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Autobiografia della nazione

Dopo la laurea al Dams e un master di un anno in Diritti Umani, il giovane Alessandro Di Battista parte per il Guatemala. Ignora lo spagnolo, ma questo non gli impedisce di vincere un «bando come casco bianco della Caritas italiana», nell’ambito di un progetto che – come si legge nel sito della Caritas – manda all’estero «volontari e volontarie con il ruolo di operatori di pace, promuovendo, al contempo, i temi dell’educazione alla mondialità e all’intercultura». Arrivato in Guatemala, a Nuevo Horizonte, s’immerge nella vita della povera gente trovando ospitalità in casa di Raúl, un ex guerrigliero ora contadino, e della sua compagna Chala. La sera, per affinare la lingua, Di Battista traduce Neruda. Di giorno, per cattivarsi le simpatie dei ragazzini di Nuevo Horizonte, dà lezioni gratuite di chitarra, mentre loro gli insegnano le parolacce in spagnolo: «Eravamo tutti insegnanti e studenti contemporaneamente». Insieme a loro legge i giornali «provando a smascherare tutte le più comuni tecniche di distrazione di massa che la stampa guatemalteca mette in campo pur di mantenere il potere nelle mani dei soliti». Diventato ormai parte della comunità, grazie a un finanziamento della Caritas fonda una biblioteca, sui cui scaffali si trovano fianco a fianco Stato e anarchia di Bakunin e i romanzi di Harry Potter. «Ogni volta che un ragazzo veniva a prendere un libro in prestito mi sembrava di aver dato un piccolo contributo a migliorare il mondo». Un angolo di paradiso, minacciato soltanto dalla TV, da «quelle indegne telenovelas latinoamericane che ogni giorno intaccano il lavoro fatto con la biblioteca».

Finita l’esperienza guatemalteca, Di Battista non torna in Italia ma viaggia in lungo e in largo per il Sudamerica, alla ricerca di «spremute di umanità». Ha qualche soldo da parte ma non disdegna il lavoro. Vende chincaglieria nei mercatini («Io sapevo fare soltanto banalissimi braccialetti, ma ero bravo a venderli»), carica sabbia in Honduras, scarica maiali in Brasile. «Tutto questo», precisa, «non per guadagnare denaro», ma per ottenere «la patente da viaggiatore e non essere mai bollato come turista».

Tornato a Roma, la gamma delle possibilità, che sul Rio delle Amazzoni pareva infinita, ha l’aria di restringersi. I compagni di scuola «hanno iniziato a ingranare», lui è fermo. La notte, lo tormentano gli attacchi di panico. Scrive a Repubblica, al Fatto, proponendosi come inviato in Sudamerica, ma neanche gli rispondono. Gli risponde invece Gianroberto Casaleggio, che gli dà 3600 euro per scrivere un libro sui sicari guatemaltechi. Mentre scrive, Di Battista partecipa ai meet up del Movimento, si dà da fare. Ormai «non del tutto ignoto» ai simpatizzanti, nel 2013 si presenta alle selezioni online nel M5S è arriva quarto nella Circoscrizione Lazio 1. Viene eletto alla Camera.

Nell’aula che è stata ed è ancora «occupata abusivamente dai partiti e dai loro lacchè», Di Battista porta avanti le sue battaglie. Battaglie mirate: sul reddito di cittadinanza, sui marò («Io non sapevo se i due marò erano innocenti o meno: sapevo che avevano obbedito, da buoni soldati, a un ordine ricevuto e mi indignava il fatto che in Italia pagasse sempre chi fa il proprio dovere, magari per tutelare gli interessi di qualche grande armatore»). Ma soprattutto battaglie di principio: contro «i pennivendoli al servizio delle banche»; contro i giornalisti sleali come Daria Bignardi («la moglie di Luca Sofri, figlio di Adriano Sofri, l’ex leader di Lotta Continua condannato a ventidue anni di carcere quale mandante dell’omicidio del commissario Calabresi»), che gli fa una domanda non concordata a proposito del padre neofascista; contro i politici corrotti e corruttori (su tutti Giorgio Napolitano, l’uomo che fu al fianco dei «carri armati sovietici che sedarono nel sangue le sacrosante rivendicazioni di libertà dei giovani ungheresi di Budapest durante la rivoluzione del 1956», l’uomo che «si recò, casualmente» negli USA «durante i giorni tragici del sequestro Moro»); contro l’Unione Europea, che «ci obbliga ad andare in pensione sempre più tardi»; contro le banche, in particolare Goldman Sachs e JP Morgan (il motore del sì al referendum costituzionale); contro «la religione del consumo»; contro «i pregiudizi degli intellettuali, relegati, dalla nostra nascita, ai margini della storia».

