Uno dei tanti stratagemmi che narratori e poeti adottano quando si sentono a disagio nelle forme consuete è la finzione del teatro. Dispongono il testo come un dramma, un insieme di didascalie e di parole pronunciate da un palco. Intrecciano le voci in suite, organizzano la materia in stazioni. Per la poesia, si pensi agli esperimenti condotti lungo gli anni ‘60 da Caproni, Luzi o Giudici. Nelle generazioni successive si possono citare autori molto diversi come Pecora, Lamarque, Valduga, Bordini. L’opera più importante di Bordini, come forse quella di Pecora, è un poemetto a suo modo teatrale, Polvere.
Ora Aragno ripropone Strategia, un libro bordiniano dell’81 pure riconducibile a quel filone, come lo sono le nuove raccolte di Luigi Socci (Regie senza films, elliot) e di Giulia Rusconi (Atto unico, Valigie Rosse). Bordini è nato nel 1938, Socci nel 1966, la Rusconi nel 1984. Sono tre generazioni: la prima, che dalla distruzione ideologica della letteratura è passata a un recupero deluso o euforico dei suoi detriti, con cui ha preteso di esprimersi al di là o al di qua della cultura; la seconda, iperscolarizzata, che separa letteratura e vita e diffida di tutto ciò che non esibisce le credenziali dello studio; la terza, che in quello studio non ha più fiducia ma non ha altri punti di riferimento, e che torna quindi a sperimentare l’isolamento e l’inadattabilità dei moderni.
Tutti e tre gli autori scelgono una forma di straniamento aprioristico che trovato il tono, approntata la struttura, dà loro la possibilità apparente di fare quasi qualunque cosa. Con alcune differenze. Socci è un comico che non può uscire dalla sua parte, molto ben delimitata: appena tenta un discorso civile, diventa più perbenista di un tribuno. Nemmeno la Rusconi può abbandonare il suo allegretto macabro, che traduce un dolore cronico in una recita di guasconeria infantile, senza che si stenda sui suoi versi un retorico alone di elegia.
L’apriori di Bordini invece, pur radicalissimo, è così flessibile da far sembrare sorniona anche la pagina più sciatta; e al tempo stesso seduce con il fantasma dell’emotività senza filtri rivendicata nella razo di Strategia. Come il suo Apollinaire, questo maleamato sfrangia i versi, scompiglia la punteggiatura, restituisce una bizzarra innocenza alle cose più artificiali, e rende misterioso il mondo con uno sguardo di procurata ottusità. Solo che anziché un mobile clown ricorda un animale vorace ma sonnolento: è come se potesse assorbire l’intero universo in un lento ruminio peristaltico, che decompone le parole e polverizza qualsiasi oggetto. Quella di Bordini è una “poesia debole”, astutamente pigra. Se Montale visse al cinque per cento, di poeti come lui si potrebbe dire che scrivono al cinque per cento. Avvolgendo il lettore nel suo torpore simulato, Bordini gli toglie la forza di opporsi. Così, in Strategia, l’abbraccio serve a neutralizzare l’avversario. Una tecnica da pugilato: solo che qui i pugili sono due amanti. Ecco il teatro, in cui allegoria e lettera si toccano nel verbo sportivo-seduttivo “sbilanciarsi”. Testo dopo testo, i due si presentano su un ring, dove accanto all’io maschile s’insinua la figura psicanalitica di un allenatore: «ormai non ho più paura del k.o. / mi fanno male le braccia, ma / a te / fanno male le gambe. / “senti, gli dico / un momento nell’angolo, / ma è sicuro che il match / è ancora valido? Guarda, si / è rivestita e sta per andarsene!” / “E’ una finta, mi dice. Aspetta / che te ne vai anche tu, / così poi ritorna». I pugili tentano di vincere, ma non capiscono qual è la posta. L’impulso a far male viene dalla paura che mostrarsi inermi significhi attrarre la malvagità altrui. Persino i baci sono colpi bassi, e la poesia stessa è per l’uomo sia un attacco che l’estrema difesa. In Strategia, come altrove, Bordini sceglie un’effigie che lo rappresenti combattendo al suo posto, un pugile giocattolo che gli permetta di registrare con la sua solita quiete una sofferenza al limite della pazzia. La lirica è esilissima; ma oltre a certi lettori il poeta è riuscito a ipnotizzare anche i suoi studiosi, che mentre la interpretano la inventano almeno per metà. Eppure chi si sottrae alle sue spire non può fare a meno di chiedersi se questa sapienza «demente» non somigli troppo a una posa.
