Libri

La coda mozza. I libri digitali, la scuola, la democrazia

Lo confesso, per un po’ ci ho creduto; la teoria della coda lunga e delle infinite possibilità della rete mi ha sedotto: ho frequentato intimamente la tecnologia ed ho ignorato quello che, sempre più, stava diventando chiaro. Oggi non ho più dubbi: la coda lunga non esiste; o meglio, esiste ma è, di fatto irrilevante. Ancor più, forse, di quanto non lo fosse nel mondo analogico.

La coda mozza è visibile universalmente: non c’è settore merceologico in cui i soldi e la sagacia tecnica non riescano a prevalere sulla qualità, dove la grande azienda avveduta e capace non possa ricacciare nell’ombra i piccoli pionieri del digitale; certo, la modifica delle abitudini del marketing e la maggiore esposizione al digitale degli utenti hanno provocato una rotazione delle posizioni in classifica, ed è ovvio l’ingresso di nuovi colossi digitali che scalzano vecchi dinosauri. Ma l’utopia non è visibile, l’accesso a infinite ed universali possibilità rimane una fascinazione di scarso fondamento.

Prendiamo i libri digitali. La visibilità sugli store digitali che pesano (quindi, su Kindle e iBooks, e poi su Android, Kobo o Nook) è riservata ai blockbuster, ai libri spinti da editori medio grandi (che si comprano le posizioni premium e dialogano direttamente con Amazon ed Apple); l’esito è mediamente devastante per i piccoli editori, che possono recuperare visibilità investendo in pubblicità, o scatenando i propri contatti per far scaricare e recensire i libri, ottenendo un miglioramento del ranking e della visibilità.

Quindi, contano i soldi e le dimensioni, non la bravura. Perché l’interlocutore non è più accessibile, e non valuta i contenuti (che ne sa di contenuti gente che non parla metà delle lingue del suo territorio di competenza?). Conta anche la possibilità di dedicare del tempo e delle persone a Facebook, Twitter, Pinterest, il forum, il gruppo, la newsletter; non è solo scarsa velleità digitale (anche, ma non solo), spesso è poca predisposizione al massacro, ovvero la consapevolezza che su Kindle o iBooks Store non ti troverà nessuno neppure per sbaglio, mentre in libreria esiste ancora qualche possibilità.

La coda è mozza: certo che l’utente può fare una ricerca tra milioni di titoli, peccato sia continuamente sollecitato a scegliere da uno scaffale limitato; anche perché non conviene a nessuno distribuire la copia del libro ignoto, neppure in digitale, tutti i margini si abbassano, il marketing è meno efficiente e, complessivamente, la qualità del servizio cala.

La qualità del servizio, perché questa è l’ossessione: tutto arriva perfetto e veloce, one click to buy (che è un copyright di Amazon, lo scrivo per l’ufficio legale) e tutto atterra sul cloud proprietario, in un formato spesso utilizzato solo da quel produttore di computer, tablet, smartphone.

E poi c’è il DRM, la protezione dei file, che rende tutto il discorso dell’interoperabilità una pura teoria. E qui possiamo introdurre la discussione sulla scuola digitale.

Vogliamo davvero diffondere il digitale, permettere agli studenti di scambiarsi i libri, di prestarseli, di condividerli? Vogliamo permettere alle scuole di scegliere liberamente dell’hardware? certo servirà un software standard che sia universalmente accettato, ma non basta. Serve un DRM universale, o un DRM diverso: che permetterebbe davvero, e non solo teoricamente, di comprare un libro e passarlo da un device all’altro senza problemi di copie illegali o non autorizzate. O forse, ma non lo so, servirebbe puntare ad un sistema senza DRM.

Non il selvaggio mercato del libro pirata, ma un ecosistema governato da degli standard che mi permettano di far leggere a mia figlia o ad un mio studente un libro comprato da me, senza passarle il mio device o il mio account; che permetta di costruire vere biblioteche digitali accessibili universalmente, anche sacrificando all’estetica dei libri allineati sullo scaffale, ma permettendo di non perdere il valore dei veri metadati, quelli accumulati in anni o generazioni di letture.

Non è un conflitto tra carta e digitale, non discutiamo del fascino dell’inchiostro e della freddezza dei bit; si discute della possibilità che le scelte culturali non siano vincolate alle scelte aziendali di tre o quattro multinazionali, circoscrivendo di fatto il perimetro di movimento di lettori, studenti, insegnanti. Non si può neppure immaginare che un patrimonio di letture conservato sul cloud di un produttore di hardware sia destinato, in eterno, solo a utenti di quel solo produttore.

Tutti immaginiamo, presto o tardi, di frequentare la biblioteca digitale di un amico così come lo facciamo nel mondo fisico, ospiti a casa sua: vediamo la sua libreria, sfogliamo un libro, lui ci racconta la storia di quella copia e della sua esperienza di lettura, spesso ce lo presta con un gesto molto intimo, personale. Non è una transazione, è un abbraccio.

E, in fondo, è la vera coda lunga, quella che si realizza togliendo le barriere alla diffusione del sapere, definendo delle regole comuni ed impedendo di esercitare la propria sapienza tecnica sulla costruzione di sistemi chiusi, seppur bellissimi.

La nostra democrazia infelice ne prenda atto: se la concentrazione del potere economico e finanziario aumenta è anche perché la tecnologia è un formidabile moltiplicatore delle sperequazioni. La finanza lo sa bene, ed interviene sulla gestione mirata, a proprio favore, dei colli di bottiglia o sulla definizione di modelli che, a tendere, portano alla concentrazione. L’illusione della coda lunga sta insieme al mito sulle maggiori opportunità per tutti: non sono internet e la tecnologia tout court che rendono tutto possibile, ma l’uso che se ne fa; è obbligatorio un dibattito pubblico esteso e strutturato su questi temi, l’alternativa è lanciare allo sbaraglio un patrimonio di talenti e visionari, che presto o tardi verranno ricondotti a più miti ragioni dai pochi che hanno in mani il pallino.

E spesso, chi ha in mano il pallino, non si interessa della lunghezza della coda: gli basta che scodinzoli.

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