Non intendo parlare del “Metodo Stamina”. In rete si possono trovare fin troppe informazioni, tra le quali interventi a mio parere equilibrati e solidamente riferiti a dati di fatto (consiglierei solo a chi non ne sa nulla di partire dall’interessante biografia dell’ideatore, Davide Vannoni). Vorrei invece parlare degli interessi collettivi che sono stati e sono tuttora lesi o minacciati dagli sviluppi della vicenda Stamina.
In estrema sintesi, qualche fatto: nel settembre 2011, in forza del decreto Turco-Fazio del 2006, agli Spedali Civili di Brescia (una struttura pubblica) viene avviato su alcuni malati un trattamento speciale nell’ambito della medicina rigenerativa. Non avendo seguito precedentemente il rigido percorso sperimentale ordinario, il trattamento non aveva ancora ricevuto l’approvazione dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), e la sua applicazione ai pazienti rientra nelle cosiddette «cure compassionevoli» previste dal decreto.
In seguito a indagini dei NAS, la procedura viene bloccata da un’ordinanza dell’AIFA a maggio 2012, dopo di che inizia un braccio di ferro tipicamente italiano tra autorità diverse (l’AIFA stessa, il Ministero, la procura di Torino, i tribunali di Brescia e di Venezia, ecc.) che esprimono pareri contraddittori. Alla fine, nel maggio 2013, per risolvere le controversie (che non erano solo giuridiche: centinaia di persone partecipavano a manifestazioni pro-Stamina, anche in seguito a un discusso servizio delle Iene) la Commissione Affari Sociali della Camera vota l’avvio di una sperimentazione clinica finanziata dallo Stato, per la quale vengono stanziati 3 milioni di euro. Naturalmente anche stavolta ci sono conflitti tra autorità diverse: la sperimentazione viene bloccata da una speciale commissione ministeriale, il cui decreto di nomina viene però sospeso dal TAR del Lazio in seguito a un ricorso di Vannoni, secondo il quale essa non sarebbe stata imparziale. Al momento l’ultima notizia (28 dicembre 2013) è la nomina di una nuova commissione che dovrà sostituire la vecchia.
Non c’è bisogno di esprimere un giudizio nel merito per capire che in questa contorta vicenda sono in gioco, oltre a quelli dei protagonisti, anche interessi che riguardano tutta la collettività. Da un lato, infatti, la decisione di finanziare la sperimentazione (criticata anche da un editoriale di Nature) minaccia interessi collettivi concreti, sia perché si utilizzano soldi pubblici, sia (soprattutto) perché in caso di esito negativo si tratterebbe di uno sperpero di risorse che, provenendo dal Fondo Sanitario Nazionale, avrebbero potuto essere destinate a ricerche più utili.
D’altra parte, la decisione di portare avanti una seria sperimentazione in grado di dirimere in modo definitivo e incontestabile la questione dell’efficacia e della sicurezza del metodo era a quel punto per lo meno comprensibile, visto che a manifestare erano ormai in molti, e soprattutto che tra i doveri delle istituzioni scientifiche dello Stato rientra anche promuovere conoscenze il più possibile serie, affidabili e non contraddittorie. È proprio in tal senso, credo, che in questa vicenda sono stati pagati i costi sociali più alti.
Come mai ci siamo ritrovati con questo groviglio di interessi contrapposti (e parlo solo di quelli evidenti e leciti) in una situazione che in teoria avrebbe dovuto solo offrire una possibilità in più? Un ruolo non secondario, certamente, lo ha avuto la qualità dell’informazione, ma non credo che in ciò stia la vera origine del problema. Si tratta piuttosto di uno di quei casi in cui un’informazione mediamente superficiale ha solo ingrandito problemi e conflitti oggettivi e preesistenti, come suggerisce il fatto che l’accusa di un atteggiamento parziale e scorretto è arrivata ai media sia da parte dei sostenitori che dei detrattori di Stamina. La vera origine, purtroppo, è connessa alla possibilità stessa di avviare pratiche terapeutiche in qualche modo straordinarie in strutture pubbliche. Non è una constatazione piacevole, ma proprio per questo sarebbe puerile evitarla.
