Francesco Bausi è uno dei maggiori esperti viventi di Machiavelli. Questa intervista è stata pubblicata in catalano su «Diàlegs. Revista d’Estudis Polítics i Socials», XVI 2013, e poi in italiano su «Interpres», XXXII 2014, a cura di Blanca Llorca Morell. È lunga ma merita di essere letta tutta, specie la parte finale, come contravveleno alle semplificazioni scolastiche e all’idiozie sulla ‘attualità di Machiavelli’, ‘Machiavelli nostro contemporaneo’ e via dicendo.
Nel 1513 Machiavelli annuncia la composizione del ‘Principe’. Che cosa spinge Machiavelli a scrivere, in quel momento, un’opera sui principati, e con quale intento la scrive?
Anche se nella celebre lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 M. presenta dapprima il Principe come un’opera nata dallo studio disinteressato e dalla pura speculazione, la parte finale dell’epistola chiarisce che il trattato fu composto innanzitutto con uno scopo pratico: riabilitarsi presso i Medici e ricevere da loro un qualche incarico amministrativo o politico, anche il più modesto («voltolare uno sasso», secondo la colorita espressione usata da M. nella stessa lettera), in modo da sfuggire alla povertà e all’inazione cui la perdita dell’ufficio e poi il confino in campagna lo avevano costretto. Il Principe avrebbe dovuto infatti dimostrare la competenza politica del suo autore e la sua preparazione storica, favorendo un suo impiego al servizio di Giuliano de’ Medici, con cui M. già aveva buoni rapporti (gli aveva inviato, nel febbraio-marzo 1513, due sonetti dal carcere, implorando e ottenendo la liberazione) e che sembrava sul punto di diventare «principe nuovo» grazie al fratello, il papa Leone X. Questo rimase a lungo l’obiettivo primario di M.: ancora all’inizio del 1515, in una sua lettera al Vettori, egli si appassiona per la notizia dell’imminente concessione a Giuliano di uno stato «nuovo» nell’Italia settentrionale, e gli propone il modello di Cesare Borgia, che anche nel trattato è figura centrale. Tutto ciò con la speranza di poter avere un ruolo in questo principato, anche grazie a un amico potente come Paolo Vettori, fratello di Francesco, che insieme a Giuliano avrebbe dovuto vincere la resistenze di due nemici dichiarati di Niccolò, quali Leone X e il cardinale Giulio de’ Medici. Il loro veto, insieme al tramonto delle speranze principesche di Giuliano (e, poco dopo, alla sua grave malattia), vanificò questo progetto. Tuttavia, la composizione del Principe scaturisce anche da una riflessione politica più generale, innescata dal mutamento politico avvenuto a Firenze nel 1512 con la caduta del regime soderiniano e con il ritorno dei Medici. Alla specifica situazione dello stato fiorentino – che M. definisce «principato civile»: un regime formalmente repubblicano entro il quale si afferma però un potere forte di tipo monarchico – è dedicato il cap. ix; ma tutta l’opera nasce dalla persuasione che nel mutato contesto italiano ed europeo gli stati principeschi siano quelli più adatti a sopravvivere e ad espandersi. Una persuasione cui M. giunge grazie alle sue esperienze diplomatiche e alla constatazione del declino della repubblica di Firenze, dovuto alle divisioni interne e alla eccessiva complessità e lentezza del suo ordinamento politico. Non per nulla, nell’ultimo capitolo del trattato si afferma che solo riunificandosi sotto un solo principe l’Italia potrà liberarsi dagli invasori stranieri.
Alcuni studiosi hanno insistito sul fatto che il ‘Principe’ non fu composto per essere pubblicato, ma solo per essere consegnato ai Medici. Il nostro approccio all’opera dovrebbe essere diverso, nel caso in cui Machiavelli non avesse inteso pubblicarla?
