Istruzione

Il latino e le gabbie disciplinari

 

La posizione che il latino occupa nel sistema educativo del nostro paese è ancora molto rilevante. Nonostante il ridimensionamento (per lo più orario) introdotto dalle ultime riforme, la presenza del latino nella nostra scuola secondaria non ha eguali altrove[1]. Ma va da sé che, nonostante la peculiarità della situazione italiana, qualsiasi discorso sul futuro del latino (e degli studi classici in generale) debba essere ormai considerato alla luce della riformulazione che l’intero comparto umanistico sta conoscendo in Europa e nel mondo “occidentale”. E in questo scenario più ampio è evidente che l’egemonia culturale nel settore delle Humanities è ormai passata al mondo anglosassone: è qui che oggi viene dettata l’agenda culturale sia a livello accademico che nella progettazione dei nuovi strumenti di comunicazione, se non altro per motivi di solidità economica e istituzionale.

Vorrei partire da queste ovvie considerazioni per proporre le mie opinioni sulle possibilità che i nostri studi hanno di svilupparsi nei prossimi anni, anche nel nostro paese. Quello che tenterò di fare non è un discorso sul prossimo futuro, ma una riflessione generale su scenari possibili di medio periodo. In questa dimensione, bisogna immaginare una situazione in rapida e continua evoluzione, in cui gli equilibri culturali del nostro sistema formativo potrebbero essere destinati a cambiare radicalmente. Di fronte a questa eventualità, non credo sia utile continuare ad attardarsi a riflettere solo sulle buone pratiche e sul tema delle motivazioni di docenti e allievi, come spesso accade nei contesti in cui si discute del futuro della nostra disciplina: pur trattandosi di temi cruciali, ovviamente, questi elementi sono destinati a influire ormai solo a livello individuale e locale. Mentre invece oggi ci troviamo di fronte a un fenomeno di vasta portata, cioè a una sostanziale rimodulazione del millenario impianto pedagogico che dagli studia humanitatis ha portato alle moderne Humanities.

Non dobbiamo tanto chiederci, come si è fatto a lungo in passato, se le discipline classiche siano utili o se debbano o no essere elitarie[2]. Nel nuovo contesto che si va delineando, a dover essere dibattuta è l’utilità dell’intero comparto delle scienze umane, all’interno delle quali lo studio delle lingue e delle letterature antiche dovrà verosimilmente trovare una nuova collocazione. Non è possibile affrontare qui un discorso vasto come quello che riguarda il futuro degli studi umanistici, su cui peraltro mi è già capitato di soffermarmi in altre occasioni.[3] Mi limiterò ad abbozzare qualche riflessione sullo scenario in cui, a mio parere, bisognerà presto inquadrare lo studio della lingua e della cultura dei Romani.

  1. L’insegnamento della lingua latina e l’evoluzione degli studi umanistici

Secondo le finalità tradizionali dei programmi scolastici e universitari, lo studio della lingua latina mira principalmente a rendere possibile la lettura dei testi della letteratura romana classica, come pure a favorire una più consapevole e approfondita conoscenza delle lingue romanze – prima fra tutte l’italiano – e più in generale delle lingue “indoeuropee”[4]. Il tutto nell’ambito di una visione degli studi umanistici che, se non pone più i classici greci e latini alla base e al centro del loro impianto storico-filologico (nel senso più ampio del termine)[5], attribuisce comunque ad essi un valore determinante nello sviluppo della cosiddetta civiltà occidentale. In Italia questa visione della formazione umanistica ha mantenuto fino a qualche anno fa un sicuro primato nella cultura nazionale, grazie al prestigio di cui il liceo classico ha goduto nel quadro complessivo della scuola secondaria superiore. Ed è in questo quadro che va considerata anche la fortuna di cui una disciplina come Lingua e Letteratura Latina ha goduto in ambito universitario.[6]

L’insegnamento del latino (come quello del greco, del resto) prevede una metodologia certamente anomala, nel quadro complessivo della didattica delle lingue, e soprattutto richiede un impegno notevole da parte degli allievi[7]. Come ha ben spiegato Françoise Waquet, nella storia più recente dell’insegnamento di questa lingua spesso il valore simbolico ha avuto il sopravvento su quello funzionale. Non sempre, infatti, il latino è stato ed è studiato “per saperlo”, e quasi mai per parlarlo[8]: in molti casi l’apprendimento della lingua è rimasto un faticoso rituale, necessario per completare la propria carriera scolastica e universitaria, ma destinato a lasciare poche tracce nella cultura dei più[9]. Cosa che non ne ha certo favorito la fortuna, al di fuori delle cerchie interessate allo sviluppo della cultura umanistica (e spesso persino all’interno di quelle stesse cerchie).

Alla fine dei nostri percorsi liceali (e purtroppo anche dei nostri percorsi universitari) non molti studenti risultano forniti di conoscenze sufficienti per leggere i testi classici del canone scolastico: la maggior parte di essi non va mai oltre un esercizio di lenta e faticosa decifrazione di testi di cui non riesce a cogliere l’insieme. Dunque lo scopo per cui teoricamente è pensato lo studio del latino, in un altissimo numero di casi non viene raggiunto. All’impossibilità di conseguire veramente lo scopo didattico che ci si prefigge si cerca di ovviare, tanto nella scuola quanto nell’università, con vari espedienti, che hanno portato a una curiosa divaricazione fra le conoscenze della lingua e quelle della letteratura latina. Da un lato, infatti, si studia faticosamente una lingua che poi non può essere usata per leggere davvero i classici: dall’altro, questi ultimi vengono affrontati attraverso la mediazione (non sempre di grande qualità) di manuali e scelte antologiche in traduzione.

