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Sulla “Caccia di Diana” di Boccaccio

«Mi parli del Boccaccio poeta» è una domanda-killer, una di quelle che agli esami di Letteratura italiana si fanno ‘per la lode’ a chi ha già dimostrato di sapere il fatto suo. Peggio c’è solo «Mi parli del Boccaccio latino». L’italiano medio, lo studente medio, lo studioso medio (anche medievista) conosce il Decameron, e ha solo una vaga informazione sul resto dell’opera boccacciana. Ma il resto c’è, imponente. La diffusione manoscritta delle poesie di Boccaccio, tanto liriche quanto narrative (come il Teseida, o il Ninfale fiesolano), ha pochi eguali nell’intero Trecento. E il Boccaccio di opere come il De casibus o le Genealogie ebbe, per gli eruditi della prima età moderna, un’importanza che oggi ci sfugge ma che sarebbe difficile sopravvalutare.

La Caccia di Diana, che si legge nella nuova edizione curata da Irene Iocca, è probabilmente la prima opera poetica scritta dal giovane Boccaccio nel suo periodo napoletano, forse nei primi anni Trenta. Diana, la dea Diana del mito classico, all’inizio del poemetto raduna appunto le più «leggiadre» donne di Napoli e le invita a partecipare a una battuta di caccia all’interno di uno scenario fiabesco, da locus amoenus («In una valle non molto spaziosa, / di quattro montagnette circuita, / di verdi erbette e di fiori copiosa, / nel mezzo della qual, così fiorita, / una fontana chiara, bella e grande, / abbondevole d’acqua v’era sita»). Le donne si organizzano in gruppetti, si spargono per la campagna, e la mattanza inizia; fin quasi alla fine, la Caccia di Diana non è che questo, un vasto mosaico che ad ogni tessera ci mette davanti agli occhi la scena di un’uccisione, scene stenografate più che veramente descritte (la Caccia non ha davvero versi o episodi memorabili, che rompano la monotonia dell’elenco, e non sono tanto persuaso dall’apologia di Iocca: «Il ricorso a schemi formalizzati non deve essere inteso come un segnale di trascuratezza poetica, ma semmai come prova della volontà di richiamarsi alla riconoscibilità di una tradizione»).

Tutto cambia alla fine del canto XVI (dei diciotto che compongono la Caccia). Diana propone alle donne di sacrificare le prede a Giove e a lei stessa, «che esser deggio / reverita da voi in modo degno». Ma ecco che la donna amata dal poeta, della quale ignoriamo il nome, si ribella: un «altro foco» accende il suo cuore e quello delle sue compagne, un fuoco d’amore che potrà estinguersi soltanto con l’intervento della dea che lo ispira e lo governa. Venere scende così dal cielo e trasforma ogni animale ucciso in un «giovinetto gaio e bello». Grande festa, e finale a sorpresa. L’io narrante, che fin qui aveva raccontato le cose dall’esterno, con lo sguardo dello spettatore, rivela di essere stato lui stesso un cervo, da Venere mutato «di cervio in creatura / umana e razionale» grazie alla mediazione della miracolosa bellezza della donna amata: «se agli occhi miei diè tal diletto / che, donandomi a lei, uom ritornai, / di brutta belva, ad omo d’intelletto / non pare ingiusto né mirabil mai». E insomma la storia della caccia prelude a una metamorfosi personale: la tessera che chiude questo mosaico epico è una pagina lirica che centonizza i più celebri testi stilnovisti.

Irene Iocca ha fatto un ottimo lavoro preparando il nuovo testo critico dell’opera, commentandolo e facendolo precedere da un’introduzione che racconta la storia del testo (la cui attribuzione a Boccaccio è stata a lungo contestata) e lo situa nella carriera dell’autore e nella storia del genere letterario. Nella parte filologica, Iocca ha potuto contare sul lavoro di Massèra e di Branca, ma per proporre una sistemazione stemmatica in parte diversa da quella fissata da Branca: e belle note filologiche, ben motivate, si trovano ogni tanto sciolte nel commento (per esempio a XVII 19 o a II 58). L’introduzione è limpida, rigorosa, informata senza esserlo troppo, cioè senza affastellare – come càpita – notizie che non c’entrano niente col tema in oggetto, solo per consumare pagine. E il commento ha le due qualità che soprattutto deve avere un commento scientifico: da un lato spiega tutto ciò che c’è da spiegare senza nascondere i dubbi o le difficoltà; dall’altro accosta alla parafrasi un apparato di note erudite ampio ma non soffocante.

