Apocalisse da camera, il primo romanzo di Andrea Piva (2006), era una specie di incruento American Psycho, con – al posto di Patrick Bateman – un bravo ragazzo come protagonista. Il bravo ragazzo tirava cocaina e, assistente all’università, si portava a letto le studentesse in cambio della promozione agli esami, ma niente di più grave di questo. Il titolo del libro era appropriato, perché le vicissitudini del bravo ragazzo erano più comiche che tragiche, e le piccole catastrofi non andavano oltre il perimetro della sua confortevole vita privata (la pagina più bella del libro era dedicata, significativamente, al rimpianto per la cameretta nella casa dei genitori). Lo stile era brillante per lo più in senso buono: cioè veloce, inventivo, spiritoso. In una minoranza di casi questa facilità di scrittura poteva diventare futilità, sia nella rappresentazione dei personaggi sia nel linguaggio: «Cognetti scoppiò a ridere, della sua risata da coglionazzo, e Ugo lo guardò imbracciando un sorriso a canne mozze. Il deficiente gli aveva fatto prendere uno spavento da competizione. E per sfotterlo ancora una volta sul naso. Se avesse saputo in quale costoso equilibrio era ancora Ugo tra complesso adolescenziale e messa in mostra di un più maturo gusto esotico, forse avrebbe evitato. Oppure insistito maggiormente, chissà». Pagine come questa – a parte gli echi da Fantozzi («coglionazzo», «da competizione») e la scelta poco felice delle parole («costoso equilibrio», «messa in mostra», maggiormente usato al posto di più, che è uno dei tic linguistici del momento) – davano l’impressione del fumetto più che del racconto, come se da un momento all’altro sulla pagina potessero spuntare i gulp e i sob. In generale, leggendo, venivano in mente le strisce di Andrea Pazienza.
Il nuovo romanzo di Piva, L’animale notturno, ha solo i pregi e non i difetti di Apocalisse da camera. Vittorio Ferragamo è un giovane provinciale che arriva nella capitale e cerca di fare fortuna, di entrare o rientrare nei giri giusti, e soprattutto di diventare ricco. Questa trama, vecchia di un paio di secoli (Il rosso e il nero), funziona ancora perché è insieme archetipica, dato che tutti quanti prima o poi facciamo il nostro ingresso nel mondo, e suscettibile di infinite variazioni, perché tutti quanti nel mondo entriamo in un modo diverso. Il mondo di Vittorio Ferragamo è quello del cinema, anzi dei cinematografari romani, e non è un bel mondo. Ferragamo ha scritto un paio di film di successo ma poi ha litigato con il suo amico regista, e adesso è finito sulla lista nera dei produttori romani. Tutto va male, e allora decide di rischiare. Affitta un appartamento in centro che non può permettersi, si droga, vince e perde a poker. Quando è sull’orlo della bancarotta, quando sta per arrendersi e tornare dalla mamma in Calabria, lo salva il caso: comincia a fare soldi col gioco d’azzardo online, ma in un modo inatteso, e questo modo illumina, rendendola divertente e avvincente, la seconda parte del romanzo.
