L’amico che mi accompagna al Festival del Fitness di Rimini non è veramente un amico, è uno degli istruttori della mia palestra, dunque è un amico della palestra, che è come dire niente, solo uno di quelli con cui una volta all’anno si fanno le cene della palestra, e si scambiano quattro parole se ci si incrocia all’inizio o alla fine di un corso. Tra noi c’è anche, come succede, una certa epidermica simpatia, ma che non porterà a niente perché abbiamo vite troppo diverse: il telefono ce lo siamo scambiati solo due giorni fa, cioè io gli ho chiesto il suo quando ho saputo che anche lui sarebbe andato a Rimini. È il tipo che s’imbarca in cose di cattivo gusto come fare il concorrente nella trasmissione dei pacchi su Rai Uno (non ha vinto niente ma si è divertito lo stesso) o fare il pubblico a Forum (che è tutto una montatura) o ad Amici, «soltanto per la fica»: precisamente i programmi che io non riesco a vedere per più di venti secondi perché vengo travolto dalla vergüenza ajena.
La presenza accanto a me dell’amico della palestra Maurizio mi è utile perché lui è qui per lavoro, perciò guarda le cose e le persone intorno con l’occhio interessato di chi deve comprare, e le cose e le persone intorno non lo sopraffanno. Così nella prima ora di visita parliamo con un tale allo stand della Panatta (attrezzature per il fitness), confrontiamo i prezzi di certi tappetini per gli esercizi a terra, ragioniamo sui vari tipi di yoga insieme a suoi conoscenti incontrati qui che sono del ramo. Parlo al plurale ma fa tutto lui, io per lo più annuisco e ammiro in silenzio.
L’ammirazione – tra l’altro – mi ha portato a Rimini. Io ammiro quelli come Maurizio: i bravi istruttori di ginnastica che vengono a Rimini per aggiornarsi sui nuovi strumenti e sui nuovi tipi d’esercizio, e lo fanno sia con passione disinteressata (oggi è domenica, domani si lavora) sia con lo scrupolo di chi rischia del suo (Maurizio è socio della palestra in cui insegna, ogni attrezzo sbagliato sono soldi buttati dalla finestra). Perché ho passato più di trent’anni tra scuola e università, e ho incontrato molti insegnanti inetti e solo pochi insegnanti veramente capaci, mentre nei miei più di vent’anni di ginnastica nelle palestre di mezzo mondo ho trovato sempre istruttori bravissimi, cioè non solo istruttori che resistono alla fatica più di me anche se sono più vecchi di me, e che non si confondono mai tra supino/prono, destro/sinistro, ispirare/espirare, non solo questo: ma istruttori che mettono nel loro lavoro una passione che, fuori della palestra, si trova forse soltanto tra gli artisti. Più volte, alla fine di un’ora di corpo libero, mi è capitato di ripetermi, senza nessuna ironia, i versi con cui Sereni commenta l’esibizione di un jazzista ascoltato in un locale di Toronto: «purché resti un’abnegazione capace d’innocenza di là dalla mercede». Perché in quasi tutti i miei istruttori ho trovato una passione, una dedizione, un amore per il lavoro ben fatto che, senza retorica, andava molto al di là della poca mercede che gli corrispondevo.
All’interno della categoria degli istruttori, già stimabile in sé, Maurizio è poi particolarmente encomiabile perché ha tutte le loro virtù e quasi nessuno dei loro vizi, e per esempio nessuno dei loro tic linguistico-semiotici da tamarro. Quando suggerisce e incoraggia, durante la lezione di TBW (Total Body Workout), Maurizio non singolarizza i plurali. L’altro istruttore delle sette di sera, Leandro, anche lui bravo ma di borgata, invece lo fa, dice «Facciamolo ampio quell’affondo!», o «Distendete bene il gluteo!», che per gli utenti provvisti di dottorato è come sentire il gesso sulla lavagna. Maurizio non usa il dativo etico, non dice «stammi su con quelle gambe!» o, in soluzione combinata, dativo etico + singolarizzazione, sentito con le mie orecchie, «lavoramelo bene quell’addominale!». Leandro sì. Quando c’è da cambiare esercizio senza fermarsi non fa il gesto puerile che Leandro ha imparato a fare guardando il wrestling in TV, il gesto di passarsi la mano a taglio sulla gola, come per sgozzarsi. Insomma, Leandro recita – bene quanto si vuole – la parte dell’istruttore, Maurizio no. E la naturalezza è segno di maturità, e la maturità è tutto.