In queste condizioni c’è da chiedersi quale sia l’obiettivo più ragionevole che la nostra disciplina deve perseguire nella scuola e nell’università per mantenere gli standard del passato. Contare con fiducia sull’innegabile bontà della tradizione dei nostri studi?[10] Oppure, come sostengono studiosi tanto diversi fra loro come Alfonso Traina e Mary Beard, rassegnarsi a riservare l’insegnamento del latino alla piccola élite di coloro che riescono a conseguire le abilità necessarie per accedere direttamente alla complessità del testo antico?[11] Oppure tentare di avviare un più ampio numero di allievi alla conoscenza della lingua usando nuovi metodi di insegnamento?[12]

Penso che in linea di massima pochi insegnanti di latino sarebbero contrari a quest’ultima opzione, ma non è semplice immaginare un metodo praticabile per riuscire in un compito del genere. Non si tratta solo di razionalizzare le modalità di apprendimento della grammatica e/o della letteratura, semplificando l’insieme delle nozioni da apprendere e adattandolo al nuovo contenitore curricolare di volta in volta rimodellato dalle riforme scolastiche; e non è certo il caso di ricorrere a espedienti deleteri come quello di abbassare la soglia delle conoscenze o addirittura di aggirare il problema della valutazione di queste ultime (come fanno purtroppo in molti, per quieto vivere).

Eppure correggere l’impostazione per molti versi fallimentare di questo impianto di studi è necessario, e non solo per togliere argomenti ai tanti che, da più parti, rimproverano ai classicisti di offrire insegnamenti poco utili o poco attraenti agli studenti di oggi. Finora alle varie ondate di contestazioni che si sono susseguite, in particolare a partire dal Sessantotto, contro una disciplina come il latino, sempre meno in linea con i gusti e le preferenze culturali del mondo contemporaneo, si è continuato ad opporre, da un lato, in modo quasi inerziale, slogan di stampo ottocentesco ormai piuttosto inefficaci: lo studio della lingua latina guiderebbe alla pratica di una migliore disciplina intellettuale, fornirebbe una formidabile ginnastica mentale, sarebbe caratterizzato da una speciale “scientificità” etc.[13]. Dall’altro lato, si è continuato a rivendicare l’importanza cruciale che la conoscenza diretta dei testi antichi dovrebbe avere per chiunque aspiri a formarsi una visione completa e coerente della cultura occidentale.

Entrambe queste strategie non sembrano aver sortito effetti soddisfacenti. Ma anche molte argomentazioni ben più valide e articolate, sia dal punto di vista storico e letterario che dal punto di vista linguistico, non riescono più a convincere (e non sono nemmeno ascoltate), in un clima culturale che si orienta sempre più decisamente (e non sempre in maniera confusa e inconsapevole) verso un’impostazione degli studi umanistici sincronica e ‘globalizzata’. Sarebbe ingenuo, in questa fase, irrigidirsi in una difesa della nostra disciplina che tenda a conservarne intatto il profilo tradizionale, senza tener conto del punto di vista di chi sta dettando l’agenda culturale e formativa. È invece urgente inquadrare il ruolo che il latino, e più in generale l’intero campo di studi che ruota attorno alla cultura classica, può giocare (e da protagonista) nel contesto del cambiamento a cui va incontro il comparto delle Humanities in tutto il mondo, sia in termini di composizione disciplinare che di prospettive metodologiche[14].

  1. Lingua latina e canone dei classici

Un orizzonte interessante per lo studio della nostra disciplina si può delineare se si guarda alla storia della lingua latina nella prospettiva adottata da Jürgen Leonhardt nel suo originale volume del 2009. Leonhardt ricolloca la nostra visione tradizionale del latino come lingua dei classici all’interno di una visione assai più ampia della sua storia: considerandola cioè come una delle principali Weltsprachen, insieme al greco, all’arabo e, da ultimo, all’inglese. Andando al di là della fase antica e tardoantica del latino, Leonhardt ci invita a guardare anche alla sua intensa vita successiva, in particolare all’interno delle istituzioni più longeve dell’Occidente, come l’università e la chiesa cattolica. Leonhardt pone l’accento soprattutto sul “millennio latino” che va dall’epoca carolingia all’Ottocento, in cui si registra una presenza costante del latino come lingua scritta (e parlata) nell’uso scolastico e scientifico. È smisurato il numero di testi scritti in latino, che solitamente non sono oggetto di attenzione da parte di chi studia questa lingua, in molti casi ingiustamente.

Cosa ha consentito al latino di continuare ad essere così a lungo strumento di comunicazione mondiale, anche dopo il periodo in cui è stato la lingua di una comunità “nazionale” e del suo enorme impero? Il fatto, secondo Leonhardt, di essere stata fissata molto presto in una forma subito diventata “classica”. Leonhardt lega questa fissazione principalmente alla fase in cui i grandi scrittori della fine dell’età repubblicana e della prima età augustea si sforzarono di costruire una letteratura capace di stare alla pari con i grandi modelli greci. I testi di questa produzione vennero a costituire un canone autorevole, che esercitò un immediato potere normativo sullo standard linguistico del latino letterario[15]. Questa lingua “fissa” ha conosciuto poi una serie di evoluzioni locali, che hanno dato vita per lungo tempo a situazioni di diglossia (rispetto alla prosecuzione dello standard già consolidato), prima di sfociare in un vero e proprio bilinguismo, con la definitiva autonomizzazione delle lingue volgari. Nella forma dei testi scritti, però, il latino ha mantenuto il suo standard tendenziale fisso anche dopo che i vari volgari hanno cominciato ad essere scritti a loro volta.

