Diciamo che ci sono tre tipi di comicità (in realtà ce ne sono trenta, ma procediamo per semplificazioni e assiomi, come quei deliranti manuali di teoria della letteratura). C’è una comicità che nasce dalla situazione, una che nasce dalla battuta di spirito, una che nasce dal linguaggio. Nel Decamerone di Boccaccio, la situazione comica è per esempio quella di Calandrino che, con le tasche piene di pietre magiche che magiche non sono, crede di essere invisibile e viene preso a sassate da Bruno e Buffalmacco; la battuta di spirito è per esempio quella con cui Chichibio si cava d’impaccio dopo aver rubato una coscia di gru: la comicità di linguaggio è per esempio quella di Frate Cipolla, che intontisce di bugie e paroloni il popolo venuto ad ascoltarlo.
Sei secoli dopo, prendiamo il capolavoro che è Il vedovo di Risi. La situazione comica è quella di Sordi che crede di essere rimasto vedovo e organizza una molto festosa commemorazione in giardino, salvo scoprire che la moglie non è morta; oppure quella di Sordi che raccomanda al portiere di dire a un tale «Lam-ber-to-ni», suo creditore, che lui non si è visto, e Lambertoni è lì dietro che l’aspetta, e sentendo pronunciare il suo nome lo blocca e lo costringe a pagare. Le battute sono poche e poco importanti: le scene del Vedovo non culminano quasi mai in un motto di spirito, non è sul fine-scena che grava l’effetto comico ma sulla situazione e soprattutto – la nostra terza fonte di comicità – sul linguaggio. Il vedovo è un film straordinario perché Risi, gli sceneggiatori, Sordi, la Valeri e il resto del cast sono dei virtuosi nell’uso del linguaggio, con questo intendendo non tanto l’imitazione della parlata di un personaggio tipico quanto l’imitazione di un carattere nella sua integrità, qualcosa di simile a ciò che nella retorica antica si chiamava etopea – la Valeri che fa la milanese ricca, il marchese Stucchi che fa il nobile decaduto ma ancora orgoglioso del blasone, Sordi che fa ora il padrone bizzoso, ora l’innamorato languido, ora il capitano d’industria blasé, eccetera.
Situazione, battuta, linguaggio. La battuta è il mezzo più semplice, quello che richiede meno sforzo, ma anche quello che ha l’effetto più effimero: non è un caso se non ci ricordiamo mai le barzellette. La situazione richiede invece una certa immaginazione e un certo talento narrativo, quello che di solito manca ai fredduristi che si vedono in TV. Ma il mezzo più complesso è il linguaggio, la mimesi del linguaggio intesa, ripeto, come imitazione di un carattere nella sua integrità. È anche quello il cui effetto è più duraturo. Parlando in generale, il comico invecchia con una rapidità infinitamente maggiore del tragico (Sofocle ci fa ancora tremare, Aristofane non ci fa più né ridere né sorridere), ma i discorsi da ciarlatano di Frate Cipolla si leggono ancora con gusto, la battuta di Chichibio no. E si resta quasi imbarazzati di fronte alle trame (situazione comica) e alle battutine che gli sceneggiatori scrivevano per Totò, ma il suo modo di usare il linguaggio fa ancora molto ridere: non perché scimmiottava dei ‘tipi umani eterni’ ma perché aveva un orecchio assoluto per certe forme del parlare italiano, cioè dell’essere italiano, e le sapeva volgere al comico.
Veniamo a noi. Far ridere è difficile; far ridere per iscritto è quasi impossibile. Perché per iscritto non si può contare su nessuno di quegli ausili al racconto di cui beneficia invece l’espressione orale. Le barzellette, se le leggiamo sulla pagina, funzionano a metà: per le barzellette ci vuole, lo sanno tutti, «qualcuno bravo a raccontarle». E provate a leggere uno di quei monologhi che fanno così ridere quando li pronuncia dal palco uno stand-up comedian: l’effetto non è minimamente paragonabile. Questo per esempio era il più bravo di tutti, Louis CK:
Sapete, io sono un tipo davvero, davvero fortunato, ho un sacco di cose buone dalla mia parte: sono in buona salute, sono relativamente giovane, sono bianco… E, ragazzi, ringrazio Dio di esserlo! È un enorme vantaggio. Scherzate? Oddio, io adoro essere bianco. Davvero. Sul serio: se non siete bianchi vi perdete qualcosa. È una cosa davvero, davvero bella. Non fraintendetemi, eh. Non sto dicendo che i bianchi sono meglio. Sto dicendo che essere bianchi è chiaramente meglio. Chi potrebbe anche solo dubitarne? Se fosse una scelta, io la rifarei ogni anno. «Oh, sì, mi sa che prendo ‘bianco’ di nuovo, assolutamente. Mi è piaciuto. Penso che resterò sul bianco, grazie».
È gradevole, ben congegnato; ma ascoltarlo è un’altra cosa; e vederlo, con le pause, le inflessioni della voce, le facce, è tutta un’altra cosa.
