Torinesi, è a voi che parlo. Barriera di Milano, le Vallette, Mirafiori Sud, diciamolo, ci interessano solo quando leggiamo la cronaca nera della «Stampa», o Specchio dei tempi o Torino Sette (e infatti la delizia che è I confini di Torino di Dario Voltolini è uscito prima a pezzetti su Torino Sette della «Stampa»). Quando leggiamo un libro su Torino vogliamo Anna Carla. Per chi non lo avesse letto o se lo fosse scordato (ed è già una vergogna ammetterlo), Anna Carla Dosio è una dei protagonisti della Donna della domenica di Fruttero e Lucentini, ed è l’incarnazione dell’alta borghesia torinese. L’indagine sull’omicidio del viscido architetto Garrone s’impiglia a lei e al suo milieu per una sua battuta infelice che due camerieri vendicativi riferiscono alla polizia. Quindi interrogatori, quindi passione, ricambiata, per il commissario; quindi soprattutto il ritratto memorabile di una torinese benestante prototipica. Vogliamo lei.
Mariolina Bertini, studiosa insigne di letteratura francese che racconta la sua vita in Torino piccola, non appartiene precisamente a quel generone: è borghese, non alto-borghese; ma se non ha avuto il privilegio del censo, di quel censo almeno, ha avuto senz’altro quello della cultura (e Torino era una città in cui la distinzione della cultura era tenuta in grande considerazione, oggi forse meno). Nella sua casa di bambina e di adolescente, anni Cinquanta-Sessanta, c’erano tutti i libri giusti, la nonna le parlava in francese, dal giradischi venivano le voci di Gassman, Foà e Albertazzi che leggevano le poesie, ogni tanto veniva in visita Dionisotti, lo «zio Carlo». Persino la fantesca venuta da Monforte d’Alba, Piera Einaudi, era forse una lontanissima parente del Presidente della Repubblica («Sposò qualche anno dopo un medico conosciuto alla Sala Danza Principe di piazza Benefica in una sera di libertà»). E gli avi erano stati tutti antifascisti, più che altro per una questione di buon gusto.
Da un’educazione del genere viene fuori, nove casi su dieci, un essere umano insoffribile. Invece non c’è pagina di questo libro che non esali simpatia, intelligenza, garbo. Chissà quale magico ingrediente fluttuava nell’aria del centro di Torino, che miracolosa acqua veniva fuori dai rubinetti, se persino le bambine degli anni Cinquanta possedevano, cito, «un’indole antiretorica», e sillabavano con trattenuta emozione la filastrocca Breus di Pascoli, e quando c’era il coro della scuola aprivano la bocca a tempo senza cantare perché erano stonate, e non volevano rovinare l’effetto. Chissà. (Oggi una bambina stonata che si vergogna di esserlo finisce dritto dal terapista: erano tempi più spicci, il moi haïssable si sacrificava senza angosce al bene del Gruppo).
A un certo punto mi sono domandato come mai, nonostante la differenza d’età (io sono un torinese del 1971, lei del 1947) e di ambiente (io sono un Mirafiori-SantaRita boy) mi era così facile entrare in sintonia con l’autrice. Mi sono risposto che questa sensazione non era dovuta tanto agli elementi del paesaggio, anche se quasi tutti quelli che lei nomina mi sono familiarissimi (i negozi di Piazza Benefica, la biblioteca universitaria in Via Po, il negozio Molinar in Piazza Castello in cui mia madre ragazzina comprava le tartarughe d’acqua), quanto ai libri: Torino piccola è un libro pieno di libri, perché a Mariolina Bertini è capitato, un quarto di secolo prima che capitasse a me, di essere, alla lettera, plasmata dai libri, come creta. E i fortunati a cui è successo il miracolo si riconoscono anche se non si sono mai incontrati.
Mariolina Bertini, Torino piccola, Bologna, Pendragon,13 euro.