Molte delle opere di M. hanno avuto una storia lunga e complessa, nel corso della quale i loro obiettivi e il loro stesso significato hanno subito profonde trasformazioni. Di questo non dobbiamo mai dimenticarci quando parliamo del Principe e dei Discorsi. Come ho detto, è vero che almeno inizialmente M. attribuiva al trattato uno scopo soprattutto “pratico”, e che i suoi destinatari erano i Medici; ma ciò non significa che egli pensasse a una circolazione esclusivamente “privata” dell’opuscolo. Bisogna inoltre considerare che per M., non avendo egli né potenti protettori né personali ricchezze, e neppure – dopo il 1512 – un ruolo istituzionale in Firenze o altrove, l’accesso alla stampa era difficile. Anche per questo, molte delle sue opere furono pubblicate postume, e i pochi scritti che fanno eccezione uscirono per iniziativa di altri: Agostino Vespucci promosse l’edizione del primo Decennale (1506) e Lorenzo Strozzi quella dell’Arte della guerra (1521), mentre la Mandragola conobbe intorno al 1520 una sorta di edizione “pirata”, forse preceduta da una stampa che, fondata su un testo rivisto da Machiavelli per l’occasione, vide probabilmente la luce grazie all’interessamento degli amici degli Orti Oricellari. È dunque abbastanza ovvio che quando, nel 1513, cominciò a scrivere il Principe, M. non si ponesse il problema della sua pubblicazione; un tentativo per dare il trattato alle stampe fu probabilmente compiuto soltanto alcuni anni dopo, intorno al 1520, con l’aiuto di Biagio Buonaccorsi e Giovanni Gaddi, ma non andò a buon fine. Infine, va detto che per molti aspetti M., al pari di altri scrittori suoi contemporanei, è uomo dell’epoca pre-Gutenberg, come emerge con chiarezza da due elementi: in primo luogo, per lui la circolazione di un libro attraverso la stampa non esclude e non sostituisce la circolazione manoscritta, che anzi gli permette talora, attraverso copie ad personam appositamente allestite, di raggiungere destinatari precisi e selezionati (come nel caso del primo Decennale); in secondo luogo, M. resta legato a un’idea di scrittura come rielaborazione continua di testi il cui obiettivo non è quello di assumere la forma “definitiva” del libro a stampa, ma piuttosto quello di modificarsi nel tempo, adeguandosi via via all’evoluzione intellettuale e culturale dell’autore.
Parte della critica ha sottolineato che Machiavelli era un autore poco sistematico e che non ha rivisto con attenzione il ‘Principe’. Che cosa potrebbe dirci sul processo di redazione del libro e, in generale, sul modo di lavorare di Machiavelli?
La tradizione del Principe non consente di seguire lo sviluppo redazionale dell’opera: in altre parole, nei codici non si trovano varianti d’autore, perché tutti appartengono al medesimo stadio di elaborazione del testo. Le cospicue varianti che caratterizzano alcuni manoscritti e la prima stampa (Roma, Blado, 1532) sono state introdotte da altri, presumibilmente dopo la morte di M., allo scopo di sistemare, nella forma e talora anche nel contenuto, un testo che era considerato non rispondente ai canoni linguistici e stilistici allora dominanti, e che non di rado appariva macchiato da errori e imprecisioni, oltre che caratterizzato da pericolose “arditezze” concettuali. È indubbio però che il trattato rechi chiari segni di provvisorietà: disarmonie strutturali, ripetizioni, passi poco chiari, sintassi a volte faticosa e approssimativa. L’abitudine di M., testimoniata anche dai Discorsi e, con particolare evidenza, dall’Arte della guerra (di cui possediamo alcuni materiali autografi), era quella di tornare ripetutamente sui suoi testi, introducendo aggiunte suggeritegli o da avvenimenti recenti, o da nuove letture, o da ulteriori riflessioni che lo spingevano a mutare le proprie opinioni. Da qui le contraddizioni e le aporie che si possono trovare nelle sue opere, persino in quelle che, come l’Arte della guerra, furono riviste dall’autore perché destinate alla stampa; e a maggior ragione nel Principe e nei Discorsi, che, non essendo mai stati pubblicati da M., non beneficiarono dell’ultima revisione (un’ultima revisione che fu eseguita da copisti e stampatori). Nel caso del Principe, a parte l’evidente risistemazione del testo affettuata dal Blado, gli interventi più massicci di “regolarizzazione” si devono ai copisti dei manoscritti D e G (rispettivamente, 4° cod. 787 della Universitätsbibliothek di Monaco, e Char. B 70 della Forschungs- und Landesbibliothek di Gotha), come dimostrò Mario Martelli, che ha curato nel 2006 l’ultima edizione critica del trattato, fondandosi sul ms. 303 della Bibliothèque Inguimbertine di Carpentras (A), cui queste regolarizzazioni sono in gran parte sconosciute; e anche Giorgio Inglese, che nella sua edizione critica del 1994 aveva costruito il testo del Principe proprio sulla base di D e G, ritenendoli portatori dell’ultima volontà di M., è tornato adesso in molti casi (nella sua nuova edizione dell’opera, uscita nel 2013) ai manoscritti della cosiddetta famiglia y, attribuendo varie lezioni dei codici D e G a un processo di revisione postuma, anziché a un’ultima redazione approntata dall’autore.