Il decreto Turco-Fazio, che regolamenta le «cure compassionevoli» (dall’inglese compassionate use, espressione per la quale non esiste a livello internazionale una definizione unanimemente accettata), sembra di primo acchito un semplice atto di civiltà e buon senso. «In mancanza di valida alternativa terapeutica, nei casi di urgenza ed emergenza che pongono il paziente in pericolo di vita o di grave danno alla salute nonché nei casi di grave patologia a rapida progressione», è consentito sui pazienti, previo il loro consenso informato e l’autorizzazione del Comitato etico, l’utilizzo di medicinali per «terapia genica e terapia cellulare somatica» per i quali non è stato ancora avviato il lungo percorso che porta all’approvazione dei farmaci da parte dell’AIFA; la terapia, secondo il decreto, deve inoltre essere supportata da dati scientifici di una certa consistenza (ossia pubblicati su «accreditate riviste internazionali»: su questo punto hanno per lo più insistito coloro che hanno criticato l’impiego del “Metodo Stamina” a Brescia). La possibilità impiegare su pazienti medicinali ancora non autorizzati dall’AIFA era già prevista dal decreto ministeriale dell’8 maggio 2003, ma solo per farmaci che fossero già in fase di sperimentazione clinica; il decreto Turco-Fazio, invece, allarga questa possibilità anche ai farmaci che non hanno ancora iniziato il percorso “ufficiale”.
Se un malato non ha niente da perdere, se sarebbe comunque destinato a morire o a peggiorare drasticamente in breve tempo, e se in ogni caso c’è il suo consenso informato, perché negargli una possibilità aggiuntiva, per quanto piccola? Questo modo di vedere le cose sta diventando sempre più tipico: anche ragionando in astratto (come un legislatore dovrebbe sempre fare) si prendono in considerazione gli interessi dei singoli molto di più di quelli della collettività.
La logica che impone un rigido e severo percorso attraverso vari trial clinici prima dell’autorizzazione di farmaci e protocolli terapeutici non ha a che fare, infatti, solo con la tutela dei malati. Il punto non è solo minimizzare i rischi legati a eventuali effetti collaterali, o massimizzare i benefici. Esiste anche l’esigenza, come si diceva, di promuovere conoscenze ragionevolmente certe su argomenti tanto delicati, conoscenze che possano essere garantite dallo Stato e quindi considerate affidabili dalla collettività.
Nel caso del decreto del 2003, tale esigenza era esplicitamente richiamata («Considerata la opportunità […] di fornire indicazioni relative all’uso dei medicinali sottoposti a sperimentazione clinica») e in qualche modo implicitamente tutelata dal fatto che si trattava di farmaci per i quali era già in corso uno studio clinico; lo Stato, attraverso le sue istituzione scientifiche, non abdicava quindi dal ruolo di garante in materia. Col decreto Turco-Fazio le cose sono molto diverse, dal momento che esso è pensato esplicitamente per l’impiego in «casi singoli» di farmaci al di fuori di qualunque studio clinico. E l’applicazione in una struttura pubblica di una terapia che lo Stato non può garantire genera, specie se l’esito è descritto in qualche modo come positivo, una frattura nel sistema.
Nel caso di Stamina, è possibile che lo stesso decreto Turco-Fazio sia stato forzato (come sostenuto ad esempio dalla procura di Torino), ma il punto non è questo. Anche se si potesse dimostrare che tutto si è svolto conformemente alle norme vigenti, resta il fatto che le informazioni provenienti dall’applicazione di «cure compassionevoli» a casi individuali non possono per definizione essere paragonabili, per affidabilità, per trasparenza, per significatività statistica, e soprattutto per serietà e sistematicità nelle valutazioni degli esiti, a quelle di un vasto trial clinico.
