«Lo vedi? Eh? Lo vedi il Bangladesh?», e punta il dito sulla cartina, non precisamente sul Bangladesh ma sul mare un po’ più in basso, picchietta il dito sul Golfo del Bengala. Ci siamo incontrati mezzo minuto fa, in Italia ci daremmo del lei, a Parigi ci daremmo del lei, ma qui no, qui è tutto così svaccato, l’aria della sera è così calda e appiccicosa da far sembrare ridicolo qualsiasi ossequio alle convenzioni, una fatica sprecata. L’impressione è che, trascinati dal clima e dalla distanza da casa, nei prossimi cinque minuti potremmo anche abbracciarci, oppure metterci le mani alla gola. «Lo vedi? Il Bangladesh è proprio il buco del culo del mondo. Queste sono le chiappe», picchietta sull’India e sull’Himalaya, ma voleva picchiettare sulla Birmania. «Ecco, ecco la costa che rientra… E sai qual è la cosa divertente? Che il Bangladesh cià anche il puzzo del buco del culo, senti no? Cioè, è proprio il buco del culo del mondo…». L’uomo che mi sta parlando è un cinquantenne tarchiato, calvo, con una faccia simpatica che assomiglia un po’ a quella di Arrigo Sacchi, e anche il piglio, il fare sbrigativo è lo stesso, solo l’accento è diverso, piemontese come il mio. L’uomo che mi sta parlando – come quasi tutti gli invitati a questo barbecue in cui mi hanno imbucato, e come buona parte degli italiani che lavorano in Bangladesh – «è nel garment».
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