I capitoli xv-xix sono i più sconvolgenti del ‘Principe’. In quelle pagine Machiavelli afferma, tra le altre cose, che il principe deve saper usare il male, imparare a essere volpe e leone, cercare di essere temuto più che amato, e diventare un maestro nell’arte della dissimulazione. Potrebbe spiegarci in che cosa consiste la ridefinizione della virtù e del vizio che Machiavelli attua in questi capitoli, e perché provocò reazioni così aspre?
In quei capitoli, M. rompe con la tradizione medievale e umanistica degli specula principis, cioè di quei trattati in cui si proponeva un’immagine idealizzata del regnante come un uomo che deve essere fornito di tutte le migliori qualità etiche e religiose. M. introduce invece un punto di vista “realistico”, guardando alla realtà come essa è, anziché come dovrebbe essere: al principe, secondo lui, sono necessarie solo le virtù utili per guidare bene lo stato, mentre le altre sono inutili o addirittura dannose, se adoperate senza tener conto delle situazioni politiche concrete. In alcuni casi, poi, è sufficiente simulare di possedere certe virtù, perché la maggior parte degli uomini si ferma alle apparenze e giudica solo quello che vede. Non si tratta però, come a lungo si è detto, di separazione della politica della morale: l’azione politica, per M., è profondamente “morale”, se assicura il bene dello stato e garantisce sicurezza e prosperità ai sudditi o ai cittadini. Direi dunque che in M. assistiamo piuttosto – almeno in quei capitoli: altrove, sia nel Principe che nei Discorsi, il punto di vista sembra almeno in parte diverso – alla distinzione fra la morale “privata” del principe e del governante (che riguarda solo lui e la sua anima, e non interessa né la politica né chi scrive di politica) e la sua morale “pubblica”, ossia l’insieme di quelle “virtù” che, al contrario, hanno concrete conseguenze sull’azione di un uomo di stato. Questo sguardo “realistico” sulla politica non è invenzione di M.: era stato adottato da molti autori fin dall’antichità, ma prima del Principe lo si può trovare quasi esclusivamente o nelle opere di quelli che potremmo definire i “moralisti” (ad esempio, nell’Umanesimo fiorentino, Poggio Bracciolini e Leon Battista Alberti) o in scritti non destinati alla circolazione (lettere, diari, dispacci diplomatici, oppure testi “privati” come il Viaggio in Alamagna di Francesco Vettori). M. è il primo che lo applica alla trattatistica politica, e questo provocò comprensibilmente disagio e scandalo, dando origine ben presto – quando ancora M. era in vita – all’antimachiavellismo.
Una delle più grandi innovazioni di Machiavelli consiste proprio nell’aver ridefinito la nozione tradizionale di virtú. Può spiegarci in che cosa consiste questa operazione, e perché la nozione di virtù ha tanto peso nel suo universo teorico?
