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Su “Guerra in camicia nera” di Giuseppe Berto

Domenicale del Sole 24 ore27 Dicembre 2020

Osserva giustamente il curatore Domenico Scarpa che le pagine finali di Guerra in camicia nera – ora ristampato da Neri Pozza – sono «fra le più belle della letteratura italiana dopo la Seconda guerra mondiale». È il maggio del 1943, l’esercito italiano schierato in Libia è stato sconfitto dagli Alleati. I sopravvissuti sono stati presi prigionieri. Giuseppe Berto è tra loro. Lui e i suoi commilitoni vengono caricati sugli autocarri e portati verso la costa per essere imbarcati (Berto finirà a Hereford, in Texas, e ci passerà quasi tre anni). Quando la colonna degli autocarri si ferma, i libici fanno capannello e rumoreggiano contro gli ex-padroni italiani. Ma non tutti. Una ragazzina vestita di celeste sale su una fontana e solleva il braccio nel saluto romano, «come le avevano insegnato a casa, o alla scuola italiana», e non lo abbassa finché l’intera colonna non è passata: «anche quelli dell’ultimo autocarro videro la ragazza rigida nel saluto, senza paura degli altri, di quelli che ci insultavano, e che erano diventati i suoi padroni». La sera, a un bivacco, prima di addormentarsi sul cemento, i prigionieri rievocano quell’ultimo ricordo condiviso: «Il suo gesto rimase nella nostra memoria, ma spoglio di qualsiasi carattere di lotta e di resistenza, come un atto di bontà pura. E così lo ricordiamo, con riconoscenza, perché poi non ci accadde di trovare molti altri atti di bontà nel nostro lungo cammino».

Questa visione retrospettiva – messa su carta, avverte Berto, «alcuni anni dopo» le pagine del vero e proprio diario libico – ispira la pagina più bella di un libro che di belle pagine in verità non ne contiene molte. Il fatto è che, ripiegato sui suoi patemi e sulla sua ulcera, un po’ come accadrà (ma a un più alto livello di qualità letteraria) nel Male oscuro, Berto non sembra avere occhi per gli altri. Precipitato in mezzo alla più grande tragedia del secolo, e in un décor certo non banale come il deserto libico-tunisino, sembra essere indifferente alla storia, alla politica, e da un certo punto in poi anche alle sorti della guerra («Ora quel piacere di vivere è dimenticato, e son contento, in attesa della morte o della prigionia, di tirar avanti un altro giorno ancora in mezzo allo sterco e ai pidocchi»). Questa indifferenza ai fatti avrebbe potuto ispirare un serio e profondo diario introspettivo, oppure avrebbe potuto accendere l’immaginazione e l’interesse per le vite dei commilitoni o della gente del posto con cui il soldato Berto viene in contatto. Invece il diario non va oltre la piatta registrazione degli eventi, e le figure che emergono qua e là nel corso del racconto sono ombre a cui lo scrittore non sa o non vuole dare consistenza (anche la ragazzina con cui l’io narrante ha una breve relazione sentimentale-sessuale a Tunisi è, narrativamente, un’occasione mancata). Semmai, in certi passaggi, il lettore di Berto riconosce quella vocazione alla solitudine che affiorerà anni dopo in certi reportage d’esplorazione nel Mezzogiorno d’Italia, oltre che ovviamente nel Male oscuro: «È quasi sera e mi sento pressoché felice, con un mucchio di pensieri che nascono da soli, senza peso. Dall’oasi alle mie spalle viene l’abbaiare dei cani, il ragliare degli asini, lo stridere delle carrucole dei pozzi, qualche occasionale richiamo degli arabi. Su di un’arida collina sorge la tomba del marabutto, un piccolo cubo sormontato da una mezza cupola. E davanti ho il mare vasto e senza navi, di un colore incredibilmente fresco, dopo la costa rossiccia». Gli altri esseri umani sono un fastidio, un impaccio – e si può anche essere d’accordo, simpatizzare, ma è difficile che da questo sentimento possa venir fuori una storia interessante per qualcuno che non sia l’autore.