Far ridere per iscritto è così difficile che quando, qualche tempo fa, ho pubblicato un articolo dal titolo Lo Sgargabonzi è il migliore scrittore comico italiano, chi obiettava che stavo esagerando ha sì potuto dire (sbagliando) che ciò che io trovavo molto divertente non lo era poi tanto, ma non mi ha quasi mai potuto citare il nome di uno scrittore comico che fosse più bravo dello Sgargabonzi, se non cambiando campo di gioco (Villaggio-Fantozzi, che fa ridere sceneggiato e filmato, molto meno quando lo si legge) o cambiando proprio gioco (Gadda, vabbè). Perché far ridere per iscritto è molto difficile.
Il quarto libro dello Sgargabonzi, il primo pubblicato da un editore ben distribuito, mi conferma nell’opinione che lo Sgargabonzi è di gran lunga il migliore scrittore comico italiano: e anzi – se non proprio il migliore scrittore italiano, come lui stesso mi ha suggerito con un messaggio vocale semiserio su uozzap – un autentico scrittore, senza aggettivi limitanti, uno scrittore le cui qualità potrebbero e dovrebbero essere apprezzate anche da parte di chi non ne apprezzi l’umorismo.
Per tornare ai tre tipi di comicità indicati sopra, in Jocelyn uccide ancora lo Sgargabonzi non fa quasi mai battute, o meglio le fa, ogni tanto, prendendo in giro il meccanismo della battuta, il pun che dovrebbe produrre lo straniamento e la risata: Incidenti stradali in strada saputi da militari fraintendenti riprende il vecchio di parole tra «contusi» (inteso come feriti in un incidente) e «con Tusi» (inteso come brigadiere dei carabinieri Alfonso Tusi), e lo ripete fino al nonsense, alla surrealtà («Intanto, fuori, il sole diventa verde» è l’ultima frase del pezzo). Oppure sono battute fredde, che nascono dal tradimento delle attese, dallo spiazzamento. In L’uomo che non si lascia stare mai c’è l’io narrante bambino, fan di Pippo Franco, che incontra il suo idolo:
Ricordo però che alla festa del mio paese, da piccolo, venivano fior di cantanti. Il primo fu Pippo Franco, che negli anni Ottanta tirò fuori delle hit niente male, da «Che fico!» a «La puntura no no no». Dopo lo spettacolo mio babbo mi portò da lui perché gli volevo chiedere l’autografo. Per l’occasione mi aveva comprato dal tabaccaio un blocconote Pigna fiammante e una biro nera. Non scorderò mai il mitico Pippo in quell’occasione. Si abbassò alla mia altezza, mi sorrise, mi scompigliò i capelli e guardandomi negli occhi mi disse: «Come faccio? Poi finisce che devo fare l’autografo a tutti». E mi restituì il blocconote intonso.
Ingredienti: contesto paesano, sentimenti semplici, infanzia, cantante e canzoni così caserecci da non arrivare nemmeno alla soglia del trash, tenerezza (il sorriso, la mano tra i capelli), oggetti familiari da cartoleria (il «blocconote Pigna fiammante», perché i nomi propri di cose sono uno dei correlativi oggettivi di questa prosa comica, come di quella di Rocco Tanica: non gli oggetti anonimi che si trovano nei tinelli ma le sottomarche, non le marche, che riempiono la dispensa piccolo-borghese: il Ciocoroll Balconi, la Bofrost, il Carciofotto Ponti, le compresse digestive Galeffi). Ma il prodotto di questa miscela è uno straniante «Come faccio? Poi finisce che devo fare l’autografo a tutti». Detto da Pippo Franco.
Tutto il resto, diciamo il 90% del totale, è comicità da situazione o da linguaggio. Un esempio.
In La mia amicizia con Nanni Moretti, il narratore adolescente va a sentire Moretti in un incontro pubblico e gli porta in regalo un CD con la colonna sonora del Fantasma del palcoscenico di De Palma, e una lettera di ammirazione: sogna di entrare in confidenza col suo idolo, di farselo amico, di andarci in vacanza insieme all’hotel Rosen Garden di Milano Marittima («in caso, mezza pensione o si mangia lì pranzo e cena?»). Ovviamente non gli riesce, lui è un adolescente goffo con un cappellino da scemo e la dermatite, Moretti è scostante come suo solito e lo tratta come un deficiente. Come capita spesso nelle storie di vita dello Sgargabonzi, l’episodio può avere un fondo di verità (il cappellino da scemo lo porta ancora adesso, la dermatite è un Leitmotiv), Moretti può essere davvero andato a presentare un suo film ad Arezzo, il Narratore può davvero avergli regalato un CD, ma i fatti (situazione) e le parole (linguaggio) sono trasfigurati in modo da farli apparire – ed è una delle caratteristiche ricorrenti di questa comicità – non totalmente surreali ma solo leggermente sfasati, come se la realtà si presentasse ogni volta nella sua quintessenza, i fan di Moretti sempre impegnati a ripetere qualche frase dei suoi film:
La gente iniziava ad arrivare e nel chiacchiericcio generale era tutto un sottofondo di citazioni. «Continuiamo così… facciamoci del male» e giù risate molto critiche, «Di’ qualcosa di sinistra» e piccoli abbrivi polemici, «Le parole sono importanti» e mugugni di equosolidale approvazione.