L’effetto sulla collettività, tuttavia, può essere enorme. Vannoni, nel comprensibile tentativo di pubblicizzare il suo metodo, ricorda a ogni piè sospinto che esso è stato applicato (a suo giudizio con successo) in una delle migliori strutture pubbliche italiane: un argomento che (per fortuna, direi) ha ancora un certo effetto sull’opinione pubblica. Gli stessi miglioramenti nelle condizioni dei bambini malati riferiti da alcuni genitori sono del tutto inadeguati, per se stessi, a costituire una prova scientifica, sia per il carattere soggettivo della valutazione, sia per l’insufficienza dei numeri, sia per la mancanza di casi di controllo. Sono però più che abbastanza per alimentare speranze e per influire su decisioni di importanza capitale nelle vite di altri genitori.
I problemi in tal modo generati riguardano tutta la collettività, e dovrebbero considerati con grande attenzione. Rispetto al bisogno di speranza dei malati e dei loro parenti, tuttavia, gli interessi collettivi hanno un carattere molto più astratto, che li rende più difficili da riconoscere per l’opinione pubblica, e quindi generalmente meno interessanti anche per i media e per gli stessi legislatori. Per inciso, non si tratta in questo caso di una caratteristica solo italiana (anche se la generale debolezza del nostro senso dello Stato contribuisce ad acuire il problema). Anche in ambito internazionale la quasi totalità delle cautele sull’impiego delle «cure compassionevoli» riguarda la tutela dei pazienti, mentre un’attenzione molto minore è dedicata ai rischi collettivi connessi all’emergere di informazioni che non possono essere garantite da enti ufficiali.
L’FDA ad esempio (United States Food and Drug Administration), precisa meticolosamente sul suo sito ufficiale la serie vincoli e restrizioni previsti per l’applicazione di terapie sperimentali a singoli pazienti estranei a un trial clinico, ma precisa che «these safeguards are in place to avoid exposing patients to unnecessary risks». La principale salvaguardia della collettività, sia per l’FDA che (ad esempio) per la Heilmittelgesetz tedesca (la legge federale sui prodotti medicali), è rappresentata dall’obbligo di riportare agli enti di controllo gli effetti collaterali (adverse events) verificatisi nell’ambito del programma (analogamente a quanto prevede in Italia il decreto del 2 marzo 2004, richiamato dal Turco-Fazio); dal momento che tali informazioni sarebbero scientificamente significative solo in caso di attestata affidabilità statistica, che nel caso singolo non può esistere per definizione, si tratta tuttavia di una blanda tutela.
È chiaro che la soluzione non è semplice. Non voglio affatto sostenere che basterebbe eliminare in blocco le «cure compassionevoli» per rendere tutti felici; al contrario, penso che bisogna al più presto cominciare ad abituarsi al fatto che rendere tutti felici è quasi sempre impossibile. Una proposta di soluzione seria dovrebbe piuttosto passare attraverso analisi dettagliate: si dovrebbe probabilmente partire dallo studio di dati statistici seri sulle percentuali generali di successo delle «cure compassionevoli», per potersi chiedere con cognizione di causa di quali reali benefici stiamo parlando. Si potrebbe forse studiare la possibilità di norme più restrittive sulla gestione dei dati, disciplinando non solo la pubblicazione di documenti ufficiali come le cartelle cliniche (già ora vietata per motivi di privacy, quindi per tutelare il paziente), ma anche la diffusione di informazioni attraverso libere dichiarazioni di medici, pazienti e familiari (per tutelare la collettività).
Ma quello che si dovrebbe in ogni caso evitare è l’idea che, su temi delicati come questo, ci siano i «buoni» e i «cattivi», e che per agire per il meglio si debbano solo prendere decisioni «buone» che accontentino tutti senza fare torto a nessuno. Perché dietro assunzioni di questo tipo c’è molto spesso solo il sacrificio di un altro pezzetto di bene comune.