[Between (www.Between-journal.it), II 4 (2012)]
«I romantici europei possono anche lodare l’incanto dei luoghi deserti e selvaggi, ma sanno che per loro si tratta al massimo di una passeggiata di poche ore fino a una comoda osteria: possono celebrare le gioie della solitudine, ma sanno che in qualunque momento possono far ritorno al tetto familiare o in città, e che laggiù, nel frattempo, cugini, nipoti zii e zie, club e salotti continuano la solita vita esattamente come quando li hanno lasciati. Il vero deserto, la solitudine che non conosce rapporti duraturi da coltivare o da respingere, non riescono nemmeno a concepirlo».
(W.H. Auden, «Lo scudo di Perseo»)
1. Tra gli ingredienti che formano la vita umana, Michael Oakeshott distingueva i processi dalle pratiche. I processi li governa la natura: la nascita, l’invecchiamento, le malattie, la morte, i terremoti, la pioggia, la forza di gravità. Gli esseri umani possono cercare di influenzarli, di difendersi da loro, ma per lo più li subiscono, e nessuno ne è esente. Le pratiche risultano dalle decisioni e dalle azioni degli esseri umani: l’amore, l’amicizia, l’odio, l’invidia, la vendetta, il perdono. Posta questa distinzione di massima, è chiaro che il romanzo è soprattutto una riflessione sulle pratiche, cioè su ciò che è proprio di un particolare essere umano o gruppo umano, distinto da ogni altro, e sulle relazioni che tra gli umani si intrecciano: i processi naturali fanno da sfondo. Nella Morte di Ivan Il’ic di Tolstoj, poniamo, lo sfondo – la naturalissima morte di Ivan Il’ic, uguale a tutte le altre morti – è importante, ma lo è di più il modo in cui Ivan Il’ic ha vissuto la sua vita insieme agli altri uomini, e quel modo rimanda a un insieme di pratiche.
Gente indipendente di Halldór Laxness (traduzione di Silvia Cosimini, Milano, Iperborea 2004) è un’eccezione. In Gente indipendente, infatti, la forza dei processi naturali è preponderante, imparagonabile a quella che ha in qualsiasi altro romanzo moderno; e quelle pratiche che risultano dall’interazione fra gli esseri umani, e che formano di solito l’impalcatura dei romanzi, hanno un ruolo secondario. Gente indipendente non è tanto la storia della vita del povero allevatore di pecore Bjartur, quanto la storia della sua sopravvivenza al freddo, alla fame e alle malattie. La storia di una vita presuppone cambiamento, crescita. Mastro-don Gesualdo, un anti-eroe letterario che nella sua abnegazione e nel suo morboso attaccamento alla roba ha più di una somiglianza con Bjartur, nasce povero ma diventa ricco: evolve. La storia di una sopravvivenza invece è statica: in sostanza si tratta di tenere duro, e basta. Le seicento pagine di Gente indipendente parlano soprattutto di questo, di come Bjartur tiene duro. Se uno cerca un libro che preservi in sé, secondo il precetto di Adorno, «la memoria del dolore accumulato», può smettere di cercare.
Il giovane Bjartur – né padre né madre, niente che lo colleghi a qualcosa o a qualcuno, un uomo e basta – compra a credito un vecchia fattoria in una zona sperduta della campagna islandese e vi si stabilisce con la moglie. Mette al mondo dei figli, alleva pecore, una mucca. In condizioni diverse, a una latitudine diversa, in un’epoca diversa, questi avrebbero potuto essere gli ingredienti di un idillio. Nell’Islanda di fine Ottocento no. Il ménage famigliare è quello delle società tribali. Bjartur sposa una donna che non ha mai visto prima, una donna che imparerà a temerlo e a odiarlo già dalla prima notte. Dei quattro figli, due lo abbandoneranno, salvo riavvicinarsi anni dopo, nel finale del racconto; uno se ne andrà in America; il quarto, persosi nella brughiera, morirà. In una scena memorabile, Bjartur ne ritrova il cadavere dopo il disgelo, seguendo il volo dei corvi. Sulle prime non lo riconosce: «Era il corpo magro di un ragazzo che era rotolato fin qui dalle rocce chissà quando durante l’inverno». Una volta compreso che quello è il corpo del figlio, la sua reazione è questa: «L’osso del naso era scoperto e la bocca rideva senza labbra al cielo, gli occhi strappati, gli stracci intorno al corpo così marci che la putredine era penetrata fin nelle ossa. Così era questo che cercava, il rapace, non era certo una bella scena – l’uomo lo toccò una volta o due col suo bastone, scacciò il cane e mormorò: Ognuno fa la fine che si merita, e aspirò una generosa presa».