Come molti immoralisti dal cuore buono, Vittorio Ferragamo è un moralista fatto e finito. Lo era già il protagonista di Apocalisse da camera, il corrotto che vedeva segni di corruzione e decadenza un po’ in tutto e in tutti: nei genitori sdraiati davanti alla TV, nei professori negligenti, nelle adolescenti mignotte. Ma in L’animale notturno il campionario dei cattivi e degli immorali si allarga: gli agenti immobiliari sono dei tipi melliflui che lucrano sulle disgrazie degli altri, i produttori sono dei sadici analfabeti, attori e attrici si comportano come adolescenti viziati anche se hanno quarant’anni. Pur essendo un cocainomane anaffettivo, Vittorio Ferragamo è il migliore di tutti, o almeno si sente così. I ritratti dei cattivi immorali sono divertenti, anche se unidimensionali (ci sarà pure un agente immobiliare onesto, un produttore che non sia un pezzo di merda). Mentre sono meno convincenti, si potevano forse sacrificare, i momenti in cui il messaggio morale è esplicitato e ispira pagine – non sciocche, ma un po’ grevi – sullo spirito del tempo, vedi il pistolotto sulla doxa: «Ridotti come siamo alla più totale marginalità nel mondo dei quanti e del codice binario, noi viviamo di scetticismo, ci rifugiamo in quello perché da lì possiamo dire e sostenere ancora tutto con apparente rispettabilità, perché se niente è mai dimostrabile fino in fondo allora tutto è un’opinione, e ogni opinione è lecita, e di opinione ci nutriamo»; o vedi l’excursus sui «soloni del nostro codice linguistico, quelli che coi cocci rotti delle loro rotte avanguardie in mano piagnucolano contro le metamorfosi progressive della nostra lingua». Piva, cioè il suo personaggio, è delizioso quando vive e pensa alla sua vita, un po’ stucchevole quando si mette a riflettere sull’esistenza in generale. D’altra parte, in un romanzo scritto in prima persona in cui l’io narrante si rivolge frontalmente al lettore chiamandolo «Lettore» era un po’ difficile non pontificare, almeno ogni tanto.
Ma le pagine felici sono molte di più di quelle infelici. Da un lato, guardando all’intero, la voce di Vittorio Ferragamo è sempre credibile, ed è bello e convincente il senso di disillusione e di amarezza che attraversa tutto il libro. Dall’altro, guardando ai dettagli, la tecnica di Piva è eccellente. Per esempio, è molto bravo nella scrittura dei dialoghi, nel senso preciso che non si dimentica mai che nei dialoghi succede qualcosa, che le persone cambiano punto di vista, si riposizionano, passano da uno stato d’animo all’altro (vedi il dialogo col compagno di poker, p. 213 e seguenti, o quello con Clara, p. 303 e seguenti); ed è altrettanto bravo nelle descrizioni: sia degli ambienti (come il super-attico romano di p. 78 e seguenti), sia dei sentimenti e delle emozioni (per esempio a p. 329, quando si rende conto di aver perso in pochi secondi una valanga di denaro), sia – cosa molto più difficile – dei rapporti sessuali.
Poi può darsi che per scrivere un grande romanzo serva avere un po’ d’amore o almeno un po’ d’interesse per i personaggi diversi dal personaggio principale, e insomma per gli altri e non solo per chi dice ‘io’. Di questo amore/interesse non c’era traccia nel romanzo precedente di Piva, Apocalisse da camera, dove gli altri erano partner sessuali, pusher e ripugnanti colleghi di università. In L’animale notturno il mondo si popola di figure simpatiche, e non solo decorative (il senatore Testini, il suo valletto sudamericano), ma a nessuna di loro riusciamo ad affezionarci soprattutto perché a nessuna di loro sembra sapersi affezionare il narratore-protagonista. Se si dovesse indicare il tema del romanzo, credo sarebbe giusto dire che questo tema è la solitudine, più precisamente il modo in cui si può essere soli, oggi, nonostante si vivano vite socialmente attive, anche brillanti. Benché parli, frequenti, copuli, Vittorio Ferragamo è solo dall’inizio del libro alla fine, e si muove sulla scena con l’attitudine della preda, convinto (a ragione) di doversi guardare da tutti in un mondo pericoloso, nemico anche quando gli si presenta col sorriso. Se Apocalisse da camera, scritto poco dopo i trent’anni, era il romanzo della ribellione e faceva pensare ad Andrea Pazienza, L’animale notturno, scritto un po’ dopo i quaranta, è il romanzo della rassegnazione, e leggendolo viene semmai in mente Her di Jonze, il film ambientato in un mondo distopico nel quale le uniche relazioni significative saranno quelle con le voci immateriali di un sistema operativo informatico. L’unica differenza è che Jonze parla del futuro.
Andrea Piva, L’animale notturno, Giunti 2017, 16 euro.