Preso in questo vortice, Di Battista non perde però l’abitudine al viaggio, perché «viaggiare è uscire da se stessi», e questo annullamento nel flusso della vita, «come una persona qualunque», è ciò che stimola la virtù essenziale per chi fa politica, l’empatia, cioè «la capacità di capire i problemi o gli slanci altrui e farli propri». Sul traghetto per la Sicilia, Di Battista collauda questa empatia ascoltando le confidenze dei pendolari: la rabbia degli agricoltori per «l’introduzione delle arance marocchine», ma anche l’orgoglio per il prodotto locale («C’è il tarocco, l’arancia più diffusa. Poi la sanguinella che si raccoglie fino ad aprile, e poi il moro di Lentini»); l’ira del pendolare siciliano contro i «monopolisti dei trasporti»; l’indignazione del pescatore calabrese contro l’Unione Europea, «durissima nei confronti dei pescatori calabresi ma estremamente indulgente con quelli spagnoli». Viaggiando, Di Battista si scopre uomo tra gli uomini: «Viaggiavo e ascoltavo, sentivo crescere in me il senso di appartenenza alla mia specie: quella umana». All’interno della specie umana, gli italiani si distinguono per solarità ed eroismo («In viaggio incontrai decine di eroi»), ma anche per un’ingiusta propensione a colpevolizzarsi: «Spesso ce la prendiamo con noi stessi quando occorrerebbe avere la forza di prendere di petto i veri responsabili dei disastri del nostro Paese».

Questo, a grandi linee, il contenuto di A testa in su. Ma il riassunto non rende l’idea, perché non può trasmettere la voce di Di Battista, che è quella che dà al libro la sua nota caratteristica. Una voce franca, sicura («l’unica carriera che davvero mi interessava, e mi interessa ancora, è quella di essere umano»), ma talvolta commossa («gli esseri umani sono angeli con una sola ala, possono volare solo restando abbracciati»); confidenziale («Ora che sono un parlamentare, troverò pace? Mi ricandiderò? Mah, credo che i miei piedi non si raffredderanno mai»), ma anche solenne («Il vento del cambiamento aspetta il respiro degli uomini per non essere fermato»).

A testa in su è un libro importante, che ha un notevole valore di testimonianza, uno di quei libri che gli storici del futuro non potranno fare a meno di leggere se vorranno capire che cosa è successo in Italia in questi anni. Quanto ai lettori di oggi, troveranno in A testa in su molte ragioni per riflettere non tanto su Di Battista quanto su ciò che ha portato Di Battista ad essere Di Battista, sull’humus che ha fatto fiorire questa pianta: i libri che lo hanno formato, la conversazione e l’esempio del padre destrorso, il Dams, il master in Diritti Umani. L’educazione alla mondialità e all’intercultura.

Infine, gli storici della bêtise vi troveranno un vasto e affascinante campionario. Perché nel non ancora quarantenne Alessandro Di Battista si sono accumulati, strato su strato, decenni – forse secoli – di retorica italiana. In un’Amaca di qualche tempo fa Michele Serra si domandava, un po’ deluso, come mai Di Battista non fosse del PD o di SEL. Serra aveva ragione, a suo modo, perché nella multi-retorica di Di Battista c’è anche una generosa fetta di retorica gauchiste: la mistica del Popolo Sano e Naturale, che è uno degli stigmi più patetici della mentalità borghese. Ma è solo una fetta. Nel resto della torta c’è la retorica hippy del comunque viaggiare, la retorica alla Terzani del filosofare viaggiando, la retorica cristiana della ‘buona povertà’, quella comunitarista che loda l’artigiano e biasima l’industriale, quella terzomondista (gli africani «danzano sul mondo perché sono dominatori del tempo»), quella pasoliniana nemica dei consumi e della TV. E c’è infine, ad amalgamare il tutto, l’ingrediente italiano eterno, immarcescibile, anzi sempre più verde e vivo a mano a mano che passano gli anni: Gabriele D’Annunzio.

Alessandro Di Battista, A testa in su. Investire in felicità per non essere sudditi, Milano, Rizzoli 2016.

 

 

 

 

 

 

 

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