Spiegare a chi non li ha mai visti cosa sono, cosa fanno Antonio Rezza e Flavia Mastrella è complicato, perché i loro spettacoli si definiscono soprattutto per sottrazione: non c’è una catena di eventi, non si va dal punto alfa al punto omega; non c’è un significato («Nell’esatto momento in cui mi accorgo che qualcosa va a significare stimolando il sollazzo della mente pigra, mi lascio assalire da un disgusto che produce un fremito simile a uno spasmo»: Rezza, La noia incarnita); non ci sono riferimenti alla vita reale, alle cose che stanno fuori del teatro («Nei temi disdegniamo tutto ciò che richiami il contingente. I nostri eroi non mangiano, non lavorano, non hanno posizione sociale. Sono lì per sbaglio»); non c’è un messaggio, soprattutto non c’è un messaggio, e basterebbe questo – questa ferma volontà di non insegnare niente, di non convincere di niente, nell’orgia di moralismo che è l’arte, la vita italiana – a meritargli, nonché un Leone d’oro, uno scanno nel pantheon dei grandi artisti. Ma in più, cosa ancora più rara, fanno ridere.
Nei loro primi esperimenti, negli anni Novanta, si rideva soprattutto d’angoscia. Le maschere disegnate da Mastrella e intrepretate da Rezza soffrivano, si divincolavano, rantolavano più che parlare, per ragioni che in quegli sketch non erano mai davvero chiarite, si sarebbe detto per una generica inabilità a vivere, una ‘infelicità generale’ indipendente dalle circostanze: l’infelicità dello stare al mondo, dell’avere un corpo (era tutto un mangiare, uno strisciare a terra, un sentirsi fuori posto) e soprattutto del dover convivere con quegli emissari dell’inferno che sono gli altri esseri umani, questi abissi di vanità («Voglio il pienone. Non posso essere da meno di mio padre. Al mio funerale voglio ressa al botteghino»), infantilismo («Vorrei entrare alle poste ma… la vita è una. Vorrei concorrere alle ferrovie ma… il capostazione è veramente carismatico?»), egoismo («Rifiuta lo spreco ma ne gode i profitti. Sono anni che protesta, ma se gli togli i privilegi s’accazza»): una galleria di reietti che, collaudata nei cortometraggi, finisce tutta nel film del 1996 Escoriandoli (si trova su YouTube).
Nei vent’anni successivi i personaggi di Rezza-Mastrella hanno continuato a divincolarsi e a rantolare, ma si sono via via liberati del loro fardello d’angoscia. Non si ride più, con lo stomaco stretto, delle disavventure di quei vecchi grotteschi personaggi; si ride di sollievo per la deliziosa, catartica assurdità di ciò che si vede sulla scena. Allo stesso tempo, Rezza-Mastrella hanno deciso di rinunciare non solo al racconto ma quasi anche alla rappresentazione, passando per così dire dal figurativo all’informale: chi ha visto i loro ultimi spettacoli sa che siamo ormai alla pura surrealtà, e a trame talmente evanescenti da far pensare, più che al teatro, alla musica o, appunto, alla pittura astratta – un Gesamtkunstwerk, ma senza retorica; e senza sbadigli.