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Anything Goes. Il meeting di Comunione e Liberazione a Rimini



Queste sono le prime pagine di un saggio sul meeting di Comunione e Liberazione compreso in una raccolta dal titolo Una sterminata domenica. Saggi sul paese che amo, appena uscita per Il Mulino (16 euro). Gli altri undici saggi parlano della copertura mediatica dell’eruzione dell’Eyjafjallajökull, degli scrittori italiani alla Fiera del Libro di Guadalajara, di Panarea, di Radio Deejay, degli Elio e le Storie Tese, di Matteo Renzi, di Luciano Moggi, delle biblioteche italiane, del cestista Bob Morse e della TV degli anni Ottanta.


Da quanti anni non entravo in un posto in cui tutti credono in Dio?

Più di un quarto di secolo fa ho smesso di andare a catechismo, dall’atroce suor Romana e dall’adorabile don Stefano, e ho anche smesso di andare in chiesa, dove mia madre mi scortava con simulata convinzione una o due domeniche al mese. Nessuna crisi improvvisa. Qualcuno ricorda, se non proprio il giorno, il periodo della sua vita in cui ha smesso di credere in Dio, la folgorazione al contrario. Io non ricordo di averci mai creduto. Andavo dove mi dicevano di andare, facevo quello che facevano tutti i miei compagni di scuola, non davo nessuna importanza alla cosa. E come me quasi tutti gli altri. Più che non credere, non ci ponevamo seriamente il problema: c’era la breve tortura del catechismo, il venerdì pomeriggio, c’era la chiesa, la domenica mattina, ma l’uno e l’altra erano pieni di atei che non trovavano nessuna contraddizione tra il loro ateismo e la dottrina, o la messa. Così è probabile che il meeting di Comunione e Liberazione a Rimini sia stato, dopotutto, il primo e unico luogo da me visitato in cui tutti, nessuno escluso, credevano in Dio.

Questa unanimità – specie se uno non è tra gli unanimi – si avverte.

Il meeting di CL dura una settimana, l’ultima di agosto, ma se dipendesse dalla dedizione di chi lo organizza potrebbe durarne cinquantadue. In albergo faccio colazione insieme a due dei cuochi del ristorante trentino, uno dei cinque o sei ristoranti regionali (CL Trentino, CL Sardegna, eccetera) che si possono trovare al meeting. Lavorano dalle otto del mattino a mezzanotte, gratis, e lavorare significa svegliarsi alle sei e mezza, essere al palasport alle otto in punto, aiutare a scaricare le casse di carne verdura frutta che sono arrivate direttamente dal Trentino – «solo prodotti freschi, solo prodotti nostri» – e cominciare a cucinare, e cucinare tutto il giorno per centinaia di persone, e smettere soltanto dopo cena, a stand-ristorante chiuso, perché i cuochi devono anche aiutare a rimettere tutto a posto. Cioè, non devono, tecnicamente, nessuno qui deve fare qualcosa, tecnicamente: ma lo fanno.

Sara, la conoscente di conoscenti che mi ha fatto avere il pass per il meeting, e che è responsabile della sala VIP dello stesso ristorante (sì, c’è una sala VIP), lavora anche lei dalla mattina alla sera gratis, e in più si paga le spese di soggiorno a Rimini. E direi che questa è la regola per quasi tutti: i volontari sono volontari veri, come una volta alla festa dell’Unità, un vortice di volontari che approvvigionano, cucinano, apparecchiano, sparecchiano, puliscono, servono in tavola una scelta di sei menù, tutti abbordabilissimi, 12-22 euro, tutti perfettamente spiegati, con foto, nel pieghevole che si riceve all’entrata. Forse soltanto i nomi dei piatti sono un po’ leziosi, forse stonano un po’ in tanta ascesi Lo stinco di maialino da latte con la salsiccia arrostita, o La polenta di Storo e lo strudel di pasta fillo alle verdure, o Le casarecce al ragù di selvaggina con scaglie di Trentingrana, o – giuro – Le sottilissime di trota al fil di fumo dolce.