Ammiro anche quelli che sanno vendere le cose. In generale: perché io non so farlo. Ma ammiro in particolare chi è riuscito a inventarsi un’intera linea di produzione a partire da quasi niente, come il cesenate Nerio Alessandri, che nel 1983, a ventidue anni, fonda nel garage di casa sua la Technogym, che è stata appena quotata in borsa ed è oggi una delle più grandi aziende al mondo nel settore del fitness (14 filiali, più di duemila dipendenti). Io a ventidue anni iteravo l’esame di filologia romanza. E ammiro soprattutto chi, lavorando su quell’oggetto finito e limitato che è il corpo umano, riesce a inventarsi con cadenza annuale, biennale al massimo, degli strumenti e delle routines sempre nuovi per renderlo più agile, tonico, performante. Adesso mi pare che siano un po’ sparite, ma per anni ho guardato con un interesse vicino alla passione quelle pubblicità americane degli attrezzi per la ginnastica da camera, con le loro incredibili architetture di molle, pesi, contrappesi, cuscinetti a sfera, tutto quel grigio luccicante. Non guardavo i culi, guardavo gli attrezzi.
L’altra cosa che mi ha portato al Festival del Fitness è una certa voglia di generalizzare. Qualche mese fa ho letto il libro di un pedagogista che diceva quello che tutti sappiamo, ma con qualche dato in più, e cioè che il problema principale degli adolescenti è il loro corpo. Non il funzionamento del loro corpo, la sua buona salute, ma il suo aspetto, perché gli adolescenti hanno soprattutto paura di essere brutti. Questa paura, mi sono detto, porta direttamente a Rimini, a quella gigantesca Casa Correzionale che è il Festival del Fitness. E a dire la verità avevo cominciato a scrivere il mio reportage su Rimini ancora prima di arrivarci. Cominciava così: C’è una canzone di Robbie Williams che a un certo punto dice «They’re selling razor blades and mirrors in the streets», cioè «Nelle strade vendono lame di rasoio e specchi». Il Festival del Fitness di Rimini è un po’ tutto uno specchio, con l’aggravante che davanti allo specchio non si è da soli, c’è un mucchio d’altra gente più tonica, giovane, bella, e non ci sarebbe niente di strano se, dopo l’effetto euforizzante della zumba, una percentuale X di festivalieri umiliati dal confronto allungasse la mano verso il rasoio e si tagliasse le vene… Avevo cominciato così, ma già sull’autobus che mi portava dalla stazione alla Fiera, ascoltando le chiacchiere, guardando i corpi, avevo capito che le cose sono un po’ più complicate, e che la logica vittime/carnefici o servi/padroni non funziona.
Primo, i servi non sono veramente servi. Fuori dei padiglioni, seduto accanto alla vasca dell’aquagym, incontro il controtipo. In L’immagine dell’uomo lo storico George Mosse scrive che per essere apprezzato, per essere visto veramente, il tipo della bellezza e dell’armonia ha bisogno di essere messo accanto a un controtipo del brutto e del disarmonico: l’ideale spicca soltanto sullo sfondo dell’anti-ideale. Il controtipo riminese che adesso batte le mani a tempo, mentre gli istruttori dello spinning s’impennano sui pedali e urlano negli headset che «è arrivata l’ora di soffrire», è un signore di una quarantina d’anni sovrappeso di costituzione, molliccio di costituzione, irredimibile attraverso qualsivoglia dieta o routine ginnica, e questa, nel reame della Tonicità che è il Festival, sembrerebbe la perfetta ricetta per il dolore. Invece no, il controtipo riminese è raggiante. Il fatto è che al Festival del Fitness di Rimini il tema festa è più importante del tema fitness. Non è che non ci siano spazi e momenti riservati ai belli, agli armonici, ai forti, ma i brutti e i disarmonici sono poi tutti accolti col sorriso dall’aquagym o dallo spinning, o dalle discipline dell’amplissimo comparto ginnastica-danza: le pance prominenti, le cosce flaccide, i culi bassi ricevono tutti un’indulgenza plenaria sul tappeto del piloxing, del piloga, del circuit training, o a mollo nell’acqua tiepida dei vasconi. Non conta come si è, come si è fatti, conta lo sforzo che si è pronti a fare, o anche solo la disponibilità a fare un tentativo, a stare insieme agli altri, e pazienza se ci si ferma a metà. In questi stessi padiglioni, qualche anno fa, ospite al Festival di Comunione e Liberazione, mi ero sentito straniero: unico ateo in mezzo a plotoni di credenti. Qui no. La Provvidenza del fitness ha braccia più larghe di quella del Padre, perché mentre questa chiede di avere la fede, quella chiede soltanto di avere un corpo, e di volerlo muovere a tempo. I chiamati sono anche gli eletti.
