All’inizio degli anni Novanta Il Mulino ripubblicò tre dei libri di Nicola Chiaromonte, tre raccolte di saggi scritti tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta (Chiaromonte è morto nel 1972). Era appena caduto il Muro di Berlino, era arrivato il momento di leggere o rileggere chi aveva smesso per tempo di credere al dio fallito, o – è il caso del nostro autore – non ci aveva mai creduto. Ma le cose non andarono come si sperava, buona parte della tiratura restò invenduta: nessuno comprava i libri di Chiaromonte.
Adesso le cose sono forse un po’ cambiate. Non nelle idee correnti: questo era e resta un paese propenso ad ascoltare gli esagitati con un’idea fissa piuttosto che quelli che non solo non hanno una visione del mondo ma non riescono ad avere opinioni ferme praticamente su niente. Ma di Chiaromonte si è pubblicato e ripubblicato, un po’ alla macchia, qualcos’altro, su di lui hanno scritto a più riprese critici come Berardinelli e Marchesini, ed è uscito da poco un libretto molto simpatetico di Filippo La Porta; soprattutto, a Chiaromonte ha dedicato una documentatissima biografia Cesare Panizza. E ora esce per Gallimard il carteggio con Camus, che copre il quindicennio 1945-1959: gli anni della maturità per entrambi.
Chiaromonte incontra Camus per la prima volta nel 1941, quando sbarca ad Algeri, in fuga dalla Francia occupata. Nel necrologio scritto per l’amico, Chiaromonte ricorderà che Camus era allora «il capo riconosciuto di una banda di giovani giornalisti, aspiranti scrittori, studenti, amici degli arabi, nemici della borghesia locale e di Pétain». Chiaromonte si unisce a loro, partecipa alle gite al mare, assiste alle prove di Amleto, messo in scena e recitato dallo stesso Camus. «Fu in quei giorni che Hitler occupò la Grecia, fece sventolare la svastica sull’Acropoli: io soffrivo una nausea continua, una gran solitudine di fronte ai fatti. Ma, solo e chiuso com’ero, ero ospite di quei giovani [Camus era del 1913, Chiaromonte del 1905]. Bisogna essere stati soli e randagi per sapere il valore dell’ospitalità». Poi Chiaromonte parte per gli Stati Uniti, e qui, a New York, Camus lo raggiunge nel 1946, già famoso a poco più di trent’anni: «aveva conquistato il suo posto sulla scena del mondo, era celebre, i suoi libri erano belli». Dal 1949 Chiaromonte rientra in Europa, prima a Parigi poi a Roma; l’amicizia si consolida.
La voce che si sente in questo carteggio è soprattutto quella di Chiaromonte. Le lettere di Camus sono per lo più referenziali, a volte anche un po’ spicce. Quelle di Chiaromonte sono invece lettere che valgono come pagine di diario: effuse, intensamente personali, serissime. Mai – ma questo vale per ogni sua pagina – una nota d’ironia o autoironia, mai il dubbio che in ballo ci possa essere qualcosa di meno importante del senso della vita, e che la vita non sia sempre un dramma morale dal quale non c’è riparo né riposo. A Chiaromonte si attaglia bene quello che lui ha scritto una volta di Tolstòi: «le sue interrogazioni le formulava sul serio e intendeva che portassero a conseguenza. Mentre i nostri contemporanei discutono, sì, molto d’impegno e di disimpegno, e temono molto più che i loro predecessori dell’Ottocento di essere giudicati moralmente leggeri, ma tutto questo sempre sul piano della discussione letteraria fra letterati, e ideologica fra ideologhi». La sua macerazione invece non era una posa, e in ciò, particolarmente, il suo temperamento s’incontra con quello di Camus. Come accade con altri intellettuali che si identificano in toto con la loro missione di intellettuali, leggendoli si ha spesso l’impressione di una grande saggezza e di un altrettanto grande smarrimento di fronte ai problemi concreti dell’esistenza. In più, in Chiaromonte, un’attitudine quasi malata a una logorroica autoanalisi, allo spezzare il capello in quattro («Vedete? Mi lascio andare alla mia particolare follia, che è ‘speculativa’»), che spesso va a scapito della perspicuità. Che mai vorrà dire che «il credere, quando è autentico, è incerto, come l’esistenza, e, come l’esistenza, sta lì prima che se ne sappia qualcosa»? E davvero la virtù del cristiano «non sta nel credere, ma nel ‘dover voler credere’»?
