«Un grande scrittore una volta disse di amare soltanto le storie “dettagliate ed esatte”. Io la penso come lui». Lo scrittore in questione è Thomas Mann; a evocarlo, identificando il proprio sguardo in quella coppia di aggettivi, è Ermanno Rea, in un suo romanzo del 2007, Napoli Ferrovia.
Scomparso il 13 settembre, Rea aveva 89 anni; per la maggior parte della vita ha fatto il giornalista e il fotografo, tenendo a bada la vocazione al romanzo. Apparteneva a una generazione che alla letteratura assegna ancora un significato speciale: un valore non solo politico e civile, ma in un certo modo anche sacro, religioso. Lui lo sapeva, che quando sono fatte per restare le parole vanno usate con cautela; forse è per questo che alla scrittura creativa è approdato tardi, nel ’90, con un libro scritto ‘sul campo’, risalendo il corso del Po per alcune centinaia di chilometri. Un testo ibrido, diremmo oggi, che si muove alla frontiera tra racconto e sopralluogo: scelta non dettata dalla moda della non fiction (che in Italia sarebbe arrivata molto dopo), né soltanto dall’abitudine da fotoreporter a pensare in azione, ma soprattutto dalla prudenza, dal pudore di chi vuol scrivere sul serio, ma per non sbagliare comincia da ciò che vede e conosce di persona. Fedele a questa consegna, da allora in poi Rea ha scritto solo libri belli, e tra questi almeno un capolavoro, Mistero napoletano (1994) oggi considerato tra i migliori romanzi-non-romanzi degli ultimi decenni.
Di solito i protagonisti dei libri di Rea sono uomini terribilmente soli: Francesca Spada, Federico Caffè, Guido Piegari. Eppure il suo percorso di scrittore non è isolato affatto: la carriera di Rea somiglia a quello di altri suoi coetanei, intellettuali comunisti (sia pure irregolari e insofferenti alle regole di partito) attratti inizialmente dalla politica e dal giornalismo, e poi approdati alla letteratura, con risultati spesso eccellenti. Penso ad esempio a Luigi Pintor, con Servabo (1991), o a Enzo Striano, che di Rea fu amico di gioventù, con Il resto di niente (1986). Si sente, leggendo questi libri, un’aria di famiglia, che proviene non solo da un’idea comune, ormai quasi estinta, di letteratura e di stile – l’adesione a una lingua precisa, misurata, piena di decoro; un tono fermo, antiretorico ma a suo modo solenne, dal timbro inconfondibilmente novecentesco – ma anche da comuni ossessioni, che alimentano temi profondi. Tra questi il più evidente è lo scavo di un passato oscuro e doloroso, da sottrarre alla pietrificazione («scrivere», affermava Rea, «è inventariare ciò che non c’è più»). Poi, la ricerca dell’identità, in un’epoca in cui la storia schiaccia l’individuo («Ma chi sono davvero»?). Infine, e soprattutto, l’impossibilità della rivoluzione, la scoperta che il mondo non sa cambiare in meglio.
La morte di Rea, in questo quadro, appartiene a pieno titolo a un processo in corso, la rottamazione di tutte le utopie novecentesche, quelle artistiche come quelle politiche. La dismissione del resto, è il titolo di un altro bel romanzo di Rea – dedicato alla fine dell’acciaieria di Bagnoli, e più in generale al sogno fallito di una Napoli democratica, moderna e industriale; mentre Nostalgia è il titolo del suo ultimo libro, in uscita il prossimo ottobre, di cui già circola la copertina.
Tutto per nulla, dunque? Quella lasciataci da Ermanno Rea sarebbe ormai solo letteratura ‘di una volta’, consegnata ai rimpianti di lettori del secolo scorso? Al contrario: pochi libri, tra quelli apparsi negli ultimi decenni, sono stati più gravidi di futuro di Mistero napoletano. Apparso nel momento in cui la narrativa italiana stava cambiando pelle, per diventare più informata e più veloce – e quindi più vicina al giornalismo – Mistero napoletano si è imposto subito come modello per molti scrittori del nuovo millennio. Modello di mescolanza tra generi – in particolare l’inchiesta, il giallo, la testimonianza e il diario – per Antonio Franchini (L’abusivo) e Roberto Saviano (Gomorra); modello di rievocazione d’epoca e d’infanzia, per Domenico Starnone (Via Gemito), Erri De Luca (Tu, mio), Elisabetta Rasy (Posillipo); modello di metodo e di immaginario meridionale per sceneggiatori come Massimo Braucci e Massimo Gaudioso.