In stretto collegamento con la conservazione e lo studio del canone classico, anche una millenaria tradizione grammaticale ha prodotto un imponente insieme di osservazioni linguistiche che si è trasmesso fino ai nostri giorni, ed è stato un fondamentale strumento di perpetuazione di questa lingua “fissa”. È ovvio che non è stato questo l’unico strumento di trasmissione delle competenze linguistiche necessarie per l’utilizzazione attiva del latino come lingua seconda: è stata soprattutto la pratica attiva a far sì che esso mantenesse il prestigio e l’importanza che hanno caratterizzato la sua lunga sopravvivenza. Leonhardt ha ragione nel sostenere che sono stati prima l’umanesimo e poi soprattutto il neoumanesimo tedesco, sopravvalutando l’imitazione dei modelli letterari canonici a scapito di un uso attivo e creativo del latino, a ridurre la conoscenza della lingua al solo complesso insieme di regole della grammatica: un insieme di regole strettamente vincolato alla normatività dei testi antichi. Secondo Leonhardt sarebbe questo stato di cose ad aver creato l’inestricabile garbuglio di classicismo e technicalities della grammatica “scientifica”, che ha finito per dominare nei nostri percorsi formativi. La progressiva rinuncia a ogni forma di pratica viva della lingua latina (sia orale che scritta) ha sostituito all’acquisizione “attiva” delle necessarie competenze linguisiche l’apprendimento di una serie di regole astratte, sulla base delle quali decodificare i testi – e quasi esclusivamente i testi antichi. Ed è appunto questo il complicato esercizio che ormai solo un numero limitato di studenti riesce a compiere correttamente.

Nelle pagine conclusive del suo libro, Leonhardt ci esorta a considerare quanta parte della produzione letteraria, saggistica, religiosa e scientifica prodotta sia in età tardo antica che nel “millennio latino” è destinata a rimanere esclusa dall’attenzione di chi apprende la lingua dei Romani, fino a quando questo apprendimento, nei percorsi scolastici, verrà finalizzato esclusivamente alla lettura dei classici. Fra l’altro, un simile modo di studiare il latino limita, nei nostri studenti, la consapevolezza dell’importanza che questa lingua ha avuto nella storia culturale, sia in Europa che fuori dai confini dell’Europa, e della funzione che ha svolto anche come strumento comunicativo, oltre che letterario: come lingua, appunto, mondiale e non come lingua naturale. Mi sembra un’osservazione importante, su cui torneremo più avanti.

  1. Prospettive disciplinari

L’ottica secondo cui Leonhardt inquadra la storia del latino è utile per provare a ridefinire il ruolo che i nostri studi occupano all’interno del comparto umanistico. Sarebbe molto importante che tutti gli studenti che in futuro impareranno il latino potessero avere un’idea chiara dell’importanza che questa lingua ha avuto nella cultura medievale e moderna, anche tramite la lettura diretta di un ventaglio ampio di testi, che ne documentino la costante presenza nei secoli. Ma certo la struttura dei nostri curricula e la rigidità dell’impianto disciplinare a cui è legata oggi la didattica e la ricerca nel campo del latino non contribuiscono a far sì  che ciò possa accadere.

Forse più ancora che la ristrettezza degli spazi ormai concessi allo studio delle lingue antiche, è proprio questa rigidità che rischia di trasformare il campo di chi si occupa del latino in un pericoloso ghetto, da cui bisognerebbe uscire al più presto, in un periodo di rapida ridefinizione dei confini disciplinari com’è quello che stiamo vivendo. In un paese come il nostro, il problema è reso grave dalla strutturazione dell’assetto che è stato imposto agli ordinamenti delle università, con ricadute gravi anche sui gradi inferiori del sistema educativo.

Come si presenta oggi la situazione della didattica e della ricerca a livello accademico, cioè là dove si perfeziona la formazione di chi è destinato a insegnare la lingua e la cultura dei Romani agli studenti del futuro? La maggior parte degli insegnamenti e della produzione scientifica del nostro settore continua a vertere sugli autori del canone: spesso finendo con l’accumulare contributi piuttosto ripetitivi sulla loro interpretazione. Sebbene da sempre un gran numero di studiosi del mondo classico si sia anche regolarmente occupato di testi latini di epoca medievale o umanistica, questi ultimi difficilmente diventano argomento di studio all’interno dei corsi di latino. Lo studio di autori come Boccaccio, Perotti, Sannazaro rimane formalmente di pertinenza di altri settori disciplinari. Il canone degli scrittori da studiare, nelle classi di latino, rimane decisamente ristretto.

Anche quando il classicista, come ormai accade sempre più frequentemente, esce dal recinto delle discipline antichistiche (o ad esse affini), le sue incursioni in altri ‘terreni disciplinari’, pur riscuotendo un discreto successo fra gli studenti, vengono accolte con freddezza e scoraggiate da una parte ancora piuttosto larga della comunità accademica. Per fare un esempio, un antichista che si occupi della fortuna dei classici nella storia del teatro italiano di Quattro e Cinquecento, mentre da un lato si sente criticare da alcuni dei suoi colleghi classicisti, che lo accusano di star diventando un italianista, dall’altro può sentirsi accusare dagli italianisti di pretendere di fare il loro mestiere; e dagli storici del teatro di prestare troppa attenzione ai testi. Come se, per studiare un argomento, dovesse essere obbligatorio assumere la prospettiva di un unico settore di studi, autorizzato a trattare quell’argomento in termini veramente scientifici[16]. Eppure, il fatto indiscutibilmente positivo, in simili invasioni di campo, è che la prospettiva dell’antichista può portare nella discussione punti di vista inconsueti e innovativi.