Per M., la nozione di “virtù” comprende un insieme di “competenze” e di “comportamenti” ritenuti efficaci a garantire la vita e il bene dello stato; pertanto, essa spazia dal valore militare all’abilità politica, dalla prudenza all’astuzia, e può estendersi talvolta anche a comportamenti o a qualità comunemente giudicate in maniera negativa (frode, crudeltà, avarizia, dissimulazione), se questi comportamenti e queste qualità diventano utili o necessarie per la salvezza di un regno o di una repubblica. Come dicevo, però, questa “virtù” è in sé intrinsecamente “morale”, proprio perché consente al principe di governare nel modo migliore e di difendere l’interesse generale, che viceversa potrebbe essere compromesso da azioni in astratto e in apparenza “buone”, ma in realtà pericolose per lo stato e per i cittadini. Così devono essere interpretati i famosi capitoli xvi-xvii del Principe. Cesare Borgia era considerato crudele, ma con quella sua crudeltà (limitata, secondo M., a poche “esecuzioni” di singoli) aveva unito e pacificato la Romagna; a veder bene, dunque, egli fu molto più pietoso della Repubblica fiorentina, che per fuggire l’infamia di crudele non intervenne nella lotta tra le fazioni di Pistoia, lasciando dilagare devastazioni, omicidi e violenze. Dunque, la crudeltà del Valentino fu, di fatto, una virtù politica e morale. Stessa cosa per la liberalità: questa virtù, in politica, si ritorce contro se stessa, perché il principe generoso consuma tutte le sue risorse, e pertanto, se vuole continuare a donare, deve imporre ai sudditi tasse pesantissime. In tal modo sarà odiato dal popolo e rischierà di mandare in rovina lo stato; meglio, quindi, comportarsi da avaro, perché il semplice fatto di non impoverire i sudditi con esose tassazioni lo farà giudicare, col tempo, liberale. Questa è la machiavelliana “ridefinizione” della virtù politica, che assume la forma del paradosso: il crudele è il vero pietoso, l’avaro il vero generoso. In sostanza, M. si propone di riesaminare le nozioni etiche tradizionali (ma solo nella sfera politica, si badi, non in quella privata) attraverso un ripensamento radicale dei termini che solitamente le designano: alla fine della sua analisi, con mossa volutamente “scandalosa” e provocatoria, e compiacendosi di ribaltare l’opinione comune, egli attribuisce a questi termini un significato opposto a quello dato loro fino a quel momento dalla maggioranza degli uomini. Un procedimento di tipo “socratico”, non diverso da quello adottato negli stessi anni da Erasmo, per il quale, come si sa, la follia è vera saggezza (Encomium Moriae, 1511), chi non imita fedelmente Cicerone è il vero ciceroniano (Ciceronianus, 1528), e chi – come il cristiano – rinuncia ai piaceri è il vero epicureo (“colloquio” Epicureus, 1533).
Per quanto riguarda i personaggi storici coi quali Machiavelli è entrato in contatto e che lo hanno aiutato a definire la sua nozione di ottimo principe, crede che ce ne sia qualcuno che spicchi sopra gli altri?
Nel Principe compaiono molti personaggi contemporanei, che spesso M. aveva avuto modo di incontrare e di conoscere durante le missioni da lui compiute negli anni precedenti per conto della Repubblica fiorentina. Ma la figura dominante è senza dubbio quella di Cesare Borgia, che nel trattato ha lo spazio maggiore, e alla cui vicenda è dedicato un ampio excursus nel capitolo vii, dove si ripercorre l’intera sua parabola politica e militare. Rivolgendosi a un futuro principe “nuovo” (Giuliano de’ Medici), M. concede grande risalto al personaggio che per lui costituiva l’esempio più insigne di principe divenuto tale «con le armi e la fortuna di altri», salendo a capo di uno di quegli stati facili da acquistare (perché ottenuti in dono) ma difficili da mantenere (perché privi di radici, di identità e di coesione interna): proprio come sarebbe accaduto – si pensava allora – a Giuliano, la cui situazione ricordava molto da vicino quella del Valentino, giacché entrambi dovevano le loro fortune a un parente papa (nel primo caso, il fratello Leone X; nel secondo, il padre Alessandro VI). Ed è comprensibile che, a un uomo mite e ben poco bellicoso come Giuliano, M. offrisse l’esempio, viceversa, di un principe che si era distinto per la spregiudicatezza, il coraggio e l’abilità politico-militare, diventando dal nulla in brevissimo tempo uno dei signori italiani più temuti. Al tempo stesso, come dimostrano i dispacci da lui inviati durante le due legazioni compiute presso il Borgia nel 1502-1503, per M. la condotta del Valentino era il contraltare virtuoso di quella dei vecchi governanti fiorentini, incapaci, a causa delle annose divisioni della repubblica e della loro cronica propensione all’attendismo e alla prudenza, di condurre una politica estera efficace e incisiva.
Nella sua monografia (‘Machiavelli’, Salerno Editrice, 2005), lei combatte alcuni dei miti sorti intorno alla figura del Segretario, affermando che non era né un filosofo, né un umanista, né un convinto repubblicano. Perché crede che proliferino i miti intorno a Machiavelli, e perchè lei ha messo tanto impegno nel combatterli?