Secondo: i padroni – istruttori, presenter, dimostratori – hanno sempre l’atteggiamento affettuoso non di chi comanda ma di chi propone, caldeggia, suggerisce per il bene di chi lo sta ascoltando; ma non insistono e, soprattutto, non verificheranno se il loro suggerimento è stato o non è stato accolto. Nel padiglione della Reebok, di fronte a un migliaio di persone che si muovono a tempo, l’istruttore sul palco scandisce gli esercizi con questo gentile invito ad andare oltre i propri limiti: «Posso rimanere così [e pianta bene per terra la suola delle scarpe], o accettare la sfida di stare sulle punte [e si mette sulle punte]». Nello stand della Technogym, al ragazzino un po’ in carne, ma coraggioso, che davanti a tutti ha appena fatto due trazioni alla sbarra, il dimostratore, che poco prima ne ha fatte venti, dice prendendolo dolcemente per la collottola: «si comincia con due!». I forti danno la mano ai deboli, i deboli lottano nobilmente per essere all’altezza dei forti. Un idillio.
Dovrebbe essere questo (il paragone torna pertinente) l’atteggiamento da adottare anche a scuola di fronte agli studenti più scarsi, solo che a scuola ci sono gli svogliati, i distratti, e soprattutto c’è l’interrogazione, la verifica che alla fine misura i meriti e i demeriti: l’atmosfera non può mai essere veramente rilassata. In palestra, e in particolare nella mega-palestra che è il Festival del Fitness di Rimini, non ci sono né svogliati né distratti, è tutta gente che ci prova (anche perché si paga per entrare, e il problema semmai è il contrario: lo zelo eccessivo, auto-logorante, di chi avendo pagato il biglietto d’ingresso, giornaliero 28 euro, quattro giorni 42, vuole far fruttare l’investimento e collaudare tutto, mettere un piedi in tutti gli stand, dal Feldenkreis alla boxe thailandese), ma soprattutto non c’è l’esame, non c’è la verifica, questa avvelenatrice dei rapporti umani, questa nemica dell’empatia. Ed è poi questa la magia che si sprigiona dal sintagma corso di ginnastica: un corso al termine del quale nessuno ci darà un voto, un corso durante il quale si può anche sonnecchiare tutto il tempo sul tappetino mentre gli altri fanno gli addominali.
Questa è la prima scoperta che faccio al Festival del Fitness: l’incanto di un’applicazione, di una dedizione che nessuno verrà a misurare, che andrà benissimo così. Ma non è ancora la Grande Scoperta.