Per fortuna, simili atteggiamenti di sospetto all’interno della comunità accademica sono già adesso solo residuali, e si faranno probabilmente più rari, via via che questo modo di praticare gli studi classici si andrà affermando nella ricerca e nella didattica. A essere preoccupante, invece, è il fatto che questo tipo di iniziative interdisciplinari venga scoraggiato a livello istituzionale. Sebbene la cultura del nostro tempo stimoli, a tutti i livelli, le ibridazioni, è la stessa struttura accademica in cui operiamo ad alimentare le divisioni fra le discipline. Il sistema universitario italiano, in particolare, ha elaborato un elefantiaco apparato di settori scientifico disciplinari (SSD), che non ha eguali nelle strutture accademiche degli altri paesi[17]. E da quando la valutazione e il reclutamento sono stati incardinati attorno a questo apparato, i requisiti scientifici richiesti ai membri dei singoli settori mostrano una tendenza a restringersi sempre di più all’interno dei singoli campi disciplinari, scoraggiando la pratica sistematica dell’interdisciplinarità e, di conseguenza, anche lo sperimentalismo e l’innovazione. Riflessi piuttosto negativi di questo stato di cose si possono riscontrare anche nella didattica delle varie discipline, inevitabilmente condizionata dalle declaratorie di settore. Tutto questo in una fase storica in cui da più parti si osserva la progressiva metamorfosi dei campi disciplinari attorno ai quali si era sviluppata una lunga riflessione, nella seconda metà del Novecento, nel solco di ricerche fondamentali come quelle di Kuhn e Foucault[18]. In Italia, insomma, ci si scontra con steccati decisamente rigidi, proprio quando le occasioni di confronto con chi fa ricerca e insegna in altri campi si fanno sempre più frequenti, stimolanti, direi inevitabili.

Una fase di cambiamento come quella che stiamo vivendo, se non ci fosse la centuriazione dei SSD, potrebbe essere considerata come uno stimolante momento di evoluzione e di fermento. E questo, nella fattispecie, potrebbe aprire spazi nuovi a chi studia la lingua e la cultura dei Romani, in un confronto continuo con altre discipline e in un’esplorazione fruttuosa della produzione latina di altre epoche anche da parte degli antichisti (che hanno tutte le competenze necessarie per studiarla). Ma basta prendere in considerazione i criteri con cui sono stati valutati alcuni degli aspiranti alle ultime Abilitazioni Nazionali per comprendere che le nostre istituzioni universitarie non sono organizzate in modo da apprezzare questo stato di cose: anzi, gli studiosi che cercano di varcare i confini delle gabbie disciplinari vengono penalizzati proprio perché viene sistematicamene svalutata la “scientificità” e la coerenza della loro produzione.

Sarebbe utile, in futuro, opporsi all’eccessivo appiattimento verso una dimensione esclusivamente “antichistica” dello studio del latino. Anzi, uscire dal recinto del settore scientifico-disciplinare sarà, direi, una necessità, se si vuole tentare di allargare lo sguardo dei nostri allievi verso una considerazione del latino, per riprendere la formula di Leonhardt, come Weltsprache.

  1. L’insegnamento del latino nella scuola e nell’università italiana

Oltre alle gabbie disciplinari, gli ordinamenti didattici del sistema universitario italiano abbondano di tabelle, in cui vengono elencati gli insegnamenti pertinenti ai singoli percorsi di studio. Fino quasi alla fine del secolo scorso queste tabelle erano concepite come elenchi aperti, che si potevano integrare e “potare” con una certa facilità (sia a livello nazionale che a livello locale), a seconda delle esigenze didattiche che emergevano nel tempo. La semplicità con cui questo sistema si poteva modulare progressivamente ne faceva uno strumento versatile, che garantiva una salutare mediazione fra le esigenze delle singole sedi e un quadro di riferimento centralizzato. Purtroppo, però, nella lunga e laboriosa fase di applicazione della riforma dell’università partita nel 1999, queste tabelle hanno subito una metamorfosi perniciosa, in coincidenza con un’altra invenzione tipicamente italiana: quella delle classi di laurea. Le tabelle collegate a queste classi hanno così assunto un carattere normativo estremamente rigido, che si è fatto ormai soffocante, come i nostri studenti lamentano quotidianamente.

Peraltro, senza entrare nel dettaglio di questo meccanismo tutt’altro che lineare e culturalmente motivato, dobbiamo dire che è soprattutto grazie a queste tabelle che il latino è diventato obbligatorio nella classe di laurea di Lettere e ha mantenuto una posizione di rilievo anche in varie altre classi di laurea del comparto umanistico, dove il superamento di un esame di latino è indispensabile per chi intenda accedere ai percorsi formativi per l’insegnamento. Questo crea nelle nostre aule situazioni didattiche spesso insostenibili, con un sempre maggior numero di studenti di fatto privi delle competenze linguistiche necessarie per affrontare i testi classici, che faticano a superare l’esame di latino (e cionostante, in molti casi accedono ugualmente ai percorsi di formazione degli insegnanti). In un numero sempre maggiore di casi si tratta di studenti che non hanno mai avuto modo di studiare questa lingua nella scuola secondaria superiore.