Quello che affermo nel mio libro deve essere precisato meglio: non nego che M. possa essere considerato un filosofo, ma certo non era un pensatore sistematico dotato di una profonda e specifica preparazione filosofica; non nego che fosse un letterato dalla vasta cultura, ma certo non era un umanista che avesse fatto studi regolari di greco e di latino e che possedesse una solida formazione classica (come Lorenzo Valla o Angelo Poliziano, ad esempio); non nego che fosse un repubblicano per formazione e per ideologia, ma certo dopo il 1512 non esitò a diventare mediceo, non solo per ragioni di opportunità personale, ma anche perché si era convinto che ormai a Firenze una repubblica vera e propria non poteva più sussistere e che solo un potere forte come quello dei Medici (benché esercitato sempre con la moderazione imposta dalla storia, dalla struttura sociale e dalle tradizioni della città) fosse in grado di tenere a freno le discordie interne e le ambizioni di supremazia delle grandi famiglie aristocratiche. Nel mio libro ho cercato di mettere in evidenza che tra Otto e Novecento si è determinata una “monumentalizzazione” di Machiavelli, trasformato in uno dei padri politici e culturali dell’Occidente moderno, e dunque in una figura “astratta” e “idealizzata” di repubblicano integerrimo, di nemico mortale dei Medici, di grande filosofo (non solo della politica e della storia, ma anche dell’uomo e della natura), di raffinato umanista. Si è così persa di vista la storicità di M.: spesso non si sono analizzate a fondo le sue opere, non si è studiata con attenzione la sua biografia, non si sono indagate la sua cultura e la sua formazione, e soprattutto, in generale, si è trascurato di inserirlo nel suo contesto (quello fiorentino, in primo luogo), al di fuori del quale egli risulta incomprensibile. Questo ho cercato di combattere nei miei studi, anche perché de-storicizzare M. significa aprire le porte a qualunque interpretazione arbitraria delle sue opere e del suo pensiero. Pertanto, la “filologia” (intesa non solo come ecdotica, ma in senso ampio come studio “storico” dei testi e dei fatti) è stata ed è per me alla base di ogni indagine su M.: la filologia machiavelliana vale come richiamo perenne verso un M. non “mitologizzato”, non “attualizzato”, non letto alla luce della sua fortuna o sfortuna postuma, ma integralmente “storicizzato” e calato nel suo tempo e nella sua cultura. Un M. meno monumentale ma più autentico, insomma: il che non significa sminuire la sua grandezza, né come letterato né come uomo di pensiero, ma soltanto riportarlo ad una dimensione più vera e più sua.
Ancora oggi l’aggettivo “machiavellico” è sinonimo di astuzia, macchinazione, cinismo, doppiezza. Perché il nome di Machiavelli si è associato così fortemente, in molte lingue e in molte culture, a questi tratti negativi?
Siamo in presenza di una deformazione prodotta dall’antimachiavellismo, che dilagò in tutta Europa fin dal primo Cinquecento, e che si fonda su una lettura parziale e distorta del Principe e soprattutto sull’immagine “vulgata” del suo autore, cui venivano attribuite nefandezze di ogni genere, tanto da essere addirittura identificato con il diavolo in persona. Alla base c’è senz’altro un fondo di verità (il principe e in generale il politico devono agire talvolta, secondo M., con astuzia e doppiezza, usando l’inganno e la frode), ma ridurre a questo tutto il pensiero di M. è profondamente sbagliato. L’errore più grave, tuttavia, risiede in quello che ho detto poco fa: il punto non è che M. abbia teorizzato la legittimità dell’uso, in alcuni casi, dell’inganno come arma politica e militare (non è stato certo il primo, a farlo!), il punto è che per lui l’inganno si giustifica quando vi si ricorre per la salvezza e il bene dello stato, ossia della collettività. Nella percezione comune, invece, anche oggi M. è sinonimo del politico imbroglione, cinico, infido, che trama nell’ombra e che adotta questi comportamenti come strategia sistematica, al di fuori delle regole e della morale. Ma questa idea “volgare” della politica era del tutto estranea a M.