E lui, Moretti, sempre un po’ malmostoso:
Per cercare di strappargli un cenno d’assenso iniziai a snocciolargli un sacco di riferimenti sottilissimi ai suoi film, recitando battute minori imparate a memoria, di solito momenti di scene tagliate viste su Laserdisc. Mi interruppe solo quando gli citai il personaggio del regista Tito Cimino di Sogni d’oro: «Si chiama Gigio. Gigio Cimino». E io subito mi scusai.
È molto difficile che sia andata così, anzi è molto difficile che il Narratore e Moretti si siano parlati, ma il Moretti burbero della mitografia avrebbe certamente risposto così. Qui lo stacco tra il racconto e il verosimile è netto, ma prendiamo un altro passo in cui questa forbice è meno ampia:
A un certo punto, vedendo molte persone rimaste in piedi, Moretti si lamentò della sala piccola che gli avevano proposto: «Ma non avete altri cinema ad Arezzo?» Effettivamente era pieno di gente e ci si chiedeva come mai non fosse andato al cinema Corso, peraltro stessa gestione ma più grande. Un assessore dietro di me raccontava al suo vicino che infatti gli avevano proposto il Corso, ma Moretti aveva detto di no, temendo che sarebbero rimasti dei posti vuoti e preferendo un cinema più piccolo ma pieno e con gente in piedi o che addirittura rimane fuori, e lui può fare incazzato la scena della sala troppo piccola.
Quasi certamente non è accaduto, ma potrebbe essere accaduto non perché Moretti sia vanitoso, ma perché il desiderio di successo è umano, e anziché dirlo esplicitamente come avrebbe fatto uno scrittore satirico senza immaginazione (‘si vedeva che Moretti era contento perché la sala era piena’, oppure ‘si vedeva che Moretti era irritato perché la sala era troppo grande e c’erano dei posti liberi’), lo Sgargabonzi si inventa una piccola storia morale che, incidentalmente, fa sorridere.
Tolto un altro velo di finzione, ecco che La mia amicizia con Nanni Moretti si rivela un buon esempio anche del lato serio, o non primariamente comico, della scrittura dello Sgargabonzi. Qui viene detta di passaggio, in tre righe, una cosa intelligente su Bianca e sui film di Moretti in generale, sul suo moralismo, una cosa che un critico bravo avrebbe fatto fatica ad argomentare in una pagina:
Ero da sempre appassionato di cinema e Bianca era il mio film di culto, quello che mi aveva convinto che nella vita potevo continuare tranquillamente a essere un moralista, bastava che facessi ogni tanto degli scatti da matto.
Jocelyn uccide ancora brulica di nomi di gente famosa – cantanti, attori, personaggi della TV eccetera – e questa gente, come si vede, lo Sgargabonzi la mette sulla scena inventandone azioni e parole. È una tecnica che dà frutti eccelsi sulla sua pagina Facebook, perché lì il commento alla foto del personaggio X è breve come una didascalia, e la brevità, se gestita bene, è congeniale all’effetto straniante. Per esempio questo Pannella seduto su un tavolo da giardino Mondo Convenienza.
Ma a parte venir usati come stoffa per i suoi racconti, i famosi e l’ironia sui famosi servono a quello che in teoria letteraria si chiama scoronamento: quando si prende qualcuno che sta in alto e lo si tira giù dal piedistallo mostrando che è fatto di carne ed ossa come tutti quanti. E c’è persino, volendo, un semiserio significato morale. Se c’è infatti un denominatore comune tra materiali tanto eterogenei quali sono quelli che si trovano nel libro, quel denominatore comune è l’insofferenza per i tromboni, per i simulatori che recitano una parte, che cercano di darla a bere vendendosi per qualcosa di meglio di ciò che sono, magari mascherando con la retorica e la santimonia una vanità da reginetta di bellezza al trucco. Questo è Moni Ovadia:
E anche lui com’era diverso. Me lo ricordavo con un sorriso contagioso e i suoi infiniti cappellini comprati su Amazon Prime, i cui colori mi richiamavano alla mente Marrakech e la sua piazza sgangherata, così bella da sembrare una pittura impressionista. Una piazza che ti resta appiccicata in testa nonostante non sia stata progettata da nessun architetto. E me lo ricordavo Moni, generosamente incazzato a Lucca Comics perché questa peculiarità nessuno storico dell’arte l’aveva mai spiegata. «Quella piazza non è fatta di niente! Ma solo di polvere, di musica e di gente di ogni colore!», ringhiava contro un attonito, indifeso Makkox allo stand della Coconino. Poi mi guardava sorridente e mi diceva serafico all’orecchio: «Casa mia è là e c’è sempre stata».
E questo è Vinicio Capossela:
Vinicio è un artista sicuramente tormentato, ma non tormentato da un elettricista dai preventivi allegri come lo è la mia famiglia. Lui l’elettricista ce l’ha dentro e questo lo fa vivere male, come un sasso in una scarpa troppo stretta. E sta male Vinicio e ne soffrono anche le persone che gli vogliono un bene dell’anima (ricambiato da lui con gli interessi, vi assicuro), fra le quali mi inserisco anch’io e tutti insieme ci chiediamo, non senza un po’ d’amarezza, sperando che tu ci legga: quand’è Vinicio che imparerai a volerti un pochino più di bene punto interrogativo?