Che cos’è infatti la ginnastica? La ginnastica è quella cosa che si fa da soli, in casa (ginnastica da camera) o in palestra (la scheda della palestra), nel muto ascolto dei propri pensieri. Può darsi che questa vecchia ricetta funzioni ancora per qualcuno, può darsi che qualcuno riesca davvero a mettersi davanti allo schermo della TV e a fare quarantacinque minuti di esercizi con Wii Fit. Di asceti del genere, però, io non ne conosco nessuno, e da quello che si legge nei forum in rete non sembra un’opzione molto praticata, anzi, comprarsi Wii Fit sembra l’ottima strategia per non fare ginnastica («Io sinceramente non credo nell’efficacia della WII né della palestra in casa, bisogna essere davvero moooolto metodici e volenterosi perché uno faccia regolarmente esercizio in casa, invece in palestra viene più normale»: www.alfemminile.com). Il fatto è che, lasciando stare i maniaci, di solito chi fa ginnastica vuole farla in un posto diverso dal suo seminterrato e, soprattutto, vuole compagnia. Perciò la fortuna della cura del corpo, negli ultimi trent’anni, ha coinciso con la moltiplicazione delle palestre; perciò la confezione Atletic comprata per corrispondenza da mio fratello alla fine degli anni Settanta, con dentro tutto l’occorrente per fare da sé («estensore a molle, manopola, corda da salto, peso da 1 Kg, maglietta Club con distintivo, manuale per l’uso corretto degli attrezzi»), è finita rapidamente nell’armadio a vantaggio di un ideale più comunitario, e meno alienante, del fare fatica.
Negli anni Ottanta era difficile trovare una palestra per strada, oggi non c’è quasi strada principale in cui non se ne trovi una: è una tipologia d’esercizio più fortunata e, probabilmente, più duratura della sala-bingo. Ed è un’attività (e una tipologia d’esercizio) che incoraggia il gigantismo: la palestrina sull’angolo non ha chance se a cinquecento metri apre la mega-palestra della Virgin, e non tanto perché nella mega-palestra ci sono più cose (attrezzi, corsi, tapis-roulant, docce, saune), quanto perché nella mega-palestra c’è più gente. Un corso da cinque persone, in palestra, è un fallimento. Bisogna essere almeno in venti, e più si è meglio è, perché la metà del piacere viene dal sentirsi parte di un gruppo nonché, nei corsi di corpo libero, da quella cosa bella e innaturale che è la sincronizzazione: fare esattamente la stessa cosa, lo stesso movimento che fanno gli altri, e farlo a tempo di musica. È un principio di piacere che non si manifesta soltanto nei corsi di ginnastica. Mia zia settantenne ha pianto di commozione la volta in cui le ho fatto vedere il flash mob dei Black Eyed Peas a Chicago. Tutte quelle braccia alzate a tempo, tutte quelle facce sorridenti: chi non avrebbe voluto essere lì a provare quell’ebrezza? Chi potrebbe immaginare un piacere non sessuale più grande? I social network hanno finito per dare al verbo condividere un significato meschino: comunicarsi le proprie mezze idee a forza di like e faccine sorridenti, ognuno chiuso nella sua stanzetta. Ma quella è la condivisione triste. La condivisione allegra, il desiderio umano più umano del desiderio di sapere è: far parte di una coreografia.
Al Festival del Fitness di Rimini i set e le coreografie hanno la taglia di quelle di un musical di dimensioni medio-grandi, con anche gli effetti speciali e i costumi di scena per gli istruttori. Starci dentro è come avere una particina in A Chorus Line. Nel padiglione della Reebok in pedana ci sono un istruttore e un deejay avvolti da nuvole di fumo bianco, e in pista ci si agita a tempo sulle note di Last Night a Deejay Saved My Life. Nel Group Cycling di Technogym ci sono 230 biciclette. La regia dosa le luci, la musica, il fumo. Sul palco c’è un batterista vero, e accanto al batterista due istruttori affiancati, anzi un istruttore e un motivatore che parla in continuazione ora col regista (non visibile), che governa la musica e il fumo bianco, ora col pubblico che risponde in coro: «Ci sei?» (perché il motivatore parla a tutti, ma a tutti presi uno per uno), «Sììììì!». E anche frasi intere, slogan: «Devi guardare solo dentro di te per trovare la forza… Vieni con me! Vieni con me! … Pochi secondi. È tutto qua! È tutto qua!». Devi guardare solo dentro di te ma non sei mai veramente libero, non puoi mai davvero dimenticarti di te stesso, tant’è vero che il motivatore aggiunge: «Sorridi! Col sorriso gli dimostri che è facile quel che stai facendo!». Ed è proprio da questa strana miscela di solipsismo (guarda solo dentro di te) e di recita di fronte ad un mondo ostile (fagliela vedere: sorridi anche se vorresti ululare di dolore) che discende l’estasi: mentre arrancano sui pedali per la volata finale, le duecentotrenta facce dei ciclisti appaiono trasfigurate come quella della Giovanna d’Arco di Dreyer.