Sono lì lì per scandalizzarmi ma poi mi rendo conto che sarebbe ingiusto voler sentire in questa retorica da Gambero Rosso qualcosa di non veramente cristiano. Che cos’è che non andrebbe – questo grand-guignol di salsicce e stinchi di maialini da latte? O questo matrimonio tra fede e godimento celebrato con le parole del godimento, gli articoli davanti ai nomi delle pietanze, «un servizio attento e cordiale, l’esclusiva cucina dello chef Lorenzo Chillon, una nuova sala lounge con originali proposte di aperitivi ed uno speciale menù dedicato ai più piccoli» (pubblicità del caffè Pedrocchi, che «riapre le sue porte al Meeting di Rimini»)? In un posto dove in una settimana passa e mangia mezzo milione di persone l’unico modo per fare le cose è farle bene, e le parole quelle sono. Pacificato, opto per il Menù della Certezza, comprendente sformatino di zucchine su misticanza all’aceto balsamico, garganelli con pesto saporito di rucola e pomodorino cherry disidratato al sole, tenerezza di vitello con caponatina agrodolce, panna cotta al pepe lungo con coulis alla pesca, acqua, caffè, tutto per la miseria di quindici euro e cinquanta.

Uno può dire che tutta questa dedizione, tutto questo idealismo al servizio della causa ha un secondo fine, anche se non si vede. «Sì», mi dice un amico cinico mentre io gli descrivo le meraviglie di questa organizzazione su base volontaria, «ma tutti questi qui poi trovano lavoro con la Compagnia delle Opere, nel parastato, nei comuni, nelle province, nelle regioni amministrate da gente di CL. E comunque le aziende, i ristoranti, si fanno un mucchio di pubblicità». E probabilmente è così, sicuramente è così in un mucchio di casi. Ma quelli che ho incontrato io, soprattutto i giovani, mi sembravano davvero disinteressati.

Che poi ci sia un interesse anche nel disinteresse, un calcolo insomma, magari non portato a coscienza, anche in questo sacrificio, beh, sì, senz’altro: non c’è atto che non sia impuro. Ma non succede lo stesso in qualsiasi altro gruppo umano organizzato, specie se politico o para-politico? Bourdieu ci ha scritto sopra una biblioteca. Ma anche tenendo conto di tutte le obiezioni, di tutti i distinguo, l’impressione è forte: una gioiosa macchina da guerra, come il PDS del 1994 secondo Occhetto, quello polverizzato da Berlusconi. Per tutto il tempo mi sono rigirato in testa un verso di Fortini, «Ho detto grande il mondo, invincibili gli uomini». Solo che Fortini parlava della Cina di Mao.

E in effetti in tutto quello che mi vedo attorno tra il 25 e il 28 agosto del 2008 c’è molto di simile alla prassi e alla retorica della vecchia sinistra, salvo che qui decisamente non siamo a sinistra. «Avete le forze e i numeri per fare una rivoluzione», dico scherzando a un conoscente di conoscenti di CL che incontro nello stand della mostra su Leopardi. «L’abbiamo già fatta», mi risponde serafico, ed è una bella risposta, che io non ho cuore di sciupare con una richiesta di spiegazione: la rivoluzione cristiana, duemila anni fa? La rivoluzione cristiana di don Giussani? Il certamente rivoluzionario governo Berlusconi? Tutte e tre, probabilmente.

Qualche numero. 115 mila metri quadrati allestiti, 13500 metri quadrati di ristoranti, fast food, bar, 5000 metri quadrati per i bambini, 500 relatori, 150 tavole rotonde, 800 giornalisti accreditati. Un giornalaio interno, un teatro, un cinema, una ventina fra sale, salette, spazi per mostre, e un’aula magna grande come mezzo campo di calcio. Totale visitatori, 700 mila. Dati ufficiali, ma a occhio e croce non è come nei cortei di partiti: forse meno di 700 mila, ma non molto meno, con prevalenza di giovani e giovani famiglie con bambini.

È un fiume, una marea e – è la prima cosa che vi colpirà entrando al meeting, passeggiando tra gli stand, ascoltando le chiacchiere al bar – sono tutti molto allegri, tutti veramente contenti di essere qui. Il meeting, dice il pieghevole che raccolgo all’ingresso «è un grande evento sociale, una festa, un luogo dove si celebra la gloria terrena di un Dio creatore e amico». Questa gioia, questa euforia adolescenziale anche in chi adolescente non è più non si vede nei servizi televisivi, bisogna venire a Rimini per respirarla: ed è proprio così, come se «celebrare la gloria terrena di un Dio creatore e amico» non fosse un’iperbole ma la piana descrizione di quello che tutti, qui, stanno facendo: sono venuti alla festa di un loro amico che, per inciso, è anche il creatore del cielo e della terra. Come non essere euforici? Per non esserlo, bisogna non essere nella lista degli amici. Ed è per questo che, se siete atei, l’ebbrezza circostante vi contagerà, sì, ma solo dopo aver cambiato di segno trasformandosi in malinconia o, più precisamente, in magone: non è la vostra festa.