Molti sono sconcertati dal fatto che, mentre nel ‘Principe’ Machiavelli si presenta come esperto consigliere di principi, nei ‘Discorsi’ esprime con forza la sua ammirazione per l’antica Roma repubblicana. Qual è la relazione tra queste due opere, e come si spiega, se esiste, la discordanza tra di esse?
Anche questa contrapposizione nasce da una visione rozza e riduttiva degli scritti e del pensiero di M. In primo luogo, Principe e Discorsi sono due opere molto diverse per genesi e caratteristiche: il primo è un breve opuscolo nato in relazione a una circostanza specifica e con un forte obiettivo “pratico” e “militante”, mentre i secondi sono un ampio trattato teorico-politico con ambizioni soprattutto erudite e letterarie, nella forma del commento a un testo classico (le storie di Tito Livio), pur non essendo privi di agganci evidenti con la realtà contemporanea. È vero che alla stesura dei Discorsi M. si applicò quando il progetto del Principe era ormai tramontato (dopo il 1515), ma certo egli non vedeva contraddizione fra le due opere, come non la videro i suoi contemporanei: anzi, i rimandi interni fra i due trattati (i Discorsi rinviano varie volte in modo esplicito al Principe, e quest’ultimo in due capitoli rinvia a un’opera sulle repubbliche che dovrebbero essere proprio i Discorsi) dimostrano che M. li considerava come complementari, ossia come due momenti, distinti ma interdipendenti, di un’unica riflessione sulle due principali forme di governo. Questo accadde soprattutto nell’ultima fase della vita di M., quando egli, resosi conto che le sue idee e le sue opere non potevano più avere un’applicazione “pratica” nella situazione fiorentina e italiana, cercò di accreditarsi – sia presso i Medici, sia presso il più largo pubblico dei dotti – come trattatista, storico e scrittore, cioè come un intellettuale staccato dalla lotta politica e dedito principalmente all’indagine teorica, alla storiografia e alla letteratura. Oltre a questo, però, bisogna ricordare che i Discorsi sono un’opera complessa, non riducibile a un semplice “trattato sulle repubbliche”, giacché affrontano anche questioni relative ai principati e alla milizia; e che la differenza fra Principe e Discorsi non è una differenza “ideologica”, come se il primo fosse un trattato “monarchico” e i secondi fossero un trattato “repubblicano”. Anzi, i Discorsi sono stati composti in anni nei quali M. stava cercando in ogni modo di accostarsi ai Medici e frequentava, a questo scopo, il circolo mediceo degli Orti Oricellari, grazie al quale sarebbe finalmente riuscito, a partire dal 1520, a entrare nelle grazie del papa e della sua famiglia, ottenendo incarichi politici e letterari. Ed essendo gli Orti un circolo umanistico, è naturale che M. abbia composto in quell’ambiente un’opera fortemente “letteraria” ed erudita come i Discorsi, mentre il Principe, concepito espressamente per i Medici e per una circostanza precisa e “pratica”, esigeva una trattazione più essenziale e stringata, priva – come si legge nella dedica a Lorenzo – di «parole ampullose e magnifiche» e di qualunque «ornamento estrinseco». Se mai, volendo sottolineare una differenza fra le due opere, essa potrebbe essere individuata nella prospettiva specifica della riflessione machiavelliana: se infatti l’ottica del Principe è prevalentemente italiana (soltanto il cap. ix, dedicato al «principato civile», si riferisce, come già ho detto, alla situazione politica fiorentina, benché in modo allusivo e non esplicito), nei Discorsi M. guarda invece soprattutto alla sua città, e in molti capitoli propone un confronto – talora implicito, ma comunque sempre evidente – tra Firenze e la repubblica romana antica, presentata quale modello supremo cui tutte le repubbliche moderne dovrebbero conformarsi.
A questo proposito, che cosa pensa di quella corrente di studi, soprattutto anglosassone, che ammira Machiavelli per il suo repubblicanesimo civico e lo considera un precursore della democrazia moderna?