Infine, per chiudere con il nostro racconto-campione, La mia amicizia con Nanni Moretti, c’è da dire qualcosa sulla qualità della scrittura. Lo Sgargabonzi ha il dono della velocità e dell’efficacia, senza che queste virtù portino con sé, come càpita, sciatteria nell’esecuzione (sciatto è uno degli aggettivi che ho trovato in una recensione per altro molto elogiativa di questo libro: niente di più lontano dal vero). La mia amicizia con Nanni Moretti inizia così:
Ero appena uscito da quell’incubo lynchano che era il Liceo Classico aretino degli anni Novanta, un intingolo di Maestri Muratori, perifrastiche passive e punizioni corporali,
ed è un bellissimo inizio, pieno di metafore azzeccate (intingolo), sineddochi ansiogene (le perifrastiche passive dei compiti in classe di latino), iperboli (punizioni corporali), e persino – nell’unico modo in cui questo si può fare, il modo ironico – la famosa satira politica (ad Arezzo comandano i massoni; ma ovviamente in tutto il libro, in tutto lo Sgargabonzi non c’è un’oncia, un grammo di quella cosa quasi sempre stupida che è la satira politica). Oppure:
Nanni Moretti arrivò. Altero, cazzuto, gioiosamente antipatico e senza resine. Salì sul palco insieme al classico imprenditore orafo aretino in quota Anicagis appassionato di film di cazzotti che lo avrebbe intervistato.
Velocità ed efficacia vuol dire anche economia nel lessico, cioè impiego delle parole giuste, senza fuffa intorno: e qui da classico a intervistato non c’è parola che sia di troppo, che non sia funzionale non solo al ritratto dell’intervistatore ma a quella correzione ironica che trasforma l’incontro con l’auteur «altero, cazzuto» in una faccenda per arricchiti aretini appassionati dei film di Bud Spencer.
Come ho accennato, da questo libro comico viene fuori una cosa che generalmente non viene fuori dai libri comici: una visione del mondo. Non si è ammiratori dello Sgargabonzi solo perché fa ridere o perché scrive bene, ma perché è saggio, e perché dice delle verità interessanti. Questa saggezza, vale la pena notarlo, non gli viene principalmente dai libri. In un’intervista a Jimmy Kimmel di qualche anno fa Louis CK ha detto che non leggeva un libro da quando aveva «suppergiù diciannove anni», e che invece qualche giorno prima in aeroporto aveva comprato Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen e lo stava leggendo con gusto. Louis CK è un uomo prodigiosamente dotato di virtù in senso lato letterarie – fantasia, stile, abilità nell’assortire le parole e nel calibrare i registri – e ho trovato sintomatico il fatto che la sua indifferenza ai libri combaciasse con quella di cui ha parlato lo Sgargabonzi, anche lui prodigiosamente dotato, in un’intervista recente:
Sui referenti letterari: nessuno. Può sembrare una provocazione, ma i libri che ho letto in vita mia sono pochissimi e credo stiano larghi nelle dita di quattro mani senza che ce ne sia stato nessuno che mi abbia segnato particolarmente. Se ti devo fare dei nomi che per me sono stati importanti vengono tutti da altri ambiti. Ti dico gli Squallor in primis, poi a seguire i fumetti di Carlo Peroni (Slurp! su tutti), il Renato Pozzetto degli anni ’70, il cinema di Todd Solondz o di Ciprì e Maresco, gli Oasis, Sergio Bonelli, la riviera romagnola, la vicenda del Mostro di Firenze e i giochi da tavolo di Reiner Knizia.
Tutti da altri ambiti. I fumetti, la musica leggera, la cronaca nera, i film comici ma con una vena grottesca o decisamente depressiva (Solondz), i giochi da tavolo (Jocelyn è dedicato a Reiner Knizia) e soprattutto ore, giorni di TV guardata prima, da bambino, passivamente, con quel trasporto e quell’amore che forse solo Tommaso Labranca ha saputo descrivere meglio:
Andavano in onda ogni mattina su una tv locale prima dei cartoni. Io, già ansioso allora, mi alzavo con un anticipo clamoroso e di quei caminetti me ne sorbivo un’ora. Stupende stufe in maiolica, in ardesia o in cotto naturale. Tutte me le guardavo, in attesa di captare, lontanissima e puntuale, la sveglia di mio babbo.
Poi, arrivata l’età della ragione, ore e giorni di TV guardata ironicamente, senza crederci, come se quelli che la abitano fossero figure di fantasia, burattini da manovrare in qualche recita bizzarra – qui ai funerali di Dario Fo:
E c’erano davvero tutti. C’era Diego Bianchi col suo inseparabile zainetto Malipiero Scuola, Lydia Mancinelli molto invecchiata, Milena Gabanelli distrutta e con la testa appoggiata al petto sicuro di Paolo Del Debbio, che le cingeva le spalle e le sorrideva paterno, e ancora Fulvio Abbate con la moglie Claudia Mori, un redivivo Don Gallo accompagnato da Dori Ghezzi che lo sosteneva nell’incedere, Giuseppe Mussari contrito sull’hoverboard, Riccardo Muti col compagno, Umberto Broccoli insieme agli agenti della scorta, Paolo Canessa irriconoscibile, un dignitoso Gillo Dorfles a braccetto dell’anziana madre, un solenne Umberto Smaila in divisa da capitano di fregata, Piero Ricca col cane Marioadorf, un pastore belga alto quasi un metro e mezzo. Addirittura Fedez, timidissimo in fondo alla navata centrale, con un maglione marrone con sopra ricamato un capriolo.