Per vendetta, ho speso metà del mio tempo a cercare in mezzo agli stand delle occasioni di raccapriccio e indignazione, cose assurde e ridicole da raccontare agli amici al mio ritorno, ma devo dire che alla fine non ho trovato granché. Non c’è niente di strano se in una festa di cattolici ci sono gruppi ultracattolici come quelli del Metodo Sintotermico Rötzer. «L’alternativa esiste!»: nove week-end sgranati su due anni durante i quali docenti qualificati «insegnano le basi biologiche, psico-sessuologiche ed etico-antropologiche della regolazione naturale della fertilità (RNF)», in un cammino che «passa attraverso l’auto-esperienza e l’educazione ad una concezione della procreazione responsabile in accordo con il Magistero della Chiesa».

E non c’è niente da ridere se lo stand del «Movimento per la vita» è sovrastato dalla scritta «Una risposta a tutte le tue domande»: se uno pensa di avere tutte le risposte lo dice, le dà. E davanti allo stand del Pio Albergo Trivulzio bisogna aver almeno passato i trent’anni per sorridere, per ricordarsi di Mario Chiesa e del Pio Albergo Trivulzio, di Mani Pulite e di tutto il resto. E sarebbe assurdo eccepire sulla vicinanza tra sacro e profano, lo stand dei salumi Vismara dietro lo stand «Vita e opere di don Bosco», o sulla virata verso il commerciale degli stand più periferici: Smart Sweeper la scopa rotante, i dolcetti siciliani, le forbici a cricchetto per tranciare il pollo e i surgelati, la Tobacco British che vende sigarette ma devolve parte dei guadagni alla lotta contro il cancro ai polmoni, Morellato quello dei gioielli, lo stand Honda con un pilota giapponese che firma le sue fotografie. È un gigantesco passaggio di gente, una gigantesca opportunità: le aziende pagano e sistemano il loro stand, come si fa in ogni fiera. In confronto all’atroce bazar che è diventata, mettiamo, la festa dell’Unità di Firenze, qui sembra di essere a Ginevra ai tempi di Calvino.

Un po’ di storia. È il ventinovesimo meeting di CL. CL nasce nel 1954 ma non si chiama ancora CL, si chiama Gioventù Studentesca (GS) e la fonda don Luigi Giussani, insegnante di religione al liceo Berchet di Milano. GS nasce, spiegherà Giussani, per combattere l’imperversante «totalitarismo culturale laico» (Comunione e Liberazione. Interviste a Luigi Giussani, a cura di Robi Ronza, Milano, Jaca Book 1976, p. 33). Totalitarismo culturale laico, detto a proposito dell’Italia degli anni Cinquanta, col monocolore DC, le madonne che piangono, i vescovi che benedicono tutto, anche le case del popolo, le mammane al posto delle cliniche, le donne in cucina e zitte – è probabilmente un po’ eccessivo. Uno può combattere contro quello che vuole, ma è un po’ puerile rappresentare se stessi nella parte di Davide quando si è sempre fatta la parte di Golia.

Nella mia scuola elementare post-Sessantotto e post-Settantasette la mia maestra – perfetta sotto ogni altro punto di vista – mi faceva cominciare la giornata col Padre nostro, sempre. E c’era il crocifisso sul muro, e il catechismo nel doposcuola, e tutti, tutti tranne il mio compagno protestante Daniele, segnato a dito come quello che non credeva alla Madonna, facevano religione in classe – non storia delle religioni: dottrina cattolica. No, l’Italia non ha mai vissuto un totalitarismo culturale laico. Può darsi che ci sia stata un’egemonia laica nell’editoria e nell’università, ma in basso, tra i non laureati e i non abbonati al catalogo Einaudi, le cose erano molto più sfumate.

