[Domenicale del Sole 24 ore, 31 marzo 2013]
«La storia – dice un verso di Fortini – ha un modo di ridere che è ripugnante». Tra le smorfie più interessanti c’è questa: le belle idee libertarie degli anni Sessanta che accennano a realizzarsi oggi ma in un modo stravolto, come in una parodia. La metamorfosi della parola stessa libertà, da una brutta poesia di Éluard al nome di un partito di estrema destra, è il primo esempio che viene in mente, e non si può fare a meno di chiedersi se questa metamorfosi corrisponda a uno snaturamento, a una trappola verbale simile a quelle fabbricate dalla neolingua di Orwell, o se invece la metamorfosi non abbia fatto che adempiere, che tradurre in atto tutto ciò che in potenza era racchiuso nella concezione originaria. Le due cose insieme, probabilmente.
Alle parole scuola e istruzione è successo – o meglio sta succedendo o sta per succedere – qualcosa di ancora più traumatico e complicato, e anche di più interessante.
Sulla scuola sono tutti d’accordo. Bisogna finanziare la scuola, difendere la scuola, investire sulla scuola. È l’unico argomento sul quale il dibattito non procede per contrapposizione di tesi ma secondo quella particolare specie di climax che è tipica del linguaggio infantile: ‘sempre uno più di te’. Più soldi, più spazi, più ore. «Chiudere le scuole solo per un mese d’estate», propone la destra. «No, tenerle sempre aperte, anche a ferragosto», rilancia la sinistra. Un velo d’oblio sembra essere caduto sul fatto che c’è stata un’epoca, grossomodo coincidente col terzo quarto del secolo scorso, in cui ciò che una parte del pensiero di sinistra voleva era precisamente il contrario rispetto a ciò che il pensiero di sinistra propone oggi: descolarizzare la società.
Ora, è probabile che a un lettore italiano questo progetto faccia tornare alla memoria uno degli ultimi articoli pubblicati da Pasolini, quello in cui Pasolini avanzava Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia, proposte che lui stesso definiva swiftiane, cioè utopistiche e umoristiche: abolire la televisione e abolire la scuola media dell’obbligo. È probabile che un lettore italiano di oggi non abbia ben chiaro il fatto che una proposta di quel genere era perfettamente integrata al dibattito sulla scuola e sulla descolarizzazione che si era svolto negli anni Cinquanta e Sessanta soprattutto negli Stati Uniti. Si può dire anzi che fosse una proposta ormai tardiva, dato che Deschooling Society è il titolo di un saggio e di una raccolta di saggi pubblicata da Ivan Illich nel 1971; e dato che il principale ispiratore di Illich, Paul Goodman, aveva parlato di descolarizzazione già negli anni Cinquanta: «L’istruzione rappresenta ormai la voce principale della spesa pubblica […]. Sarebbe meglio stornare una bella quota dai fondi riservati all’istruzione per offrire ai giovani un accesso diretto al mondo reale (ci sono decine e decine di possibilità in questo senso: apprendistato, viaggi, lavoro in comunità, opere di conservazione, assunzione temporanea in laboratori, in studi di progettazione, teatri e studi televisivi…). Particolarmente inutile si rivela l’istruzione medio-superiore […]. È necessario ridurre drasticamente la durata dell’istruzione scolastica» (Educazione e rivoluzione, Edizioni dell’Asino 2010).
Goodman non pensava che fosse necessario abolire la scuola: pensava che fosse opportuno che di scuola ce ne fosse di meno; e pensava che la scuola dovesse essere più libera, flessibile e anti-autoritaria rispetto a quella che aveva sotto gli occhi. La posizione di Illich era più radicale, anche perché l’ambiente a cui Illich pensava non era l’America delle città ma il Messico rurale: dove la scuola assomigliava davvero a un dispositivo il cui solo scopo era quello di ratificare l’esistenza delle caste. Il titolo che è stato dato al suo saggio nella prima traduzione italiana, Distruggere la scuola, è un piccolo abuso rispetto all’originale, ma non lo fraintende.
Le questioni di fondo sollevate da Goodman e Illich sembrano tornare a galla oggi nel dibattito sulla scuola. Angelo Gaudio ha da poco raccolto, con un’ottima prefazione, alcuni scritti di Illich (Illich. Un profeta postmoderno, La Scuola 2012). Di Goodman si è occupata più volte la rivista Gli Asini, che raccomando caldamente (anche online: www.gliasinirivista.org). E ora esce per il Mulino un saggio di Norberto Bottani, Requiem per la scuola?, che a Illich fa più volte riferimento con una certa simpatia.
Troppa?