Si tratta di un’interpretazione assai diffusa, che può considerarsi un aspetto particolare della complessiva interpretazione dell’Umanesimo fiorentino come anticipatore dell’Illuminismo, della lotta ai dispotismi e ai totalitarismi, dell’idea moderna e laica di libertà e di individuo (si pensi al fondamentale libro di Hans Baron The Crisis of the Early Italian Renaissance: civic humanism and republican liberty in an age of classicism and tyranny, del 1955). Ovviamente, questa interpretazione si fonda soprattutto sui Discorsi, ritenuti l’opera maggiore di M., mentre altri scritti, a cominciare dal Principe, non sono considerati l’espressione più autentica del suo pensiero e vengono dunque sottovalutati. Personalmente, credo che M. abbia ben poco a che fare con queste ideologie e con queste nozioni: siamo di fronte a una deformazione attualizzante, al pari dell’antimachiavellismo, anche se di segno opposto. E ciò sia perché è semplicistico etichettare M. come un puro “repubblicano”, sia perché la realtà politico-sociale in cui egli viveva e della quale tratta era diversissima da quella di oggi. Le parole e i concetti di cui M. si serve (repubblica, popolo, libertà, uguaglianza) hanno nelle sue opere, e avevano ai suoi tempi, un significato molto lontano da quello odierno; e questo dovrebbe raccomandare prudenza a chiunque cerchi di trovare precise analogie tra il suo pensiero e quello di filosofi e scienziati della politica vissuti secoli dopo.
Per quanto riguarda le interpretazioni contemporanee del ‘Principe’, ce n’è qualcuna che le sembra particolarmente interessante o suggestiva, o qualcuna che considera del tutto sbagliata?
Ogni interpretazione mette in luce un lato della verità, e dunque nessuna è da considerare intrinsecamente “sbagliata”. Negli ultimi decenni, in particolare, si sono confrontate e spesso scontrate interpretazioni “filosofiche” e interpretazioni “filologiche” del Principe (e di tutto M.): talora abbiamo assistito al radicalizzarsi della polemica, ma nel complesso il dibattito ha portato a un notevole progresso degli studi machiavelliani, inducendo gli studiosi da una parte a tener conto dello spessore concettuale delle opere del Segretario, dall’altra a fondare le interpretazioni sui dati storici e testuali, e a non prescindere dai “documenti”.
Sorprende il fatto che il ‘Principe’ abbia attirato l’attenzione di personaggi tanto diversi come Benito Mussolini – che scrisse un’introduzione all’opera – e Antonio Gramsci, che ne ha trattato nei ‘Quaderni del carcere’. Che cosa rende l’opuscolo capace di suscitare l’interesse di personaggi così diversi?
Quello che è accaduto al Principe accade a ogni altra grande opera del passato (basti pensare alla Commedia di Dante), quando si cerca in essa una conferma delle proprie idee e quando la si legge in modo fortemente “attualizzante”. Sono operazioni del tutto legittime: bisogna però aver chiaro che in tal modo non si sta cercando di capire realmente e “storicamente” M., ma solo di servirsene per i propri scopi. Nei casi peggiori, questo porta a fare di un “testo” un semplice “pretesto” per esporre le proprie idee, trasformando l’autore in una “bandiera” utile a dare prestigio alla propria parte politica o alla propria corrente filosofica, della quale lo facciamo apparire come un anticipatore. È il solito vizio di considerare se stessi (e la propria epoca, o la propria visione del mondo) come il punto d’arrivo della storia e della civiltà, un punto d’arrivo rispetto al quale il passato è, nel migliore dei casi, solo una preparazione e una prefigurazione; di conseguenza, un autore antico ci interessa o ci appare importante solo se possiamo farne il “precursore” di qualcosa che è venuto dopo, cioè se riusciamo a trovare in lui idee o posizioni che sarebbero state espresse compiutamente solo nei secoli successivi e che ci sembrano più “moderne” e più “avanzate”. Alla base di questo atteggiamento, che ritengo incompatibile con la seria ricerca storica, sta una ingenua e ideologica concezione finalistica della storia e della conoscenza, intese come una marcia inesorabile verso il “progresso”, come un cammino lineare dalle tenebre alla luce. Così, M. può diventare di volta in volta precursore del fascismo, del marxismo o delle democrazie liberali, e di volta in volta si considereranno certe opere di M. più importanti di altre e più rappresentative del suo autentico pensiero: i marxisti, ad esempio, apprezzano maggiormente il Principe (ritenuta opera più “rivoluzionaria”), mentre, come ho detto prima, i Discorsi sembrano ai “liberali” il vertice del suo pensiero. Non è difficile far dire a un autore del passato ciò che vogliamo che dica: sotto tortura, gli uomini (e i testi) dicono qualunque cosa, ma quello che dicono, spesso, non corrisponde a ciò che pensano realmente.