Questa saggezza conquistata in modo – per uno scrittore – così atipico, non attraverso i libri ma attraverso la vita e le arti di massa, ha un lato oscuro, vale a dire che la nitidezza con cui il narratore vede e descrive il lato buffo della vita si accompagna sovente a un senso di caducità e di tragedia. Il suo campo metaforico preferito è quello della malattia («Comprate il mio libro, che devo fare delle lastre!»), come se su ogni anche spensierata o esaltante esperienza umana si stendesse l’ombra di una lapide:
Ero sul set che stavo facendo l’amore con l’attrice hard Michelle Ferrari, quando mi è tornata in mente la situazione che ho a casa, con mia mamma da mesi su un materasso antidecubito che non sa che sta morendo. E allora sono scoppiato a piangere e anche Michelle ha pianto con me, abbracciandomi forte e intuzzando col bacino perché comunque voleva venire.
La parola morte ricorre una trentina di volte nel libro, certamente un record per un libro comico, e soprattutto di morte e di un mondo futuro senza morte parla il racconto che, chiudendo il libro, fa esplodere quella vena sotterranea di Unheimlichkeit che lo attraversa sin dal primo capitolo, che è una pagina apocrifa del diario di Anna Frank («… E l’attesa della crisi respiratoria fatale, nel buio e nel silenzio, come quegli uomini avevano atteso il Natale da bambini. Non posso neanche immaginare cosa doveva essere veder morire i propri genitori»).
Ma a parte il basso continuo di angoscia, il distillato di questa saggezza è liberatorio. Mostrandoci un mondo abitato soprattutto da persone stupide e vanesie, lo Sgargabonzi ci assolve per il nostro disagio, anzi ci rivela che siamo sempre stati noi, i disagiati, ad avere ragione, che quelle che solo a noi parevano idiozie lo erano davvero, oggettivamente. In gioventù, il Narratore aveva dovuto sopportare i fanatici dei giochi di ruolo e le loro messinscene demenziali, e in La mia infanzia in scatola si prende la sua vendetta:
Infine c’erano i giochi di ruolo, mai sopportati neppure quelli. Uno con la maglietta dei Megadeth raccontava ad altri quattro con la maglietta degli Iron Maiden che si risvegliavano in un antro umido e sinistro, e quelli subito facevano il gesto di sbadigliare e stirarsi e guardarsi intorno straniti in una cucina Del Tongo col tavolo tondo e la nonna in poltrona col sacchettino della stomia perché il male s’era già preso l’antro pilorico.
(Qui l’idiozia sta in quella simulazione sciocca, in quell’esercizio di finzione di gruppo che è il gioco di ruolo; e la realtà che vanifica la simulazione, che la irride, è l’appartamento piccolo-borghese, la nonna col cancro all’intestino: nei racconti dello Sgargabonzi si trova spesso questa dialettica labranchiana tra altezza degli obiettivi e miseria dell’esecuzione). Nella maturità, il Narratore è assediato, come tutti, da cretini autocompiaciuti che credono di essere puri mentre recitano continuamente una parte – esemplare tra tutti l’autore-attore teatrale che si racconta in Saggio sul teatro contemporaneo:
Glauco Mauri mi definiva «pazzo, cialtrone e ancora pazzo», col suo vocione da basso rossiniano. E mi abbracciava da stritolarmi le ossa come solo lui sapeva fare. Ma aveva ragione. A me piace sporcarmi, ungermi, sbarattolare. Che volete farci? Sono fatto così […]. E mi trovai circondato dai miei allievi dell’Officina, la scuola di teatro che dirigo da ormai trent’anni ma in cui non ci sono maestri né alunni promossi. Siamo tutti bocciati e ripetenti, dalla cattiva condotta, impresentabili, fieramente antiaccademici ma vivi. Per Dio, vivi!
È lo stesso registro autocompiaciuto della frase citata sopra sulla piazza fatta «solo di polvere, di musica e di gente di ogni colore!»; ma cosa più importante, al di fuori della finzione dello Sgargabonzi, è lo stesso registro, lo stesso tono che infesta le autobiografie di tanti mentecatti con manie di grandezza che finiscono su Facebook o su Instagram, nonché in volumi Rizzoli o Mondadori (ho in mente i memoir di quattro o cinque ridicoli uomini politici italiani ‘con una visione’), tutte varianti di un tipo umano propenso alla mistificazione e all’autoinganno, privo di un «io osservante» che lo aiuti a distanziarsi, ad essere consapevole di sé (lo Sgargabonzi fa spesso buon uso della sua laurea in psicologia):
Nel pezzo Saggio sul Teatro Contemporaneo mi metto nei panni di un istrionico insegnante di teatro che crede di esser visto come una sorta di Carmelo Bene dal volto umano quando invece è chiaro a tutti che snocciola pose e triti bignami per calzarsi le sue allieve e che a casa ha l’orzo solubile Crastan che l’aspetta […]. In ogni caso mi piace sempre creare personaggi che non hanno un Io osservante. Di quelli che raccontano una realtà al lettore ma il lettore capisce che le cose non stanno esattamente così (Intervista ad Alessandro Lolli, «Esquire» online, 12 settembre 2018).