Non più che medio sul piano della qualità letteraria, Guerra in camicia nera è però degnissimo di lettura per ciò che dice in presa diretta sulla guerra italiana in Nordafrica e, più ancora, sull’idea che un uomo della generazione di Berto – volontario in Etiopia dal 1935, volontario della Milizia dal 1940 al 1943, prigioniero non cooperante nel campo di Hereford – si era fatta del fascismo, e su come quest’idea era mutata nel tempo (anche perché Guerra in camicia nera non è un diario in presa diretta: Berto lo pubblica a metà anni Cinquanta riscrivendo, come documenta molto bene Scarpa, note prese alla svelta durante nemmeno un anno di guerra, dal settembre 1942 al maggio 1943: allo sguardo del trentenne che si trova al fronte si sovrappone quello del quarantenne, già scrittore affermato, che recupera e riplasma la memoria di dieci anni prima).

Non sorprende l’orgoglio per i bei risultati dell’occupazione italiana, la mancanza di senso di colpa per il passato coloniale: «All’orizzonte si scorge una torre moderna, di quelle chiamate «littorie», e alcuni bianchi edifici. Si tratta del villaggio colonico Gioda, uno dei numerosi villaggi costruiti dal fascismo in pieno deserto, per far sì che questa sterile terra torni a fiorire di messi, come al tempo dei Romani. Retorica a parte, si tratta davvero di una colossale opera civilizzatrice, purtroppo interrotta dalla guerra». Erano anni in cui il legame necessario tra «opera civilizzatrice» e sopraffazione violenta non offendeva quanto offende oggi, e questo genere di orgoglio poteva ancora avere corso (del resto, non ebbe accenti molto diversi il discorso che Croce tenne nel luglio 1947 alla Costituente per difendere, contro i trattati di pace, le colonie che l’Italia ha «acquistate col suo sangue, amministrate e portate a vita civile ed europea col suo ingegno e con dispendio delle sue tutt’altro che ricche finanze»).

Mentre sorprende un po’, anche per quella che sarà più tardi l’evoluzione ideologica di Berto, la mancanza di dubbi o pentimenti – non nel tempo del racconto, 1942-43, ma nel tempo della scrittura, 1954 – circa la propria adesione al regime fascista. C’entra un certo stoico desiderio di coerenza, simile a quello che lo porterà a rifiutare l’impegno (e una rapida libertà) nelle Italian Service Units organizzate dagli americani: «avremmo dovuto pensarci prima, nel ’38 o ’39, dire che l’asse Roma-Berlino non ci andava più, schierarci con gli antifascisti o addirittura scapparcene a Londra o a Parigi. Non l’abbiamo fatto, abbiamo scelto la via opposta. E ora dobbiamo andare fino in fondo» (testimonianza raccolta da Gaetano Tumiati, compagno di prigionia di Berto a Hereford). Ma c’entra anche un reale consenso alla dottrina e alla realtà del fascismo, nonostante la «necessaria limitazione della libertà» e nonostante la guerra intempestiva: «Noi siamo convinti che la teoria del fascismo contiene i principi morali, sociali ed economici necessari alla civile convivenza di un popolo e dei popoli fra di loro, e che la necessaria limitazione della libertà, molto minore della attuale, è compensata da una garanzia di ordine e di giustizia. Purtroppo, ce ne accorgiamo tutti, la teoria viene applicata male: ma questo non significa che bisogna cambiare il regime, bensì rendere efficiente quello in cui già ci troviamo».

Certamente, il Berto maturo non avrebbe sottoscritto una dichiarazione del genere; ma questa dichiarazione spiega la commozione di fronte alla ragazzina che saluta a braccio teso i prigionieri italiani, e tanti altri passi di questo libro. Quando il libro uscì, alla metà degli anni Cinquanta, la memoria della guerra era troppo fresca perché questo atteggiamento, superficiale più che autoassolutorio, gli venisse perdonato. «In buona fede avevano creduto», scrisse Arrigo Cajumi, «e si accorgono adesso che la facciata era di cartone». Ma questo equivoco «presupponeva una sordità morale, un’ignoranza assoluta, l’accettazione di una disciplina a occhi chiusi. Eppure, bastava aprirli solo un momento per giudicare un regime che faceva iscrivere i disoccupati nella milizia, promettendo di dar loro lavoro, e invece li registrava come ‘volontari’ e li mandava in guerra». Eppure furono moltissimi i giovani, anche intelligenti come Berto, che gli occhi non seppero aprirli, e pagarono in prima persona questa cecità. Chi è interessato a veder meglio dentro quella stagione di scelte, equivoci ed errori troverà in questa nuova edizione di Guerra in camicia nera molti spunti di riflessione, anche e soprattutto grazie all’eccellente apparato esegetico col quale Domenico Scarpa ha arricchito il volume.

Giuseppe Berto, Guerra in camicia nera, a cura di Domenico Scarpa, Neri Pozza 2020.

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