Il problema, con i saggi che invocano la descolarizzazione, è che mentre tutte le critiche che muovono alla scuola sono ragionevoli e condivisibili, il rimedio che propongono sembra non solo impraticabile a meno di una rivoluzione, ma anche di molto incerta efficacia. E se poi, una volta chiuse le scuole, le cose vanno peggio di adesso? «Purtroppo – scrive Bottani – non ci sono indagini che permettano di verificare scientificamente la validità della teoria di Illich». Ma la verifica di questa teoria (che non definirei «complessa e documentata» come fa Bottani) richiederebbe un’operazione di ingegneria sociale della quale nessuno né vorrà né potrà rendersi responsabile. Semmai, quello che possiamo «verificare scientificamente» non è ciò che resta dopo che le scuole sono state chiuse ma ciò che c’è quando le scuole non sono ancora state aperte, e per questo basta fare un giro nelle periferie di Kinshasa o di Dacca: lo spettacolo non è confortante. Non è questione di scolarizzazione ma di distribuzione del reddito? Anche questo, certo, ma è probabile che tagliare il budget per l’istruzione di base non sia il primo passo da compiere.
Questo non per dire che i dubbi sul Sistema non sono legittimi: lo sono eccome, ed è un’ottima cosa che Bottani contribuisca a rimetterli in circolazione. Ma una volta che uno accetti di starci dentro, al Sistema, non c’è altro da fare se non analizzarlo, per vedere se e come funziona, e avanzare proposte sensate sul modo di riformarlo.
Quanto all’analisi, è difficile trovare un esperto più esperto di Bottani, che si è occupato per tutta la vita di scuola, sia come funzionario all’OCSE sia come studioso (a parte i libri, sono sue alcune delle migliori voci enciclopediche dedicate alla scuola, alcune delle quali si leggono in www.treccani.it; e il suo sito www.oxydiane.net è una vera miniera). Dati alla mano, Bottani constata che la scuola pubblica italiana (ma il resto del mondo non se la passa meglio) non riesce a garantire ai cittadini «il conseguimento, alla fine dell’istruzione scolastica obbligatoria, di una base comune di conoscenze e competenze». Vale a dire per esempio che molti italiani, usciti dalla scuola dell’obbligo, sanno a malapena leggere e faticano «a reperire in una pagina scritta un’informazione esplicita». Ciò non significa che la scuola non serva. Serve, ma serve soltanto a una parte della popolazione, mentre a pagarla sono tutti i contribuenti. Inoltre, aggiunge Bottani, «le disuguaglianze iniziali rispetto all’istruzione, invece di calare, con la scolarità prolungata si accentuano».
Che fare, allora, per arginare questa valanga di ingiustizie?
E qui, su questa domanda, di solito ci si arena, perché sulla scuola nessuno sa bene che pesci prendere. E lo si può capire: perché decidere cosa e come insegnare a scuola è un po’ come decidere (per conto terzi) come vivere la vita: l’indecisione è segno d’intelligenza. «So io come fare!» è una frase che, in questa materia, nessuna persona di buon senso ha il coraggio di dire.
Anche Bottani, comprensibilmente, esita, e le sue stesse esitazioni – il suo ragionare ad alta voce, diciamo – sono istruttive. La proposta che affiora più spesso nel saggio e negli altri suoi contributi è quella in favore di un maggiore decentramento: «si hanno prove documentate che se le scuole diventano autonome e responsabili i risultati scolastici degli studenti sono migliori». È una questione cruciale, tanto quanto quella che riguarda le modalità di reclutamento degli insegnanti, su cui Bottani invece non si sofferma: su entrambe è urgente che si discuta, e che si decida. Anche perché fuori dalla scuola il mondo va a velocità supersonica, ed è forse vicino il giorno in cui l’iniziativa nel campo dell’istruzione passerà, dagli stati nazionali, al world wide web. Bottani accenna soltanto a questo tema, che invece è ben presente nel suo sito, ma un cenno non basta, perché qui si chiude il cerchio, e internet sembra essere sul punto di realizzare – in un modo, come dicevo, stravolto, quasi parodico – i sogni di descolarizzazione sognati nel dopoguerra.
In un saggio del 1971, Come educare senza scuola, Illich sosteneva che un buon sistema educativo doveva mirare a tre scopi: permettere a tutti coloro che vogliono imparare di avere accesso al sapere in qualsiasi momento della loro vita; permettere a coloro che vogliono condividere con gli altri ciò che sanno di incontrare coloro che vogliono imparare; fornire a tutti coloro che vogliono sottoporre un problema al pubblico i mezzi adatti a farlo. In questo modo, osservava Illich, «coloro che vogliono imparare non sarebbero costretti a sottomettersi a un ciclo obbligatorio, non subirebbero discriminazioni a seconda che siano o meno in possesso di quel tale certificato o diploma. Il pubblico non sarebbe più costretto a finanziare, attraverso imposte regressive, un enorme apparato di educatori e di edifici […]. Si dovrebbe utilizzare la tecnologia moderna per rendere la libertà di parola, di assemblea e di stampa realmente universale e quindi pienamente educativa». La «tecnologia moderna» erano, nel 1971, programmi TV culturali preregistrati e mangianastri su cui «gli alfabetizzati e gli analfabeti potrebbero registrare, conservare, diffondere e ripetere ogni sorta di opinione». E concludeva: «utilizzerò la parola rete per designare i mezzi specifici che permettano l’accesso a ciascuna serie di risorse».
Dev’essere suonata un po’ folle, deve aver fatto molto sorridere, nell’anno 1971, questa fantomatica, velleitaria rete di auto-apprendimento.