Nel 1970 Gioventù Studentesca diventa Comunione e Liberazione. «Vincere la divisione e lo sfruttamento delle società capitaliste […]. Solidarietà attiva con le guerre di popolo per la liberazione nazionale dei paesi a regime coloniale, con le lotte per l’autodeterminazione dei popoli di tutti i paesi del terzo mondo e coi movimenti di liberazione delle minoranze nazionali oppresse» (citato in Salvatore Abbruzzese, Comunione e liberazione, Bologna, Il Mulino 2001, p. 68). Questo sembra, ma non è, il programma politico di Democrazia Proletaria. È invece il programma politico di CL nel 1974. Certo i tempi cambiano, si nasce incendiari e si muore pompieri, ma il salto da questo manifesto anticapitalista, il salto da un’affermazione come «noi siamo chiaramente contro il capitalismo e per la transizione verso una società non più fondata sulla divisione e sul profitto» (Comunione e Liberazione cit., p. 135) ai cori per Berlusconi durante il meeting del 2007, mentre il poveretto si toccava la nuca e diceva «però guardate che risultato», alludendo al trapianto – il salto è notevole.

Nel 1975 nasce quello che nei libri di storia che ho sottomano (quasi tutti scritti da studiosi di sinistra, tutti piuttosto crudeli con CL) si chiama il ‘braccio politico’ di CL, il Movimento Popolare (MP). Il Movimento Popolare «si pone come strumento di presenza nella società, contro la eliminazione del soggetto cristiano dalla scena pubblica e a favore della riprese delle opere del movimento cattolico» (dal sito www.clonline.org). Nello stesso anno, Paolo VI incontra Giussani e gli dice «Questa è la strada, vada avanti così». Nel 1978 nasce «Il Sabato», il settimanale di CL (chiuderà nel 1993).

Nel 1980 viene organizzato il primo meeting di CL, per iniziativa di una decina di militanti trentenni, «in una pizzeria di Rimini» (così Abbruzzese, Comunione e liberazione cit., p. 95). Nel 1983 Giussani viene creato monsignore da papa Giovanni Paolo II. Nel 1986 nasce la «Compagnia delle Opere», che dal 1993 prende il posto del Movimento Popolare («stremato dalle ambiguità e dalla durezza della lotta politica di quegli anni» [sito di CL]). Giussani muore nel 2005. Alla presidenza di CL lo sostituisce Julián Carrón.

Oggi CL è, vista da dentro (www.clonline.org), «un movimento ecclesiale il cui scopo è l’educazione cristiana matura dei propri aderenti e la collaborazione alla missione della Chiesa in tutti gli ambiti della società contemporanea»; vista da fuori (Gad Lerner, «La Repubblica», 28 agosto 2010), «una chiesa privata, ben sintonizzata con gli umori della destra italiana e dominata dall’affettuosa confidenza con banchieri e imprenditori». La Compagnia delle Opere è, vista da dentro, «un’associazione senza fini di lucro» che promuove «lo spirito di mutua collaborazione e assistenza per una migliore utilizzazione di risorse ed energie, per assistere l’inserimento di giovani e disoccupati nel mondo del lavoro, in continuità con la presenza sociale dei cattolici e alla luce degli insegnamenti del Magistero della Chiesa»; vista da fuori, è «una superlobby che vota a destra» (Enrico Arosio, La Confindustria di CL, in «L’Espresso», 26 maggio 2000).

Gli aderenti a CL o alla CDO, visti da dentro, sono «donne e uomini impegnati a vivere nel presente l’esperienza cristiana propria della Tradizione»; visti da fuori (Yahoo! Answers – Chi sono questi ciellini?), sono «come le piante carnivore: all’inizio presentano fiori con una corolla brillante e pistilli pieni di zucchero, poi, afferrata la preda, la imprigionano per digerirla meglio; se non ci riescono la sputano fuori, altrimenti… Buon appetito!». E il successo impressionante di CL e della CDO in Italia e nel mondo è, visto da dentro, il frutto dello zelo, della devozione e del personale disinteresse dei suoi aderenti; visto da fuori, è il prodotto dell’applicazione in ogni settore della vita associata del principio che sembra governare la Sanità lombarda: «Accontentiamoci. Continuiamo a piazza’ obbiettori de coscienza dappertutto, che a quelli je famo fa’ ccarriera, a quell’artri no, e va bbene così» (Corrado Guzzanti, alias don Florestano Pizzarro).

(continua)

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