Allo stato attuale, non si vedono rimedi praticabili per uscire dal circolo vizioso in cui l’insegnamento del latino si trova intrappolato all’interno dei percorsi universitari. Anche se si introducessero dei filtri nell’accesso agli studi universitari, allo stato attuale non si potrebbe fare altro che attribuire un “debito formativo” a tutti coloro che, privi di ogni conoscenza scolastica in materia, intendessero affrontare lo studio della nostra disciplina: un debito che, secondo la legge attualmente in vigore, teoricamente dovrebbe essere colmato in un tempo massimo di sei mesi, per di più zeppi di altri corsi!

A parte l’improbabile agenda didattica che la normativa pretenderebbe di imporci, sarebbe giusto che a questo numero tutt’altro che esiguo di studenti venissero offerti gli strumenti fondamentali per impadronirsi di una minima competenza linguistica in tempi ragionevoli; e possibilmente in ragione dell’uso che verosimilmente essi saranno chiamati a fare del latino, nella loro successiva carriera professionale. Ma è chiaro che, adottando le modalità tradizionali dell’insegnamento di questa lingua, è impensabile che questi studenti (tranne sparuti casi di eccellenza) riescano a raggiungere un livello di competenza sufficiente per affrontare i testi che tipicamente vengono letti nei corsi universitari di latino. Non è un problema nuovo, naturalmente (nel nostro paese si tende a cronicizzare questo tipo di mali, tenendoli accuratamente nascosti sotto il tappeto delle forme): come del resto non è nuovo il fenomeno conseguente che affligge la scuola secondaria, dove da tempo l’insegnamento della lingua latina è trascurato o ridotto a pura formalità (sempre di più anche nel liceo classico), da parte di quei docenti che all’università non hanno ricevuto una formazione adeguata. Si è ormai creata, così, una spirale dalla quale non si riesce nemmeno a immaginare come si possa uscire.

Alla luce di questi problemi, sarebbe utile e, direi, necessario introdurre nei nostri ordinamenti una differenziazione dei percorsi formativi, che consenta agli studenti di raggiungere livelli di competenza linguistica diversificati, a seconda delle loro reali esigenze. Non si può continuare a illudersi di poter offrire a tutti gli studenti le conoscenze necessarie per affrontare direttamente la lettura dei classici.

Per raggiungere un obiettivo simile, sarebbe forse opportuno ripensare la struttura dei corsi di latino un po’ a tutti i livelli. Attualmente, l’insegnamento scolastico di una lingua “morta” come il latino è monolitico, e prevede un percorso molto lungo, prima di raggiungere il suo scopo finale. Prendiamo il caso ottimale del curriculum che più di ogni altro è finalizzato alla lettura diretta dei classici: quello dei licei. Nelle fasi iniziali, in cui non c’è l’urgenza di parlare in latino e non è prevista la lettura di testi integrali, gli studenti sono chiamati ad affrontare più che altro uno studio passivo della grammatica. Tanto nel vecchio liceo classico quanto nei licei odierni, il biennio iniziale è destinato pressoché esclusivamente all’apprendimento della lingua, con uno studio lento della morfologia e di elementi di sintassi, che dovrebbe costituire la base della formazione, da integrare poi nel corso dei tre anni successivi con approfondimenti finalizzati soprattutto all’apprendimento della sintassi. In questi due primi anni, il poco latino che si legge è fatto di brani semplificati, e quasi sempre fuori contesto (anche quando si tratta di brani antologici). E lo studio di questi brani svolge la funzione di semplice esercitazione, tramite cui verificare il livello di competenza grammaticale raggiunto dagli studenti. In questa prolungata fase dell’apprendimento non è prevista alcun pratica attiva del latino (né scritta e tanto meno orale) e i testi devono essere quasi sempre solo tradotti, non “letti” nel senso più pieno del termine.

Questo modo di insegnare il latino costituisce la prosecuzione di una lunga tradizione didattica, che in ultima istanza si rifà alle metodologie elaborate in passato dall’Altertumswissenschaft. Peraltro, sebbene questo rimanga ancora il modello di riferimento tendenziale, di fatto non facciamo altro che praticare una sua versione estremamente compendiata, dato che esso, con i suoi tempi e con i suoi metodi originari, non potrebbe più entrare negli spazi concessi dai curricula contemporanei. E se le cose stanno così nei licei, non si può dire certo che la situazione migliori per quegli studenti universitari che al latino si accostano per la prima volta, senza aver mai avuto occasione di studiarlo a scuola. Anche a loro viene proposto un analogo insegnamento del latino, in forme ulteriormente – e insostenibilmente – abbreviate.

L’imposizione di questo metodo “monolitico” per lo studio della lingua, a tutti i livelli della formazione, a me sembra ormai fuori dal tempo, ma non è stato ancora fatto nulla per superarla. Come avveniva in passato, nei nostri ordinamenti tuttora non esiste una differenziazione formalizzata dei percorsi. E non esistono, come accade per le lingue straniere, livelli progressivi di conoscenza linguistica. Non esiste un livello A1, che metta in grado lo studente di accedere a un certo numero di testi molto semplici; un livello A2 che consenta l’accesso a un range di testi più complessi, e così via. Non esiste nemmeno la vecchia suddivisione fra ‘kleines Latinum’ e ‘großes Latinum’ dei Tedeschi, che grosso modo indicava nel De bello Gallico il confine fra le conoscenze richieste ai due livelli. Qualunque sia il contesto in cui il latino viene insegnato, e qualunque sia il livello di competenza linguistica che ragionevolmente viene raggiunto, lo scopo finale resta sempre quello di leggere direttamente i testi classici, che però, nella quasi totalità dei casi, per gli studenti risultano troppo difficili non solo da leggere, ma anche semplicemente da ‘decifrare’. Tutto il latino che si sa, poco o molto che sia, è tacitamente finalizzato a questo obiettivo: un obiettivo che ormai risulta di notevole difficoltà per qualsiasi genere di formazione linguistica, da quella più elementare e semplificata a quella più approfondita e sofisticata[19].

