Difficile trovare due autori più diversi di Primo Levi e Leonardo Sciascia. Uno è tragicamente provato dalla storia, ma la traduce sempre in immagini naturali; l’altro è circondato da una natura antichissima, ma volta le spalle al suo sole a picco per immergersi nel buio degli intrighi storici. Uno è piemontese e atticista, l’altro un meridionale che riesce a rendere barocca perfino la concisione. Si potrebbe costruire un doppio ritratto plutarcheo, o desanctisiano, tutto giocato sui tratti opposti. Ma il doppio anniversario del 2019 (cent’anni dalla nascita di Levi, trenta dalla morte di Sciascia) ci offre l’occasione per parlare invece di un tema che li avvicina. Il lager e la mafia, intorno a cui ruotano le rispettive opere, non sono per questi due autori soltanto realtà circoscritte e metafore: sono casi estremi nei quali si mostra a nudo una struttura più generale dei meccanismi di potere. Tenendo ferma l’unicità di Auschwitz, nei “Sommersi e i salvati” Levi parla esplicitamente del rapporto tra il campo e le forme di vita collettiva che si costituiscono in situazioni più temperate. Se il suo ultimo libro è così disperato e straordinario, dipende anche dal fatto che a ogni capitolo cerca paragoni per ciò che non ha paragoni. Quindici anni prima, nella nota al “Contesto”, Sciascia definiva il proprio romanzo un apologo “sul potere nel mondo, sul potere che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa”. “Il contesto” è un libro senza speranza: nella sua trama nulla si salva dal male, e la verità sparisce dalla scena. In un celebre dialogo con l’ispettore Rogas, il presidente della Corte Suprema Riches arriva a dire che il solo modo di amministrare la giustizia è la decimazione.
Quando si sfaldano le istituzioni moderne, la “concatenazione” di un potere totalitario taglia i piani dell’esistenza fino a penetrare nell’intimo dell’essere umano. In modi e a livelli differenti, la mafia e il lager cancellano le distinzioni tra privato e pubblico, riducendo tutti gli aspetti dell’esistenza a una logica tribale oltre la quale l’individuo non può esistere. Nel famoso capitolo sulla “Zona grigia”, cioè sulle vittime trasformate dai nazisti in complici, Levi annota che per molti reduci la prima sorpresa di Auschwitz è stata la violenza subìta da parte di prigionieri-funzionari che loro credevano solidali compagni di sventura. Dove un piccolo gruppo di tiranni domina una vasta comunità, nasce fisiologicamente un ceto di servi privilegiati: sono i clienti incaricati di garantire la diffusione capillare del dominio. “Il privilegio, per definizione, difende e protegge il privilegio” scrive Levi. “Mi torna a mente che il termine locale, yiddish e polacco, per indicare il privilegio era ‘protekcja’, che si pronuncia ‘protekzia’ ed è di evidente origine italiana e latina”. I colpi dei kapò mirano a imporre subito al nuovo arrivato la logica del campo, e chi reagisce spesso viene ucciso sul posto. L’omicidio compatta la schiera dei “privilegiati”, così come gli ordini spaventosi che devono quotidianamente eseguire li legano agli aguzzini dividendoli dagli altri prigionieri. Questo legame fondato sul sangue sparso viene paragonato da Levi proprio ai riti dell’iniziazione mafiosa: dopo che ha commesso certi crimini, l’affiliato non può più tornare indietro. Quanto è colpevole, chi si trasforma da vittima in carnefice in una situazione di grave minaccia? Giudicare è rischioso, se non si è sperimentata su di sé la metamorfosi. Il grado di correità dipende dal grado di costrizione, e anche dal tipo di delitto compiuto. Ma le unità di misura si rivelano quasi sempre inadeguate in un “sistema” – la parola è di Levi – in cui l’orrore e la sopraffazione sono la regola. Nei “Sommersi e i salvati” è scritto che ad Auschwitz “Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”: sentenza tremenda, pronunciata da un reduce, tanto più se prima e dopo la prigionia ha mantenuto una spontanea fiducia nell’homo faber. Levi ricorda anche che a differenza di ciò che le nostre fantasie feuillettonistiche vorrebbero farci credere, “più è dura l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere”. E dopo avere descritto questo duplice oltraggio alla dignità umana, lo commenta con una citazione di Alessandro Manzoni: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi”.