Ancora più sviante è l’evocazione di echi palazzeschiani a proposito di Socci. Né bisogna confondere questo autore con un epigrammista leggero alla Lolini: quando lo progetta in funzione di una pointe, il testo gli si appesantisce subito. Nelle sue prove migliori, come Bordini, l’autore di Regie senza films non punta apertamente sulla battuta, che emerge quasi come un effetto collaterale dalla lievitazione dei versi. Socci parte dai termini che innescano la chiacchiera qualunque, li rimastica anaforicamente, e li svuota per calarvi dentro le sue arguzie: «La gente è inverosimile. / La gente è incorreggibile. / La gente non è normale. / La gente come gente / è amatoriale. // La gente si fa anche / doppiare per parlare / con voce superiore / all’originale». Spesso i calembour e le sintesi più felici nascono dalla disarticolazione e dal riassemblaggio istantaneo di input mediatici, ideologie diffuse e dettagli fisici: «Spezza la mano che spezza il pane / se ancora credi nell’integrale». Regie senza films ospita un “atto unico”, e allude di continuo a un monologo che cerca e schiva il dialogo. Però l’effetto, più che teatrale, è proprio filmico. Gli arti da slapstick e la finzione vocale da poetry slam sono una traccia video e audio da montare. Socci non ha corpo, o meglio organismo, né contesto: è un gatto del Cheshire senza sorriso.
Diverso il caso della Rusconi, che pure allestisce una esplicita “messa in scena”. In Atto unico la fisicità è marcata, e come in Strategia troviamo un rapporto d’amore inquadrato in un set, giocato in una danza dialettica. Si tratta però di un rapporto costitutivamente sbilanciato, dato che l’amato è l’allenatore, cioè qui un vero psicoterapeuta. Ma per la Rusconi l’amore è indistinguibile dallo squilibrio: «Se lei è pazza deve andare da lui / ma lei sostiene che è lui / a farla diventare pazza / perché in effetti è pazza di lui». L’equilibrio si dà solo come recita, visto che ogni domanda dell’innamorata viene esaudita con una “finta”: «- Mi porta via con Lei lontano lontano? / – La porto, La tengo per mano / (metaforicamente!) fino a quando / troveremo una cura per la mente». Le rime facili e i versi rotondi sottolineano gli aspetti beffardi della situazione, mentre i passaggi goffi o precipitosi restituiscono l’inciampo esistenziale. Il primo libro della Rusconi era intitolato ai Padri, in realtà amanti e pedagoghi in cui la protagonista cercava il rifugio provvisorio che in Atto unico individua nello studio medico. In Linoleum invece era lei ad accudire i pazienti, vestita da infermiera. Comunque sia, dove le forze sono asimmetriche, lì si sente viva. Ma l’asimmetria esclude l’amore, costringe all’inganno della seduzione e poi alla solitudine. L’unico modo per evitare questa parabola ripetitiva e dolorosa sta nel rifiuto di truccare i ruoli, nell’accettare le cose come sono. «Come posso fare per uscire?» chiede la «pazza» alla fine. «Prima di tutto / devi mettere un piede avanti a quell’altro» risponde il Dottore «tra le persone che camminano (…) poi cominci a camminare anche tu, / come se nulla fosse». Come se nulla fosse: parole dure, quasi insopportabili.