Se poi qualcuno, con un’iniziativa individuale, volesse provare a introdurre una gradualità nell’apprendimento linguistico, e fosse interessato a mettere subito (o comunque molto presto) i propri allievi in condizione di leggere direttamente e integralmente dei testi latini, si troverebbe di fronte a problemi pratici di difficile soluzione. A cominciare dalla carenza di strumenti didattici utilizzabili in forma modulare, nel caso dell’insegnamento della grammatica. Negli ultimi anni le edizioni delle varie grammatiche scolastiche si sono evolute soprattutto nelle dimensioni, arricchendosi di attraenti apparati culturali e letterari: ma non si è in genere tentato di ristrutturarle in vista di un insegnamento della lingua che proceda per gradus[20]. L’unica cosa che assomigli a un metodo graduale di acquisizione della lingua è il corso di Ørberg, che non a caso è costruito attorno a testi creati ad hoc o riadattati. Ma gli insegnanti sanno bene quanto sia difficile far entrare un corso del genere nei contenitori orari scolastici (non parliamo nemmeno di quelli universitari attuali).

Eppure una ristrutturazione dell’impianto didattico potrebbe essere un’idea interessante, soprattutto se la si collegasse a una diversa attenzione verso i testi esterni al canone dei classici. Bisognerebbe partire da una valutazione realistica del grado di conoscenza di latino che si può trasmettere proficuamente, nelle scuole e nelle università, a tutti gli allievi (e non solo a una fascia ristretta di eccellenza). E su questa base si dovrebbe immaginare una scansione progressiva dell’apprendimento, che consenta, grado per grado, di accedere alla lettura di un campionario diversificato di testi appropriati a ciascun livello. Si tratterebbe, in altri termini, da un lato di modulare l’insegnamento linguistico, dall’altra di integrare il canone di testi da sottoporre di volta in volta alla lettura. E questo andrebbe fatto in una prospettiva non esclusivamente focalizzata sull’antichità classica, come appunto suggerisce Leonhardt. È soprattutto attorno a questo obiettivo che, a mio parere, ruotano le scelte determinanti per il futuro del nostro settore, che per ottenere un simile risultato dovrebbe aprirsi a una continua interazione con le altre discipline.

È un’iniziativa che potrebbe partire da noi, e potrebbe anche contribuire in modo significativo ad allentare i vincoli disciplinari di cui si parlava in precedenza. La conoscenza del latino non può servire solo a leggere i classici: già adesso a molti studenti, una volta finito il tirocinio linguistico dei corsi, il latino serve per leggere documenti d’archivio, lapidi e iscrizioni, testi medievali e rinascimentali e tanto altro. Perché non fare entrare questi testi stabilmente nei corsi di latino di livello elementare (e non) e negli strumenti manualistici, che ormai è possibile integrare e condividere facilmente, senza passare dalle strettoie editoriali?[21] Perché non provare a sperimentare in questi campi?

I contesti in cui avviare esperienze di questo genere, a parte quelli della ricerca “istituzionale”, potrebbero essere anche quelli dei percorsi disciplinari previsti per la formazione degli insegnanti, che sono almeno parzialmente al riparo dalla tirannia dei SSD. L’agenda di una sperimentazione simile potrebbe essere allineata a quella del progetto di certificazione linguistica meritoriamente avviato proprio a Genova qualche anno fa, e progressivamente esteso anche ad altre sedi. Articolare questa certificazione in gradi separati, come avviene per la normale certificazione linguistica, potrebbe essere la premessa per organizzare un lavoro di revisione dell’intero impianto didattico su cui si fonda l’insegnamento del latino in tutte le sue sedi tradizionali. La regia di un insieme coordinato di iniziative in questo senso potrebbe essere sostenuta dalla Consulta Universitaria di Studi Latini, l’unico organismo che, a mio parere, pur non avendo certo le risorse economiche necessarie, sarebbe al momento in grado di creare, coordinare e orientare una rete operativa in questo campo. Superando la sterile contrapposizione fra disciplinaristi e pedagogisti, che ha segnato la discussione degli ultimi vent’anni, lo sviluppo delle didattiche disciplinari potrebbe rivelarsi un’occasione preziosa per allargare il campo di conoscenze e di indagine verso cui orientare chi insegna e chi impara il latino.

L’apprendimento linguistico potrebbe così da un lato essere modulato in maniera più adeguata alle esigenze differenti degli allievi che si accostano al latino, dall’altro potrebbe consentire l’accesso a un’amplissima serie di testi appartenenti a varie epoche. Mi riferisco anche a quei testi che attualmente non vengono nemmeno presi in considerazione come oggetti culturali di possibile interesse per chi studia questa lingua (e non hanno mai avuto diritto di cittadinanza in alcun canone scolastico). Uscire dalla gabbia disciplinare è una premessa indispensabile, credo, non solo per restituire al latino la sua composita e ricca dimensione di Weltsprache, ma anche per rilanciarne l’insegnamento.

 

 

Riferimenti bibliografici

Archibald, E., Brockliss, W., Gnoza, J. (edd.) 2015, Learning Latin and Greek from Antiquity to the Present, Cambridge, Cambridge University Press.

