Allo Strega quest’anno ha vinto il finalista migliore, che era di gran lunga Il colibrì (nonostante la sbandata utopistica delle sue ultime cento pagine, che sarebbe stato meglio evitare). Quello di Sandro Veronesi è anche, insieme al ben più legnoso Ragazzo italiano di Gian Arturo Ferrari, il libro più rifinito e artigianalmente corretto dei sei, il più canonicamente letterario, il più adulto e compiuto. Ma proprio per questo sono gli altri quattro romanzi al Ninfeo, nella loro imperfezione, a fornire non certo le pagine migliori, ma forse gli spunti sociologici più interessanti. Vale insomma la pena di azzardare una lettura d’insieme, ipotizzando fin d’ora che di questa edizione dello Strega andranno ricordati soprattutto due aspetti: le costanti che legano tutti i sei libri in finale, e quelle che in modo più netto accomunano i quattro autori anagraficamente più giovani, connessi nel bene e direi soprattutto nel male a convenzioni formali dei tempi che corrono.
Cominciando dalle prime, andrà rilevato che in tutta la sestina si respira una decisa predisposizione all’ottimismo. Nessuno rinuncia a chiudere in chiave positiva percorsi narrativi che al contrario possono compiacersi di attraversare sofferenze anche atroci. Così soprattutto nei libri di Mencarelli, Bazzi e Parrella, i cui protagonisti sono rispettivamente un depresso bipolare in trattamento sanitario obbligatorio, un giovane che si scopre sieropositivo, una sedicenne carcerata con un passato di stupri e violenze. Ma tutto sommato qualcosa di analogo può dirsi per Veronesi, Ferrari e Carofiglio, che raccontano dal punto di vista dei genitori la traiettoria di giovani alle prese con una formazione difficile. Ricorre nei romanzi in sestina un vivace senso di colpa affibbiato alla generazione dei padri (e delle madri), che ha sempre molto o moltissimo da farsi perdonare; ma l’altra faccia del senso di colpa è la speranza di riscatto che mette le ali alla generazione dei figli. Responsabilità dei padri e innocenza dei figli costituiscono la base di un triangolo tematico al cui vertice troviamo una dose robusta di vittimismo («questa detenuta mi interessa», ammette la narratrice di Almarina, «perché è una vittima»).
Se non sempre lo Strega intercetta i romanzi migliori dell’anno, difficilmente rinuncia a tratteggiare, magari indirettamente, una vaga idea di cosa immaginiamo debba essere, volta per volta, un romanzo di successo. Stando così le cose, possiamo dedurne che oggi è importante che un libro assegni con chiarezza le colpe, valorizzi e protegga le vittime, e soprattutto che finisca bene. Non bisogna lasciare l’amaro in bocca a chi legge, non lo si deve privare di una speranza di riabilitazione – tanto più viva quanto più il passato e il presente appaiono foschi e disperati. L’Almarina di Parrella «possedeva la luce del futuro negli occhi: e il futuro comincia adesso». Ma non è che un esempio, perché ben quattro romanzi su sei sfornano prototipi controversi ma tutto sommato incoraggianti di una futura umanità (Veronesi, Mencarelli, Bazzi, Parrella). Ancora, quattro su sei si svolgono in tutto o in gran parte all’interno di luoghi dichiaratamente concentrazionari (sono quindi romanzi d’evasione, nel senso etimologico della parola): il carcere di Parrella, il tribunale di Carofiglio, gli ospedali di Bazzi, il manicomio di Mencarelli. Il titolo del suo romanzo, Tutto chiede salvezza, è del resto esemplare della dialettica che stiamo abbozzando: si descrive una società oppressiva e si preme sul pedale del dolore per potere alla fine arrivare a una dimensione salvifica, a una palingenesi, a una rigenerazione possibile della vittima di turno. Contro la storia (Veronesi e in parte Ferrari), contro i tribunali (Carofiglio e Parrella), contro la natura e la scienza (Mencarelli), contro le leggi della famiglia e della società (Bazzi e ancora Parella). Questi ultimi tre, in particolare, articolano la loro protesta anche sul piano strettamente formale, affidandosi – ciascuno a suo modo – a una scrittura impudica, apertamente sentimentale e outspoken, intonata su un lirismo spinto e a volte di grana un po’ grossa (Parrella: «correggo vita e caffè con la sambuca»; Bazzi: «mio padre è una promessa non mantenuta»; Mencarelli: «questo senso di colpa che mi brucia dentro»). Visto che i loro eroi esprimono dissenso e rivolta, lo stile si adegua buttando alle ortiche le mediazioni: è il modo più diretto per ribellarsi alle istituzioni, anche letterarie, ma è pure il più banale e scontato – il meno coraggioso e profondo, il meno all’altezza del dolore che si vorrebbe raccontare, il più mainstream in realtà (quindi, nonostante le apparenze, il più alleato al potere). Sul piano sintattico questa semplificazione emotiva si traduce in abuso della paratassi, dello stile nominale, della sincope e dell’accumulazione, soprattutto in Bazzi, che in un certo senso lo teorizza («non romanzi. Ma poesie, piccole prose. Anche solo qualche frase. Tanto mi sono sempre stufato delle pagine fitte: procedo a scatti, ho il passo puntiforme»). Del suo Febbre abbiamo letto nei mesi scorsi elogi mirabolanti, disposti addirittura a riconoscervi un «nuovo modo di raccontare»; io ci vedo una confessione sincera ma piatta, che per non correre il rischio di fermarsi a pensare va a capo ogni volta che può.
Alla fine, è difficile resistere alla tentazione di interpretare questa dialettica di colpa e redenzione alla luce del presente italiano: autori maturi che si proiettano nei giovani per ricavarne ottimismo, giovani scrittori che per cui la tradizione è una cella dalla quale fuggire scrivendo «a scatti». Ma basta sentirsi diversi per essere effettivamente migliori? E la sincerità è sufficiente a forgiare uno stile? La risposta può essere positiva solo se il confronto si pone con chi, consegnandosi al genere, ad avere uno stile rinuncia in partenza, perché il genere parla al suo posto. «Stammi a sentire, stronzetto. Stammi a sentire bene: io non lo so se hai ammazzato il tuo amico Gaglione. Non lo so e preferisco non saperlo. Se mi rimane il dubbio, forse posso continuare a lavorare su questa storia. Però tu devi avere ben chiara una cosa: noi siamo la tua unica speranza. Leggi le mie labbra: noi siamo la tua unica speranza». La misura del tempo di Gianrico Carofiglio funziona come onesto crime novel, scritto nell’italiano di plastica di molti romanzi di consumo – che oggi, come si vede, è in gran parte la lingua dei traduttori e doppiatori dall’inglese. Ma questo rispettabile ‘giallo’ si vergogna di sé e rilutta a accettarsi, puntualmente si apre a sconfinamenti psicologici e intellettuali («le divagazioni sono la mia passione», sottolinea il narratore) a scopo insieme ornamentale e didattico. La ricetta degli spaghetti all’assassina, un aforisma di Canetti, «una breve incursione alla Feltrinelli» o meglio ancora in una libreria indipendente, una riflessione sul tempo che passa e un’altra sulle illusioni d’amore – tutto sullo stesso piano, tutto allo scopo di arredare la testa del lettore con un po’ di cultura a presa rapida, nell’attesa di scoprire chi è il colpevole. All’incrocio tra convenzioni di genere e ammiccamenti glamour, libri come questo servono, prima ancora che a intrattenere, a identificarsi e identificare, e insomma a proteggere (da tutto ciò che ancora non sappiamo); di certo non hanno più molto a che fare con i vecchi còmpiti di piacere e scoperta che assegnavamo una volta alla grande letteratura. Che romanzi così arrivino a disputarsi lo Strega è un fatto che segna – non senza un rintocco sinistro – la misura del tempo: è proprio il caso di dirlo. Ci ricorda quanto stiamo cambiando, o meglio ancora quanto siamo cambiati.