Ma è lo stesso squilibrio che si osserva nei saggi. Le pagine migliori di Chiaromonte sono quelle situate, cioè quelle in cui Chiaromonte riflette sulla contingenza storica nella quale si trova a vivere: il fascismo (Sul fascismo, scritto a trent’anni), il post-fascismo (Il gesuita), il Sessantotto (i saggi riuniti in La rivolta conformista). E sono anche (ed è poi un altro tipo di situazione, di aderenza a un oggetto) quelle scritte in margine a libri altrui, libri di argomento e natura disparati: la sua stroncatura del libro di Schapiro su Proudhon, per fare un esempio, è un pezzo da antologia; e il suo saggio sulla poesia di Mallarmé, per farne un altro, è un magnifico capitolo di storia della letteratura e dell’estetica. Non direi che i saggi di critica della vita moderna, o della vita tout court, stiano alla stessa altezza. Più si allontana dalla contingenza e dai libri e più Chiaromonte si fa evanescente e involuto; il tono diventa apodittico, l’aforisma o la nostalgica citazione dai classici prende il posto dell’argomentazione. In questo caso, il paragone con gli intellettuali a cui merita di essere paragonato (per esempio la Arendt) non va a suo vantaggio.
Scartate le macerazioni e la riflessione dell’intellettuale sull’essere intellettuale, nel carteggio si parla soprattutto dei viaggi, del lavoro nelle riviste, del pessimismo sull’Europa del dopoguerra, dei rapporti turbolenti con le mogli, dato che entrambi hanno relazioni extra-matrimoniali (per Chiaromonte, altra materia per la macerazione). Poi – e sono i brani più interessanti – c’è l’impatto dell’esule col proprio ritrovato e non amato paese. La frizione gli ispira giudizi molto centrati sul carattere degli italiani, sulla loro inadattabilità alla vita moderna: «Gli italiani si sono sempre trovati a disagio nella sedicente ‘civiltà moderna’. Non hanno mai accettato né lo Stato moderno né l’industrialismo né il mercantilismo. Non hanno mai accettato queste cose perché erano troppo poveri e non potevano averne che dei brandelli più o meno cattivi». O sulla facile confidenza che nasconde un’incapacità di prendere sul serio, quindi di approfondire, le relazioni umane: «Gli italiani non amano l’intimità – diffidano del ‘fondo delle cose’ – e alla fine tutto si riduce per loro a delle regole più o meno fisse di comportamento. Lo so perché ero come loro – e lo sono ancora, in parte: chiuso, persuaso all’inizio che la comunicazione non porta che guai. Tutto, in questa società, persuade di ciò – soprattutto la vita di famiglia. Si diventa non ipocriti, ma incapaci di aprirsi». Ma poi la riga migliore del libro è questa solare istantanea dell’Italia del dopoguerra: «Ci sono troppi bambini dappertutto, perché non si creda anzitutto all’immensa normalità della vita»:
Non particolarmente bello, il carteggio è però interessante soprattutto per quanto dice circa i rapporti di questi due spiriti liberi con i loro avversari comunisti in Francia e in Italia. Chiaromonte è naturalmente al fianco di Camus nella polemica con Sartre successiva alla pubblicazione dell’Uomo in rivolta («sono costernato – scrive in una lettera del settembre 1952 – dalla bassezza alla quale è sceso Sartre nella sua risposta. Costernato, ma non sorpreso»). E alla fine degli anni Cinquanta, poco prima che Camus morisse, i due amici si trovano d’accordo nell’ammirare Pasternàk e nell’indignarsi per l’ambiguità di certi intellettuali europei troppo teneri coi suoi persecutori sovietici (su YouTube bisogna vedere il filmato Il caso Pasternàk, del 1958, in cui Chiaromonte perde giustamente la pazienza con Muscetta e con Calvino).
Ma la felicità e la verità non stavano a Occidente. Benché in queste lettere ritornino spesso i motivi noti dell’anticomunismo e della diffidenza nei confronti di quei sistemi ideali che vogliono ridurre la realtà multiforme alla misura di una frase o di un paragrafo, e che in ogni piega dell’esistenza trovano l’impronta della Ragione o della Storia (il giovane Chiaromonte detestava il sistematico Croce e chiamava maestro l’asistematico Tilgher), nessuno più di Chiaromonte era avverso all’idea di libertà e di progresso che andava plasmando sotto i suoi occhi la civiltà euro-americana del dopoguerra. L’intesa tra lui Camus avviene appunto sul piano della reazione risentita, offesa alla modernità, allo snaturamento della vita provocato dalla società di massa, al di qua e al di là della cortina di ferro. «Mi è sempre più chiaro – scriverà Chiaromonte in una lettera all’amica Melanie von Nagel – che solo una società fondamentalmente ‘conservatrice’, attaccata ai modi di essere tradizionali, può resistere alla barbarie contemporanea». Dato che in Italia i liberali latitano mentre gli antimoderni fioccano, potrebbero passare di qui una rilettura e una rivalutazione di questo grande saggista.
Albert Camus – Nicola Chiaromonte, Correspondance 1945-1959, ed. Samantha Novello, Paris, Gallimard 2019.