Balbo, A. 2014, «Tornate all’antico e sarà un progresso»: prospettive didattiche per il latino in Italia nel primo scorcio del XXI secolo, in A. Balbo e M. Ricucci (a cura di), Prospettive per l’insegnamento del latino. La didattica della lingua latina fra teoria e buone pratiche (“I Quaderni della ricerca”, 16), Torino, Loescher, pp. 9-14.

Bulwer, J. (ed.) 2006, Classics Teaching in Europe, London, Duckworth.

Clackson, J., Horrocks G. 2007, The Blackwell History of the Latin Language, Malden-Oxford, Blackwell.

Fucecchi, M., Graverini L. 2009, La lingua latina. Fondamenti di morfologia e sintassi. Firenze, Le Monnier università.

Grafton, A. 2015, Not Dead Yet (rec. di Leonhardt 2013), in “London Review of Books” 37.1, pp. 32-34.

Guastella, G. 2012, Scienze umane e memoria culturale, in “Il Mulino” 4, pp. 626-636.

Kitchell, K.J. 2015, “Solitary perfection?” The past, present, and future of elitism in Latin education, in Archibald, E., Brockliss, W., Gnoza, J. 2015, pp. 166-183.

Leonhardt, J. 2009, Latein: Geschichte einer Weltsprache, München, Beck (trad. ingl. di K. Kronenberg, Latin. Story of a World Language, Cambridge (Mass.), Belknap 2013).

Lister, B. 2015 Exclusively for everyone – to what extent has the Cambridge Latin Course widened access to Latin?, in Archibald, E., Brockliss, W., Gnoza, J. 2015, pp. 184-197.

Marchand, S. 2014, Has the History of the Disciplines Had its Day?, in D. M. McMahon, S. Moyn (edd.), Rethinking Modern European Intellectual History, Oxford. Oxford University Press, pp. 131-152.

Milanese, G. 2012, Insegnare le lingue antiche, insegnare le lingue moderne. Convergenze e illusioni, in R. Oniga, U. Cardinale (a cura di), Lingue antiche e moderne dai licei all’Università, Bologna, il Mulino, pp. 67-82.

Ørberg, H.H. (e L. Miraglia) 2008, LINGUA LATINA PER SE ILLUSTRATA (6 volumi), Edizioni Accademia Vivarium Novum (e succ. rist.).

Oliva, A. 2008, Introduzione, in Associazione TreeLLLe (a cura di), Latino perché? Latino per chi? Confronti internazionali per un dibattito, Roma-Genova, Associazione TreeLLLe, pp. 13-17.

Ong, W. 1959, Latin Language Study as a Renaissance Puberty Rite, in “Studies in Philology”
56.2, pp. 103-124.

Oniga, R. 20072, Il latino. Breve introduzione linguistica, Milano, Franco Angeli (tr. ingl. di Norma Schifano, Latin. A  Linguistic Introduction, Oxford, Oxford University Press 2014).

Pascuzzi, G. 2014, Soldatini e danni collaterali: i settori scientifico-disciplinari, in ROARS http://www.roars.it/online/soldatini-e-danni-collaterali-i-settori-scientifico-disciplinari/ (visitato il 10.11.2015).

Ricucci, M. 2014, Orientamenti dell’insegnamento della lingua latina fra sperimentazione e tradizione in Italia, in A. Balbo e M. Ricucci (a cura di), Prospettive per l’insegnamento del latino. La didattica della lingua latina fra teoria e buone pratiche (“I Quaderni della ricerca”, 16), Torino, Loescher, pp. 15-28.

Traina, A. – Bernardi Perini, G. 19986, Propedeutica al latino universitario, Bologna, Pàtron.

Turner, J. 2014, Philology. The Forgotten Origins of the Modern Humanities, Princeton, Princeton University Press.

Waquet, F. 1998, Le latin ou l’empire d’un signe. XVIe-XXe siècle, Paris, Albin Michel (tr. it. di A. Serra, Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), Milano, Feltrinelli 2004, da cui cito).

[1] Per una rassegna ormai datata sullo studio dei classici in Europa cfr. Bulwer 2006. Per avere un’idea delle dimensioni della presenza del latino nelle nostre scuole può essere ancora utile rifarsi ai dati presentati da Oliva 2008: nel 2005 il 41% degli studenti di scuola secondaria italiana era impegnato nello studio del latino (circa un milione su due milioni e mezzo di iscritti), contro l’1-2% degli studenti americani e britannici, il 19% degli studenti francesi (nei collèges; ma solo il 3 % nei Licei), 5-8% degli studenti tedeschi. Negli altri paesi il latino è previsto solo in alcuni indirizzi di tipo umanistico-letterario, e sempre come opzione, mai come materia obbligatoria. La riforma Gelmini del 2011 ha più che altro ridotto il numero delle ore. Cfr. anche Ricucci 2014.

[2] Cfr. Kitchell 2015, pp. 167-179 per la lunga presenza di questi temi (non solo in Europa, ma già nel dibattito statunitense ottocentesco).

[3] Guastella 2012.

[4] Solo subordinatamente, direi, lo studio del latino viene nelle nostre classi usato in una prospettiva tipologica di carattere più ampio.

[5] Sulla centralità del metodo filologico e dello studio dei classici greci e latini nella formazione e nello sviluppo delle discipline umanistiche, oggi è possibile rimandare all’imponente volume di Turner 2014. Due sono le grandi cesure che hanno segnato la progressiva riduzione dell’importanza delle discipline classiche. La fase in cui i classici greci e latini hanno smesso di occupare una posizione di assoluta e indiscussa centralità nelle strutture formative di area umanistica può essere collocata nel momento in cui, a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, si è assistito a un’espansione del ruolo delle letterature e delle lingue nazionali. È a questa rideterminazione degli equilibri disciplinari all’interno delle scienze umane che si deve, nel mondo anglosassone, la nascita dei Classics e, da noi, la divaricazione fra gli indirizzi di Lettere classiche e di Lettere moderne. Il più radicale ridimensionamento del ruolo occupato dalle discipline classiche (e dal latino, in particolare) nella formazione umanistica si è poi avuto un secolo dopo, con un sempre più accentuato spostarsi dell’asse dell’attenzione verso il mondo moderno e contemporaneo.