Ritorniamo ai nostri schemini. Ci sono – diciamo – due regni del comico, la realtà e la surrealtà. La realtà è quella che finisce, deformata, nella per lo più scadente ‘satira politica’ che si vede in TV e nelle vignette sui giornali; o quella che offre spunti ai tanti comici-osservatori che riflettono ad alta voce sulle piccole cose della vita (quasi tutti gli stand-up comedian anglosassoni a cominciare dal migliore, Louis CK; quasi tutti i comici di Zelig e di Colorado). Il campo dello Sgargabonzi non è certamente la realtà, non è un comico-osservatore, e non c’è umorismo più lontano da lui della satira politica (forse sì: la satira sociale). Ma non è neppure esattamente la surrealtà, che è il campo a cui appartiene uno dei venticinque libri che lo Sgargabonzi dice di aver letto in vita sua, le Fiabe centimetropolitane di Elio (vedi l’Appendice). La surrealtà è un campo che conosce e che pratica benissimo, nel libro ci sono simil-fiabe come Hans e Gretchen, immaginazioni macabre come Il sogno perfetto. Ma lo Sgargabonzi dà il suo meglio quando parla della realtà riproducendola appena deformata, appena un po’ più assurda o più stupida di com’è davvero: cioè non Hans e Gretchen con due bocche al posto degli occhi e un occhio al posto della bocca, ma una deficiente che assiste alla morte del padre e la comunica in tempo reale su Facebook con stati come
Sono già passate alcune ore, ma ancora non riesco ad accettare la morte di mio padre. Penso sia normale. Cliccate «mi piace» se pensate che è normale
(il radar dell’idiozia va aggiornato ai tempi; si tratta cioè di vedere e di descrivere i molti modi per essere stupidi che risultano dall’infittirsi dei rapporti, delle occasioni in cui si prende la parola, soprattutto in rete: Jocelyn uccide ancora è pieno di queste meraviglie).
«A me – ha scritto in una auto-intervista su Linus (ottobre 2017) – piace solo far cozzare fra loro ingredienti apparentemente inconciliabili e vedere che storia ne esce fuori. Cose che dovrebbero non esistere insieme. Come il sorriso del condannato a morte». Questo lieve spostamento rispetto all’asse della realtà è ciò che fa funzionare alla perfezione racconti come La mia amicizia con Nanni Moretti, o E addirittura ripassano più volte (racconto di un viaggio in prima classe sul Frecciarossa), o Word: la nuova frontiera della scrittura, che è un manuale d’istruzioni per la videoscrittura molto user-friendly ma pieno di piccoli errori o sciocchezze che lo rendono inservibile. Il tasto Cancella serve per correggere gli errori, salvo che…
il pulsante non funziona però con situazioni grammaticali non erronee e parole che realmente esistono. Per esempio, non sarà possibile cancellare «trattore». In quel caso il bottone backspace rimane bloccato e non si può premere fino al riavvio.
Né realtà né surrealtà, lo Sgargabonzi produce dei piccoli congegni, dei piccoli mondi difettati, e li osserva e descrive mentre si sfaldano, in uno spettro di registri che va dalla goffaggine:
Il mio primo [gioco da tavolo] fu Doctor, Doctor! della mb, un deduttivo ospedaliero in cui, per farla breve, dovevi scoprire se il male s’era già preso le ossa. Mi venne regalato nello stesso Natale in cui scoprii che Babbo Natale non esisteva. Entrò mio padre vestito di tutto punto da Santa Claus, tranne la barba e il cappello perché alla Upim li avevano finiti. Si capiva dalla faccia che era lui. E mia mamma subito: «Sergio!»
al perturbante:
Una volta Bramieri fu invitato alla festa del mio paese. Era primavera ed erano passati diversi anni dalla sua morte.
Dal punto di vista della costruzione narrativa, aggiungo, sono congegni raffinati. Lo Sgargabonzi non è bravissimo soltanto nello scegliere le parole ma anche nel mantenere fermo, coerente, l’arco narrativo: cosa abbastanza rara nei testi umoristici. Perciò chi legge questi racconti deve stare attento sia ai sottotesti (in Hans e Gretchen, per esempio, il blocco Skizzen Brunnen, l’asta guidamolla e il portasapone DEIS sono tutti oggetti che la polizia trovò durante la perquisizione in casa di Pacciani: il mostro di Firenze è uno dei chiodi fissi dello Sgargabonzi, come il caso Moro) sia ai Leitmotiv o alle sottotrame che riaffiorano in corpo di racconto (in Gorilla vs Fucilata 0-1, la sottotrama degli scambisti di Belluno; in Storia di Matilde, la sottotrama della vedetta) o che rimbalzano da una parte all’altra del libro («Sono passate solo centocinquantanove pagine, eppure sembrano trascorsi secoli dai luttuosi fatti dello zoo di Cincinnati»). La costruzione conta, ed è ben calcolata.