È molto comune sentir dire che il ‘Principe’ è ancor oggi un opera di grande attualità. Forse perché può aiutarci a comprendere le dinamiche del potere?
L’attualizzazione brutale delle opere del passato non mi interessa, e credo serva a ben poco, anche se in alcuni casi può forse essere divertente. Nell’anno centenario del Principe ho letto discussioni sui temi più bizzarri: se M. era di destra o di sinistra, che cosa avrebbe pensato dell’attuale situazione politica italiana ed europea, o della globalizzazione, e cose di questo genere. In termini generali, un testo composto cinquecento anni fa non può avere oggi alcuna attualità: nel mondo di oggi, quasi tutto è diversissimo dal mondo di M., e nessun vero paragone è possibile. A meno di non voler cadere nell’ovvio, ad esempio affermando che dalle opere di M. impariamo che il politico deve agire per il bene dello stato e non per il suo interesse personale, o che in politica conta più l’apparire che l’essere, o che la politica si basa sul conflitto, o che l’uomo di governo deve saper percepire i segnali della crisi prima che essi si manifestino, e così via. Ma per simili banalità non c’è bisogno di scomodare M. e di andarsi a leggere quello che ha scritto. Ciò vale anche per le “dinamiche del potere”, che a noi, uomini del terzo millennio, sono ormai ben note – anche senza bisogno di ricorrere al Principe – grazie alle drammatiche vicende che la storia ha provveduto negli ultimi secoli a somministrarci in abbondanza, per opera di figure ben più temibili del “principe” machiavelliano.
Per finire: crede che in questi tempi convulsi di crisi economica e di perdita della fiducia nelle istituzione politiche e nei suoi rappresentanti, Machiavelli abbia qualcosa da insegnarci?
Diffidare delle attualizzazioni non significa che l’unico approccio possibile e lecito ai testi antichi sia quello storico-filologico; significa che l’attualità di un autore del passato, o meglio la sua persistente “utilità”, deve essere ricercata al di là delle questioni effimere e contingenti della cronaca e della storia. Personalmente, M. mi appare il maestro di un approccio anti-ideologico alla realtà, capace di adeguare le risposte al mutare dei tempi e delle situazioni, senza timore di cambiare idea o schieramento, di contraddirsi, e quindi di risultare sgradito ai vecchi amici e sospetto ai nuovi. Per quanto riguarda specificamente il Principe, credo che in tempi di ipocrisia e di moralismo crescente come i nostri sia importante l’insistenza di M. sulla separazione fra la morale privata del governante e la sua competenza ed onestà politica. Nei capitoli XV e XIX del Principe leggiamo che chi detiene il potere deve badare a non incorrere in quei vizi che gli possono attirare l’odio e il disprezzo dei sudditi, perché questo gli farebbe correre il rischio di perdere lo stato; ma che agli altri vizi, se non riesce ad astenersene, può senza troppe remore lasciarsi andare, perché sono privi di conseguenze politiche negative. Una visione davvero realistica e ‘laica’, lontana dalle utopie che godevano di grande fortuna all’epoca sua (si pensi, per fare solo due nomi, a Tommaso Moro e ad Erasmo), e dietro alle quali intravedo l’ombra dello stato etico moderno, cioè del totalitarismo illiberale. M. non si proponeva di cambiare gli uomini, perché, avendone un’opinione pessimistica, non lo riteneva possibile; il suo obiettivo, più modesto ma più realistico e più onesto, era solo quello di insegnare il modo migliore per governarli, limitando le ingiustizie e i soprusi dei forti sui deboli, ed evitando il proliferare delle divisioni interne, che possono distruggere uno stato. La sua antropologia negativa, che tante critiche gli ha attirato nei secoli, mi sembra in realtà la dote migliore per un politico: come ha scritto Wislawa Szymborska (con un paradosso che sarebbe piaciuto a M.), l’amore per l’umanità è molto pericoloso, perché porta a voler rendere gli uomini felici per forza. Ma adesso anch’io, senza accorgermene, sto forse attualizzando M., proponendone un ritratto a mia immagine e somiglianza. Dunque, è meglio che mi fermi qui.