Un passo più in là, il Dansyng – dance+syng, cioè sing con i greca auratica – rende esplicito quello che alla Technogym era implicito, e gioca francamente la carta del musical. «La rivoluzione Dansyng – dice il pieghevole – è un’attività che coinvolge a 360 gradi l’individuo grazie alla combinazione assolutamente inedita di divertimento-canto da praticare, irrinunciabilmente, in compagnia […], è un concerto da condividere in allegria, altamente sociale e socializzante, da cui scaturisce una community affiatatissima che si muove e si diverte cantando all’insegna del sorriso e del divertimento».
In cinque righe, il campo semantico dello ‘stare insieme’ conta cinque elementi: compagnia condividere sociale socializzante community; e il campo semantico del ‘godersi la vita’ ne conta quattro: divertimento (1) allegria sorriso divertimento (2). Invece lo sport, la fatica e il sudore latitano, e di fatto l’istruttore che sta al centro del palco, in mezzo ad altri nove, e parla e mostra i movimenti alla folla, non è veramente un istruttore ma piuttosto un intrattenitore, con un fisico normalissimo, anche un po’ di pancia, che più che far ginnastica organizza coreografie ritmate al tempo di Per colpa di chi di Zucchero. La ginnastica è un effetto collaterale del ballo, e il ballo è più che altro coreografia, come quando mettono YMCA in discoteca.
Maurizio, che ha una visione calvinista del fitness, detesta tutte queste corruzioni coreografiche, danzerecce, in cui più che tonificare i muscoli si suda a vuoto, e più che sudare a vuoto ci si diverte, e nutre una particolare acrimonia per i balli sudamericani camuffati da ginnastica: la capoeira quando c’era la capoeira, e oggi la zumba. «Voi del gruppo zumba: occhio che vi fratturo!», urla un giorno in palestra rivolto a un paio di ragazze non abbastanza reattive, troppo inclini alla chiacchiera, sottintendendo che la zumba è il rifugio degli ignavi. «Purtroppo si fatica, se no si chiamava zumba» è un altro dei suoi detti memorabili, pronunciato durante il suo massacrante corso di functional training. Ma il mondo vuole soprattutto sudare a vuoto e divertirsi: al Festival di Rimini la lezione di pilates la seguono in cento, la lezione di spinning in duecento, ma alla non-lezione, al flash mob di zumba sono un migliaio, tanto che ci vogliono il cordolo per ordinare la coda e il buttafuori. Ogni scompartimento della vita ha il suo trash.
La Grande Scoperta però non arriva di fronte alla zumba ma al padiglione 4, dove 150-200 persone tra i quindici e i cinquant’anni, l’ottanta per cento donne, stanno seguendo una lezione di piloxing, che, dice il dépliant, è un incrocio tra pilates, boxe e danza che «will push you past your limits». Sul palco c’è una bionda tarchiata in top rosa e fuseaux neri, e accanto a lei due altre istruttrici in top nero e fuseaux rosa, non tarchiate. Sorridono tutte e tre coi denti perché questa è la regola del fitness: «Sorridi – grida la bionda tarchiata, ma potrebbero gridarlo tutti, in tutti i padiglioni – perché ti piace, sennò non staresti qui, no?». Pubblico: «Sììììì!». Ma oltre a sorridere coi denti, l’istruttrice sembra guardare direttamente negli occhi tutti quelli e quelle che si muovono quasi all’unisono sulla pista, e a un certo punto scende addirittura dal palco per smuovere, per motivare, per far andare più in fretta, uno a uno, una a una, e compiuta la missione risale sul palco per l’accelerazione finale, al termine della quale l’applauso che conclude di solito i corsi in palestra – l’applauso stanco che uno rivolge più che altro a se stesso, per avercela fatta – più che un applauso è un boato, come allo stadio dopo un gol, o in una grande discoteca quando il deejay alle cinque chiude la nottata.