Infine, due avvertenze al lettore. Jocelyn uccide ancora comprende una scelta dei pezzi medio-lunghi dello Sgargabonzi. La prima avvertenza è che mancano cose molto belle che si trovano nei meandri del suo sito, e che a mio avviso sarebbe stato bene inserire nel libro al posto di altri pezzi magari più elaborati ma di minore effetto comico (i pezzi solo verbali come Anacardi o Lavarsi le mani hanno un senso perché completano la mappa dei registri, ma sono meno belli degli altri). Immagino che qualche pezzo si sia dovuto tralasciare perché conteneva fotografie che sarebbe stato complicato o costoso o illegale riprodurre sulla carta (ricordo un thread memorabile sui funerali di Laura Antonelli), e che qualche altro conteneva così tanti cognomi famosi da rendere quasi inevitabile una querela. È un peccato; ma i volenterosi possono pescare liberamente dal sito, andando indietro nel tempo di mesi o di anni; o aspettare gli opera omnia.
La seconda avvertenza è che i pezzi medio-lunghi sono quasi tutti belli o molto belli, ma una componente fondamentale del genio dello Sgargabonzi, la componente più originale, è quella che si rivela nei post su Facebook. Nuovi mezzi di comunicazione producono nuovi modi di comunicare: nel numero infinito di persone che del nuovo mezzo fanno un uso pedestre (registrare i primi vagiti di un neonato, fotografare la fidanzata, filmare la prima comunione) a un certo punto si trova qualcuno che adopera quel mezzo per esprimere qualcosa che va al di là della mera comunicazione o testimonianza, e insomma che sollecita la funzione poetica del linguaggio (incidere una canzone, fare un ritratto con una Reflex, girare un film). Anche Facebook, Twitter e Instagram stanno generando i loro virtuosi, quelli che riescono a dire qualcosa di intelligente ed efficace in un numero contenuto di caratteri, magari associando in modo originale le parole a un’immagine (certo, non sono piattaforme che potranno produrre il nuovo Hegel; ma potrebbero produrre il nuovo Kraus). Tra tutte le pagine comiche che seguo, italiane e anglosassoni, nessuna è lontanamente paragonabile a quella dello Sgargabonzi per intelligenza, originalità, genio linguistico. Fino a qualche tempo fa erano quasi sempre post stranianti, che prendevano un personaggio, un fatto di cui si parlava e ci ricamavano sopra delle trame assurde. Pochi esempi. Anniversario della morte di Moro (contaminato con 4 ristoranti di Alessandro Borghese):
Alla location do 7 perché via Fani è una tonnara molto bella, residenziale, precisa, c’è il Simply, alla camera do 6 perché in via Montalcini non potemmo fare di meglio ma riuscimmo a infilare dalla porticina bassa una chaise longue in rovere che il Presidente gradì, al servizio do 4 perché l’ultimo giorno Prospero Gallinari s’impuntò di usare il pugnale di Rambo, al prezzo do 3 perché i viaggi all’Hyperion alla fine Papa Luciani ce li rimborsò solo in parte.
Dopo la notizia che Asia Argento aveva risarcito con centinaia di migliaia di dollari un ragazzo che l’accusava di violenza sessuale:
Meglio di quando Aldo Moro riuscì ad impossessarsi di una pistola e per 72 ore la situazione fra lui e i rapitori si capovolse.
Accanto a una foto del senatore Miguel Gotor con espressione accigliata:
Uno scatto nel momento in cui gli sto raccontando che, mentre siamo a cena, alcuni miei amici naziskin stanno truffando sua madre col fatto della tisanoreica per un totale di 60 mila euro. Fra poco gli dirò che, ovviamente, è uno scherzo.
Segue foto di Gotor sorridente e il commento:
Ecco. Gli ho appena detto che era una scherzo e guardatelo: immediatamente più disteso.
Terza foto, pensierosa:
Ettepareva. Conosco quell’espressione. Ora sta riflettendo sull’idea della truffa alla madre col fatto della tisanoreica. Vuol provarci lui.
Poi la pagina dello Sgargabonzi ha cominciato ad accumulare visitatori, e i visitatori più affezionati hanno cominciato a sottoporre i suoi post a un’esegesi grottesca, anch’essa spesso di notevole qualità comica; la pagina è diventata un club. Alla fine, i post dello Sgargabonzi hanno assunto una qualità e una dinamica simili a quelle di certi film dell’orrore. Nei film dell’orrore qualsiasi cosa fa paura, anche un bicchiere appoggiato sul comodino, purché venga ripreso al rallentatore e con la musica giusta, perché non è l’oggetto a scatenare l’effetto ma il contesto-film nel quale l’oggetto è inserito. Analogamente, a forza di articolare gli enunciati più assurdi con una voce serissima, la pagina Facebook dello Sgargabonzi è diventata uno spazio in cui qualsiasi cosa fa ridere perché anche sugli enunciati seri, o neutri, stinge la surrealtà del contesto – il contenuto prende la forma del contenitore, si tratti di mozziconi di discorso presi a caso:
Completamente sereno
Di frasi fuori registro, che non si capisce perché stiano lì:
Stiamo vivendo un processo di normificazione allucinante
Di messaggi ad amici suoi:
Vallorani, le scarpe che m’hai prestato mi fanno male una cosa paurosa
Di ovvietà finto-ingenue:
Piccola chicca sul cinema. Si sente spesso parlare del film Taxi Driver e i più curiosi si chiedono sempre chi è il regista di quel film, chi l’ha girato. Bene, il regista è Martin Scorsese.
