno, e pietà di noi stessi, più raro. / Era questo la vita: un sorso amaro»). Invece direi che non dovrebbe mancare Fortini, e certamente non può mancare Sereni. Perciò lo aggiungo io, a edificazione del lettore del «Foglio», una poesia tra le tante che si potrebbero scegliere, del Sereni di Diario d’Algeria (nel 1944 era prigioniero di un campo alleato nella regione di Orano, e ogni tanto capitava di poter fare una partita di pallone, non servono altri commenti):
Rinascono la valentia
e la grazia.
Non importa in che forme – una partita
di calcio tra prigionieri:
specie in quello
laggiù che gioca all’ala.
O tu così leggera e rapida sui prati
ombra che si dilunga
nel tramonto tenace.
Si torce, fiamma a lungo sul finire
un incolore giorno. E come sfuma
chimerica ormai la tua corsa
grandeggia in me
amaro nella scia.
Chiuso il libro, torna in mente l’interrogativo da cui siamo partiti circa il posto che la poesia occupa oggi nella mente di chi non si occupa professionalmente di letteratura, e ci si domanda insomma in che misura questo splendido patrimonio plurisecolare, da Giacomo da Lentini ai giorni nostri, possa essere frequentato e amato, oggi, anche una volta venuto meno l’obbligo dello studio, a scuola o all’università, e quale traccia possano lasciare nella memoria del lettore medio queste «100 poesie italiane» raccolte da Serianni. O altre cento che si potrebbero raccogliere.
Ebbene, l’impressione è che il filo che legava le persone scolarizzate a questa tradizione si sia spezzato. Se vanno in cerca di parole memorabili, i nostri contemporanei le trovano non nelle poesie del passato ma nelle canzoni del presente. Negli ultimi cinque o sei decenni il genere nuovo della canzone (non la canzone popolare ma la canzone d’autore, che riflette o simula di riflettere lo stato d’animo di chi la scrive) ha prodotto un lirismo di massa che, tanto per quantità quanto per qualità, fa impallidire la musa dei petrarchisti o degli arcadi. Non si era mai creata e non si era mai consumata tanta espressione lirica quanto negli anni che vanno dal miracolo economico ad oggi: solo che a questa espressione lirica la parola scritta non basta più, le occorre l’accompagnamento della musica. E mai il pubblico delle persone normali, quelle di media o bassa cultura, aveva avuto a disposizione un genere artistico nel quale potersi rispecchiare liberamente e con facilità, senza dover superare gli ostacoli della poetic diction. Come il cinema e la TV hanno consegnato a tutti, anche agli analfabeti, le chiavi della finzione narrativa (e siano pure chiavi elementari, anche triviali), così le canzoni hanno fatto accedere tutti, anche i più renitenti all’introspezione, nei territori del lirismo: sono il raggio di sole che cade tanto sul dotto quanto sull’ignorante, tanto sul raffinato quanto sul rozzo.
Che cos’ha a che fare tutto questo con quest’antologia di cento poesie italiane? Niente, l’ultima cosa che le antologie poetiche dovrebbero fare è dedicare un paio di pagine ad Albachiara. Ma «tutto questo», questo slittamento nel sistema dei generi lirici dà conto della sensazione che si prova dopo aver letto questo libro, e in realtà ogni altra antologia del genere – quella di una tradizione compiuta, perimetrabile, davanti alla quale appare naturale porsi come davanti a un monumento proprio perché essa non ha più alcun vero rapporto con il nostro attuale orizzonte estetico.