Si possono fare alcune proposte puntuali su questo o quel dettaglio del testo. Pochi esempi. In III 50 non mi pare che incappare voglia dire ‘restare impigliato nelle reti’, come si dice nel commento: vuol dire ‘imbattersi’, come in ogni altro contesto (i cervi si imbattono in ella, cioè in Biancifiore; non dunque «nella rete», come propone Iocca). In IV 45, «lui ferì in quello punto stesso» non vorrà dire ‘in quel medesimo luogo’ bensì ‘in quel preciso momento’, com’era normale nell’italiano antico. In V 6, «e a’ can far grandissimo rammarco», il significato di rammarco non può essere ‘un torto, un dispiacere’, ma sarà, dato il contesto (i cani hanno visto due orsi furiosi), ‘strepito, lamento, cagnara’, che è del resto uno dei sensi di rammarico nell’italiano antico. In VI 27 «s’alcuna fiera fosse fra que’ mai», intenderei mai non come avverbio di tempo (‘se mai ci fosse qualche bestia’) ma come sostantivo: ‘rami, arbusti’, come in Pg. XXVIII 36 «La gran varïazion d’i freschi mai». In VI 43 anticiperei la virgola e leggerei «ma dopo sé, rivolta, ebbe veduto», nel senso di ‘dietro di sé’, anziché «dopo, sé rivolta, ebbe veduto».

A parte minuzie del genere, ho due sole riserve di sostanza. La prima riguarda i rinvii intertestuali. Che un poemetto di Boccaccio in terzine faccia venire in mente la Commedia è scontato, ma proprio per questo sarebbe bene limitare i confronti con Dante ai luoghi davvero significativi (non ne mancano, si capisce: ogni locus amoenus post-dantesco ha un debito con gli ultimi canti del Purgatorio o col Paradiso). Se i cani tengono immobilizzato a terra un lupo «per l’orecchie rase» non c’è bisogno di pensare alle ciglia «rase / d’ogne baldanza» di Inf. VIII 118-19. E se Boccaccio dice che un astore è «di più vol ch’altro e di maggior valore» non occorre pensare al volo dell’aquila imperiale di cui parla Dante nel sesto del Paradiso. Poi è anche chiaro che un poemetto pieno di animali fa pensare ai bestiari, fa cercare i luoghi paralleli nei bestiari. Ma anche qui, non troppo zelo. In XIV 41 la cacciatrice Tuccella lancia le sue frecce contro un istrice e lo uccide; nel loro commento alla Caccia (1991), Cassell e Kirkham osservavano che «Boccaccio forse ha in mente il rovescio della leggenda, trasmessa da Plinio attraverso Isidoro, secondo cui il porcospino è in grado di scagliare i suoi aculei», ma mi pare un’osservazione fuorviante (cosa mai può voler dire avere «in mind a reversal of the legend»?), e che dunque – come qualche altra del genere – non andrebbe ripetuta in nota.

La seconda riserva riguarda la questione dell’esegesi letterale affiancata od opposta all’esegesi allegorica. Gli animali della Caccia vogliono significare altro da se stessi oppure no? Il cervo e il serpente sono un cervo e un serpente oppure sono simboli di determinate e determinabili qualità morali? Il bagno dei giovani alla fine del poemetto allude al rito del battesimo? Su questo aspetto cruciale il commento di Iocca non mi pare del tutto soddisfacente. Nell’introduzione, la studiosa cita la proposta di Cassell-Kirkham di «intendere la Caccia come una metafora universale della lotta dell’anima nella scelta tra bene e male», ma dopo averla citata ne prende cautamente le distanze (con molta ragione, a mio avviso). Poi però nel commento l’interpretazione allegorica salta fuori una pagina sì e una no, e non si capisce bene se Iocca la cita perché ci crede o per mettere di fronte al lettore le varie opzioni esegetiche. Cosa giusta, a patto che poi si dica anche al lettore quale di queste opzioni è quella più sensata: il che spesso non avviene. Un esempio tra i tanti. In XII 15 le donne si preparano a uccidere un serpente: «noi siam qui con buon cani e bene armate, / ben lo potremo uccider salvamente» (XII 14-15). Giustamente Iocca parafrasa salvamente con ‘senza alcun danno, al riparo dal pericolo’, ma poi rimanda a un passo dell’edizione Cassell-Kirkham in cui si sostiene che salvamente ha «una doppia connotazione», l’una letterale e l’altra simbolica, perché «può essere ‘salvazione’ in senso cristiano […], data la potente associazione del serpente alla Caduta, quindi alla dannazione». A me sembra, qui e in generale, una lettura priva di fondamento, e per questo avrei voluto che Iocca avesse preso posizione con più chiarezza.

 

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