[6] Al momento questa fortuna sembra essere un po’ in declino, ma stiamo pur sempre parlando di un settore di considerevole ampiezza. Alla data del 10 aprile 2015, sul sito del Miur risultava un numero di 187 fra docenti e ricercatori del settore di Lingua e letteratura latina (L-FIL-LET/04), contro i 310 di Letteratura italiana (L-FIL-LET/10). Se si sommano tutti i docenti e ricercatori dell’area filologico-letteraria classica da una parte e quelli dell’area filologico-letteraria italiana dall’altro abbiamo un totale, rispettivamente di 399 e di 655.

[7] Sulle finalità e sulle modalità dello studio del latino, nel tempo si è accumulata una notevole bibliografia. Fra le recenti riflessioni complessive su questo argomento, le più stimolanti a me sembrano Waquet 1998, Leonhardt 2009 (cfr. anche la recensione di Grafton 2015 alla versione inglese del volume), Archibald, Brockliss, Gnoza 2015. Sempre attuali rimangono le pagine che Alfonso Traina ha dedicato all’argomento nel 1983 (ora in Traina, Bernardi Perini 1998, 429-437).

[8] Waquet 1998, 253

[9] Ong 1959, peraltro, sosteneva che già sin dal Rinascimento lo studio del latino svolgeva il ruolo di una sorta di rito iniziatico.

[10] Si veda in questo senso Balbo 2014.

[11] Insegnare bene il latino a pochi, piuttosto che male a molti, nel motto sintetico di Traina (cit. supra, n. 7). È la prospettiva che Kenneth Kitchell ha efficacemente sintetizzato con la formula “solitary perfection”.

[12] Per citare solo uno dei più recenti e appassionati interventi in questa direzione si veda Lister 2015.

[13] Cfr. Waquet 1998, 261-287.

[14]  I cambiamenti a cui stiamo assistendo nelle strutture formative dell’Occidente dipendono da una serie di fattori che non possono non implicare anche una ridefinizione del ruolo delle nostre discipline: si pensi solo alla transizione dalla prospettiva nazionalistica tradizionale a quella della globalizzazione e all’effetto che sulla stessa popolazione scolastica hanno i giganteschi processi di migrazione che hanno interessato tutti i paesi occidentali negli ultimi decenni. È alla luce di questi macrofenomeni sociali, politici e culturali che bisognerebbe guardare anche la radicale evoluzione della griglia disciplinare a cui siamo abituati, oppure la tendenza a spostare la formazione da una prospettiva knowledge-based a una prospettiva skills-based.

[15] Sui processi di standardizzazione delle “higher forms of written Latin” cfr. anche Clackson, Horrocks 2007, pp. 183-228.

[16] Peraltro, al classicista colpevole di questo genere di invasione di campo non sembra essere concesso, a sua volta, il diritto di chiedere conto delle competenze linguistiche di cui dispongono gli italianisti o gli storici del teatro che studiano la presenza dei testi antichi o la produzione letteraria in latino all’interno dei periodi storici abbracciati dal loro campo disciplinare specifico.

[17] Sulla bizzarra storia di questo “mero espediente amministrativo nato per espletare i concorsi universitari” e sulla deleteria influenza che esso ha esercitato sull’insegnamento delle discipline e sulla ricerca cfr. l’efficace sintesi di Pascuzzi 2014.

[18] Marchand 2014.

[19] Kitchell 2015, 180-181 osserva giustamente che da un A2 (quello che si può ragionevolmente garantire alla media degli studenti nelle nostre scuole), si pretende di passare alla lettura di autori difficilissimi come Virgilio o Orazio (o lo stesso Cicerone, ma anche Cesare): eppure chi si sognerebbe di passare da un analogo livello di spagnolo direttamente alla lettura di Cervantes?

[20] Le cose migliori sono razionalizzazioni di tutta la morfologia e la sintassi, come il lucido manuale di Oniga 2007, che però non è uno strumento didattico. In alcuni casi si è tentato di sintetizzare l’impianto normativo (tagliando la casistica delle eccezioni), ma con un apparato di testi da tradurre da un lato troppo povero, dall’altro di difficoltà troppo elevata rispetto al livello di competenza linguistica ragionevolmente raggiungibile, perché – ancora una volta – selezionato esclusivamente all’interno dei testi classici (Fucecchi, Graverini 2009).

[21] Fra i tanti esempi possibili che mi vengono in mente, ne scelgo solo uno. Tempo fa, in occasione di un seminario organizzato dalla CUSL, ho ascoltato un interessante intervento di Massimo Manca sull’utilizzazione didattica delle scritture esposte di una città come Venezia. La tecnologia oggi disponibile consente facilmente l’integrazione di materiali eterogenei di questo genere in database e strumenti didattici modellati ad hoc per contesti di insegnamento anche molto diversi fra loro. Come suggerisce Leonhardt, sarebbe poi indispensabile recuperare il più possibile una pratica “attiva” della lingua latina, che è forse il modo più potente per sviluppare le necessarie competenze linguistiche (cfr. anche Milanese 2012).

Condividi