L’applauso prelude alla Grande Scoperta che faccio pochi secondi dopo, quando la musica non si è spenta ma si è abbassata a un volume tollerabile, e una cinquantina di ragazze si accalcano allo stand del piloxing per farsi il selfie, comprare il dvd Piloxing Revolution e, soprattutto, iscriversi ai corsi di formazione (9 ore per 225 euro) tenuti dalla bionda un po’ tarchiata, la – scopro poi – rinomata Viveca Jensen, «professional dancer, pilates instructor, bodybuilder, trained boxer, studio owner and personal trainer for stars».
La Grande Scoperta, dicevo, non è niente, una cosa ovvia, ma così ovvia che non l’avevo mai veramente vista, e men che meno capìta fino a stamattina, quando un po’ per la musica a palla, un po’ per la quantità di teste braccia gambe glutei che si muovono in sincrono (mentre io al massimo faccio ginnastica con venti, trenta altre persone, e in palestra, non in questa piazza d’armi), un po’ per l’aura da star che circonda Viveca, arriva la rivelazione. Che è la seguente: il corpo libero a tempo di musica è il principio della discoteca applicato alla palestra, è l’equivalente diurno della discoteca, è la discoteca per chi ha più di trent’anni e dei figli a cui badare, e non ci può più andare anche se gli piacerebbe tanto. Le differenze sono minime, e tutte quante a vantaggio della palestra: l’età non è discriminante, l’aspetto fisico non è discriminante, si paga poco, non c’è nessun dress code, non c’è nemmeno quel nervosismo da rimorchio possibile ma improbabile che rende l’esperienza della discoteca generalmente frustrante. La musica che mette Viveca è più o meno quella che mettono i deejay in discoteca, e la reazione del pubblico della palestra combacia con quella del pubblico della discoteca perché, dopo dieci minuti di sforzo e sudore, sul volto dei ginnasti si disegna quella stessa espressione rapita che in discoteca è la risultante di un paio d’ore buone di musica dance miscelata a pasticche insalubri. Dopo un po’ che guardo la scena faccio fatica anch’io a stare fermo, ho addosso anch’io una fregola che mi mette voglia di buttarmi lì in mezzo, di essere parte dello show. Stare lì a guardare, non muoversi a tempo con gli altri, dà un’amarezza come di vita non vissuta, tanto che resisto a malapena alla tentazione di recitare all’orecchio della mia vicina, anche lei contemplativa ai bordi della pista dove gli altri si agitano, una brutta poesia di Montale, Falsetto, che fotografa più o meno questa situazione («… Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra»).
Può anche darsi che, come credevo prima di venire a Rimini, tutto questo produca soprattutto nevrosi e nera tristezza in chi è o si sente inadeguato; può darsi, ma la verità è che quasi tutti, qui, sorridono, quasi tutti sembrano felici, anche quelli un po’ storti, anche i flaccidi e le flaccide in fuseaux fosforescenti che boccheggiano come infartuati ma rispondono «noooooo» alla domanda «siete stanchi?» che Viveca grida ogni dieci minuti dal palco. Il che potrebbe significare che l’infelicità, la voglia di tagliarsi le vene, non deriva tanto dalla bruttezza o dalla ciccia quanto dalla solitudine, dal volersene stare da parte. Ed è vero che specie tra gli adolescenti la bruttezza e la ciccia producono spesso solitudine: ma spesso, non sempre. Da piccolo, consigliati dal medico di «farmi fare dello sport», i miei genitori mi iscrissero a nuoto, ma a me non piaceva quell’ora di solitudine in mezzo all’acqua, e smisi dopo poche settimane; allora mi iscrissero a judo, ma neanche il judo faceva per me, perché non mi piaceva trovarmi addosso le mani di un altro ragazzino. Invece avrebbero dovuto iscrivermi a piloxing, o al suo equivalente di trent’anni fa, perché è quella alla fine la formula vitale, il giusto punto d’equilibrio: stare in mezzo agli altri, ma da soli.