Come è noto, Manzoni è autore carissimo a Sciascia. E’ il poeta che mette in bocca ad Adelchi i versi sulla “feroce / forza” che “il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto”; ed è il romanziere che mette in scena un signorotto del Seicento il quale, dopo avere minacciato una giovane contadina, invita la minacciata a trovare riparo sotto la sua “protezione”: la mano di don Rodrigo, come quella dei mafiosi, empiamente atterra e consola. In una riflessione sui “Promessi sposi”, Sciascia si rifà a un saggio di Angelandrea Zottoli significativamente intitolato “Il sistema di don Abbondio”. Il curato sarebbe il centro della struttura di potere rappresentata da Manzoni. Don Abbondio, servo-padrone vittorioso, abita la zona grigia tra i soprusi spagnoleschi e il popolo. Non si prende i rischi dei signori in alto né quelli delle “genti meccaniche” completamente schiacciate in basso dalla loro forza. La viltà prepotente con cui si sottomette agli uni e la prepotenza vile che usa con le altre lo rendono invincibile: è come fatto d’acciaio, ma di un acciaio illimitatamente pieghevole. Secondo Sciascia, se alla fine del romanzo Renzo e Lucia abbandonano la loro terra malgrado non ci sia più don Rodrigo, è appunto perché rimane in piedi il suo “sistema”.
Nei capitoli che precedono lo scioglimento, la peste ha minato questo sistema, ma al tempo stesso ne ha accentuato la brutalità. Scambiato per un untore, durante l’epidemia Renzo è salito su un carro dove gli è stata proposta la “protezione de’ monatti”. Nel suo censimento del campo, Levi paragona le schiere dei monatti alle Squadre Speciali di cui i nazisti si servivano per gestire il traffico delle camere a gas. Costretti a commerciare ogni giorno con una disumana quantità di morte, e a vedere di continuo le peggiori sofferenze inflitte agli innocenti, i loro membri sviluppavano una mostruosa “morale di gruppo”. La peste, si sa, è al centro della “Storia della colonna infame”, mirabile libretto che oggi diremmo lo spin off dei “Promessi sposi”, e che Sciascia prese a modello per le sue inchieste da filologo civile in cui la cronaca s’alterna studiatamente al pamphlet. Commentando la “Storia”, l’autore di “Morte dell’inquisitore” polemizza con coloro che accusano Manzoni di scarso senso storico. Per questi critici, il richiamo manzoniano alle responsabilità individuali di chi torturò gli “untori” non tiene conto dei costumi e delle credenze che determinavano la mentalità degli uomini del 1630. I giudici non avrebbero potuto agire diversamente; non erano dei mostri; molti segni testimoniano anzi di una loro intelligente umanità. Ma Sciascia risponde che lo stesso è stato detto per tanti “burocrati del Male” che hanno organizzato i campi di sterminio nazista. Quanto al senso storico, gli sembra puerile uno storicismo che mentre dice di considerare ogni storia come storia contemporanea relega poi il male nel passato, quasi che per giudicarlo non si dovesse rivivere nel presente, e quasi che non fosse effettivamente presente. “La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre” scrive Sciascia: il mondo va come andava nel secolo decimosettimo. Tornano in mente le parole durissime di Levi contro chi dimentica il monito di Auschwitz. E cos’è in fondo “I sommersi e i salvati” se non una “Storia della colonna infame” scritta da un suppliziato? Cos’è se non una “Storia della colonna infame” del Novecento, una cronaca sciasciana vissuta dall’interno? Sia Levi sia Sciascia conducono la loro indagine con scrupolo manzoniano. Entrambi, ognuno a suo modo, adottano quello stile da “relazione” che Hofmannsthal riconosceva nei “Promessi sposi”. Entrambi sono diligenti, controllatissimi, e hanno una vocazione didascalica: non a caso, quando fantasticano tendono all’apologo. A volte risultano persino un po’ legnose, le loro pagine: sfiorano la rigidezza che Levi scopre in Manzoni quando descrive certi gesti dei suoi personaggi.
Sia il piemontese sia il siciliano, riflettendo sul grande lombardo, iniziano un articolo ammettendo di avere più voglia di rileggere i classici che di leggere i libri nuovi. Spesso si tratta dei classici di un illuminismo che sta per essere travolto dai sonni della ragione. Come testimonia la biografia manzoniana, il tramonto dell’età dei lumi è il punto in cui il mito della Natura incontra il mito della Storia. Nessuno dei due miti resiste al vaglio scrupoloso dei documenti, né si concilia con quel poco che sappiamo sul cuore umano. Ma per chi è nato dopo la Grande guerra, anche aderire a un credo religioso diventa quasi impossibile. Quando la Provvidenza celeste o terrena si fa indecifrabile, la fede, la speranza e la carità si concentrano nel tentativo di ridare giustizia a chi non l’ha avuta, di pronunciare sul passato parole di verità che siano strumento di lotta nel presente e memento per il futuro. Sciascia e Levi hanno perseverato in questo tentativo. La ragione che li guida consiste nell’esercizio sistematico del dubbio, il solo argine che abbiamo davanti alla tendenza intrinsecamente sistematica di qualunque potere.