Fino alla realtà riprodotta su scala 1:1, l’editorialino politico su Facebook:
Il vero fallimento della politica degli ultimi anni è quello di essere stati troppo tolleranti con gli intolleranti. Quello che il dibattito dei giorni scorsi ha tralasciato è che se il ricercatore abbia fatto bene o male a denunciare la capotreno è assolutamente irrilevante. Il punto è che un cittadino ha pienamente il diritto di denunciare pubblicamente un abuso di potere, non di essere costretto al silenzio perché uno dei partiti al governo minaccia di sguinzagliarti i cani addosso. Si crea così un pericoloso precedente per cui la libertà di parola viene meno, con la differenza che stavolta ad essere zittite saranno istanze pienamente legittime, per mano proprio, guarda caso, di quelle forze politiche che si appellavano a questa libertà di parola per essere liberi di insultare, intimidire e minacciare il prossimo.
Non c’è niente che faccia ridere, qui, se non appunto il fatto che quello che scrive questo pacato, pensoso commento è lo stesso che in un post successivo, accanto alla foto di Berlusconi, scrive:
Avete mai visto prima d’ora Berlusconi senza baffi?
Impressionante, vero?
Restate con noi.
Giorni fa, quando, dopo il suicidio del figlio, Lory Del Santo ha detto che sarebbe andata ugualmente al Grande Fratello Vip, perché «poteva essere una terapia», io e un mio amico, anche lui fan, abbiamo detto quasi all’unisono che «sembra un post dello Sgargabonzi». E poteva esserlo, in effetti, perché la notizia contiene una miscela molto sgargabonzesca di tragedia e farsa, cioè di tragedia vanificata, declassata a farsa per colpa della debolezza degli esseri umani su cui la tragedia si abbatte, per il loro non essere all’altezza. Quando si riesce a dare il nome a una cosa che prima non ce l’aveva, anzi che prima neppure si sapeva esistesse, perché la visione della cosa non era abbastanza a fuoco, significa che non si è soltanto un eccellente scrittore comico, ma un eccellente scrittore tout court. Credo che le resistenze ad ammetterlo siano dovute soprattutto al fatto che lo Sgargabonzi fa sorridere o ridere, e che un po’ tutti quanti – tutti quanti gli italiani, soprattutto – tendiamo a pensare che la letteratura debba sollecitare pensosi pensieri, che le cose serie e commoventi siano più importanti di quelle buffe e che ridere dell’esistenza non stia bene, nonostante blasoni eccelsi (Gadda: «Vorrei essere considerato uno scrittore umoristico, se umoristico non avesse una connotazione ferroviaria in Italia»); e credo anche che il goffo nome «Sgargabonzi» non giovi alla causa. Ma la letteratura ha grandi braccia, e contiene molte più cose di quelle che si trovano nei manuali scolastici; e quanto ai generi, è chiaro che Carlo Goldoni è stato un artista più grande di Vittorio Alfieri. Resta il problema del nome buffo: ma si sono vinte battaglie più difficili.
Appendice
Dato che mi interessava l’argomento ‘acculturazione dello Sgargabonzi’ (che cosa ha letto o non ha letto uno che scrive così bene?), gli ho scritto per chiedergli quali libri aveva letto negli ultimi anni. Questa è la sua risposta (che naturalmente potrebbe anche essere falsa):
Ecco qua, ho fatto un elenco completo dei romanzi/antologie di racconti che ho letto in quarant’anni:
Agatha Christie: Dieci piccoli indiani
Edmondo De Amicis: Cuore
Giuseppe Genna: Costantino e l’impero
Paolo Sorrentino: Hanno tutti ragione
Paolo Sorrentino: Tony Pagoda e i suoi amici
Stephen King: La lunga marcia
Stephen King: L’uomo in fuga
Stephen King: Il gioco di Gerald
Stephen King: Ossessione
Tiziano Sclavi: Non è successo niente
Tiziano Sclavi: Le etichette delle camicie
Tiziano Sclavi: Il tornado di Valle Scuropasso
Tiziano Sclavi: Apocalisse
Pupi Avati: Il papà di Giovanna
Pupi Avati: Gli amici del Bar Margherita
Rocco Tanica: Scritti scelti male
Elio: Fiabe centimetropolitane
Claudio Bisio: Quella vacca di nonna papera
Claudio Bisio: Prima comunella poi comunismo
Gene Gnocchi: L’invenzione del balcone
Gene Gnocchi: Il mondo senza un filo di grasso
Teo Teocoli: Frittura globale totale
Paolo Villaggio: Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda
Paolo Villaggio: 7 grammi in 70 anni