L’archeologia industriale è una cosa deliziosa, naturalmente a patto di non esserci finiti sotto, cioè di non essere uno di quelli che sono rimasti disoccupati perché l’industria nella quale lavoravano nel frattempo è diventata archeologia. Ma questi sventurati rappresentano chiaramente una piccola minoranza della forza-lavoro, un’infima minoranza della popolazione, una microscopica minoranza dei lettori di quotidiani, perciò perché preoccuparsi? Partiamo.
«Fare come nella Ruhr», si è letto nei giorni scorsi a proposito dell’Ilva, e di che fare dell’area-Ilva dopo un’eventuale chiusura. In effetti, dove cercare un modello altrettanto inspiring? Fino a non molti anni fa la Ruhr è stata il cuore europeo delle miniere e della siderurgia, fucina delle armi del Terzo Reich e fulcro, nel dopoguerra, della poderosa rinascita economica tedesca. Poi, quando ci si è accorti che estrarre il carbone non era più economicamente vantaggioso, ci si è dovuti porre il problema di che fare di tutto quel cemento e acciaio. Nel 1989 è stato lanciato un piano decennale di riconversione dell’area, ciò che ha voluto dire decontaminare i terreni e rimetterli sul mercato o destinarli a parco, pulire le acque del fiume Emscher, che attraversa la regione da est a ovest e che per più di un secolo ha avuto fama (meritata) di fogna a cielo aperto, e soprattutto recuperare in qualche modo una cinquantina di siti industriali non più produttivi. Fondi per grandissima parte pubblici, e controllo dell’intera operazione nelle mani del governo del Land NordReno-Vestfalia. Ne è nato un gigantesco parco, l’Emscher Landschaftpark, che copre un terzo del territorio del distretto della Ruhr e collega – anche in bicicletta, anche via acqua – una dozzina di città da Bergkamen a est fino a Duisburg a ovest, passando per Dortmund, Bochum, Essen. Si atterra a Dortmund o a Düsseldorf, o si arriva in treno da Berlino in un paio d’ore, si prende la bicicletta e si segue la Route der Industriekultur, ci si ferma a visitare i complessi minerari dello Zollverein, si entra nel gasometro Oberhausen, ora mega-centro espositivo visitabile dentro e fuori, con magnifica vista sulla straziante pianura tedesca (abbondando gli spazi, quasi tutto è diventato un centro espositivo, è una bestia che va sfamata in continuazione: una bazza per artisti e curatori, un po’ meno per le amministrazioni locali).
Quella tedesca è una possibilità, interessante per le dimensioni (c’era da ridisegnare non un paese o un quartiere ma un’intera area geografica) e per i risultati: nel 2001 l’Unesco ha inserito il Ruhrgebiet tra le aree che sono «patrimonio dell’umanità», come il Colosseo, e nel 2010 la regione è diventata capitale europea della cultura, e si è riciclata con buon successo come polo turistico-naturalistico. È una possibilità, un modello imitabile, riproducibile? S’intende che recuperi del genere ci sono già stati, magari più in piccolo, in molte parti d’Italia che hanno dovuto gestire le loro derelict land. Le aree ex Ilva, poi, sono ormai una specie di brand della deindustrializzazione. A Follonica, nello spazio della vecchia fabbrica si è insediata una scuola, la biblioteca comunale, un teatro, l’inventivo museo MAGMA (Museo delle Arti in Ghisa della Maremma). A Bagnoli, su un’area molto più grande, le cose – a dirla gentilmente – non hanno marciato altrettanto spedite, tra ritardi decennali, malversazioni, bancarotte, e insomma una generale sensazione di intrallazzo misto a inettitudine.
La magnitudo del problema, a Taranto, ricorda quella di Bagnoli, e peggio. Sbaraccare, consegnare questo pezzo di Taranto bonificato all’arte, allo spettacolo e al turismo, farne «il motore di una nuova economia»? È un desiderio comprensibile, giusto, probabilmente irrazionale. L’ultima volta che sono stato a Taranto non ho dormito in città ma in una masseria sulle colline, a qualche chilometro di distanza (masseria Amastuola, consiglio vivamente), e tanto nel viaggio di andata quanto nel viaggio di ritorno i taxisti, indicando l’Ilva all’orizzonte, hanno fatto lo stesso gesto di pena e poi hanno detto, uno «… che poi noi ci avremmo questi ulivi secolari…», l’altro «… basterebbe valorizzare questi ulivi centenari, col turismo…». Ma il problema è – se si vuole «fare come in Germania» – che l’industria pesante non è affatto sparita dal Ruhrgebiet: percorrendo in macchina, e non in bici, la strada che taglia a metà il distretto si costeggiano per chilometri i muri della Thyssen-Krupp, che è ancora il più grande datore di lavoro della regione; e dove ha smesso di produrre l’industria sono nate altre attività, si sono potenziate le università, gli aeroporti.
Con tutto ciò, il parco dell’Emscher non si mantiene da sé: per funzionare ha bisogno di cospicui finanziamenti pubblici, cioè produce meno risorse di quante ne dreni; e il Ruhrgebiet resta un’area economicamente arretrata rispetto alla media tedesca. Perché ci si possa godere i musei, la spiaggia, gli ulivi secolari qualcuno, da qualche parte, deve produrre. Solo che – come ha osservato uno specialista del paesaggio industriale, Roberto Parisi – «l’industrializzazione intesa come modello di organizzazione territoriale, nell’immaginario collettivo come nelle strategie e nelle pratiche d’uso dello spazio urbano, non sembra più appartenere alla cultura del nostro Paese». Via libera, dunque, all’archeologia industriale: sperando che dall’estero vengano in tanti a visitare gli scavi.