Persi i figli, perse le due mogli, Bjartur si ritroverà padrone della fattoria e liberato dai debiti ma solo, più solo di Linda Loman nel finale di Morte di un commesso viaggiatore: «Così perse il suo ultimo figlio, mentre se ne stava giù in fondo a una chiassaiola, proprio quando era arrivato quasi a vincere quella lotta per l’indipendenza che gli era costata tutti gli altri suoi figli, adesso che il benessere e la piena sovranità gli si delineavano davanti». Infine, l’Islanda non è l’Arcadia. Le pecore muoiono d’inedia e di vermi, o uccise per capriccio dai demoni che vivono nella brughiera; la mucca l’ammazza lo stesso Bjartur, per pura stupidità. Il freddo fa il resto. A dispetto di ogni idealizzazione romantica, e a dispetto della retorica islandese sulla virtuosa vita rurale (quando il romanzo apparve, nel 1935, molti si offesero per il modo brutale in cui questa vita veniva rappresentata), la natura descritta da Laxness è sempre nemica, e chi ci abita in mezzo non ha occhi per vederla bella. «Adesso capisco perché la valle è così bella», dice un visitatore di passaggio ad Ásta Sólillja, l’unica figlia femmina di Bjartur. Lei rimane interdetta: «La valle bella? A lungo dopo si scervellò su questa frase. Che cosa aveva voluto dire? Lei aveva spesso sentito parlare di bella lana e bel filato, e soprattutto di belle pecore – ma la valle?».
2. Com’era la vita cinquecento anni fa? E mille? E duemila? Risposta: ce lo dice la letteratura, ce lo dicono Ariosto, Dante, Omero. Ma non è del tutto vero. Nei loro libri, Ariosto, Dante e Omero non ci parlano della vita quotidiana, la vita comune del loro tempo, bensì d’individui eccezionali in situazioni eccezionali. Non del mugnaio o del contadino ma dell’eroe; non dell’eroe a riposo, nella quiete della casa, ma dell’eroe in azione, nella foresta o sul campo di battaglia. È raro che l’ordinario, l’esperienziale, sia materia di racconto. È per questo che ci commuovono tanto i paragoni ‘domestici’ della Commedia, quelli in cui Dante mette a confronto cose strane come quelle che si vedono nell’aldilà con cose famigliari come una mensola intagliata, o le pecore che escono dallo stabbio: ci commuovono, perché nella letteratura premoderna questi spiragli sugli aspetti più minuti, concreti della vita si aprono di rado. Leggendo i romanzi di Philip Roth, lo storico futuro potrà farsi un’idea abbastanza attendibile di come si viveva in Occidente alla fine del ventesimo secolo; leggendo i romanzi di Chrétien de Troyes, o lo stesso Boccaccio, noi non riusciamo a vedere la loro epoca con altrettanta chiarezza. Per questo, in linea di massima, i libri su La vita quotidiana nella Roma antica, o nel Medioevo, cercano altrove le loro fonti, i dati per le loro congetture.
Gente indipendente si svolge tra la fine dell’Ottocento e gli anni della prima guerra mondiale, ma le esistenze dei personaggi che popolano il romanzo sono così semplici, così povere di cose, relazioni, idee, che non si esagera se si dice che Gente indipendente ci permette di gettare uno sguardo su una qualsiasi vita islandese – forse su una qualsiasi vita scandinava – prima dell’età dell’automazione. È l’anno 1900, ma con poche rettifiche, poche sottrazioni, potrebbe essere l’anno 1700, o l’anno 1500, o più indietro ancora. A un centinaio di chilometri a est di Reykjavík, oggi il turista può visitare la fattoria di Stöng, che venne sepolta dalle ceneri del vulcano Hekla durante l’eruzione del 1104. «Dissotterrata dagli archeologi, l’ampia capanna dell’XI secolo venne ricostruita e posta in questa valle protetta […]; visitandone l’interno ci si potrà fare un’idea di come nacque l’Islanda» (Guida Bradt dell’Islanda). Di fatto, ci si può anche fare un’idea del genere di vita vissuta da Bjartur e dai suoi figli nella fattoria immaginata da Laxness. Il tetto di torba e di erba, i muri senza finestre («Se è di luce solare che hai bisogno, fuori ce n’è quanta ne vuoi»), gli stabbi per gli animali accanto alla stanza in cui dorme e mangia la famiglia – sono condizioni, sono consuetudini che, nella sostanza, i secoli che separano Bjartur dai primi coloni dell’Islanda non hanno veramente cambiato.
Leggere Gente indipendente significa così entrare nella macchina del tempo ed essere catapultati nel mondo prima della civilizzazione: il fascino di questo grande romanzo deriva anche dalla sua forza di documento. Non che sia un documento interamente obiettivo. Mary Young, una ragazza au pair che visita il paese nel 1936, scrive alla sorella in Inghilterra raccomandandole di leggere Laxness, ma precisa che Laxness «descrive soltanto il lato più brutto della vita in Islanda» (Letters from Iceland 1936, University of Birmingham 1992, p. 12). La descrizione che lei dà della vita sull’isola e del lavoro nei campi è in effetti molto più serena: «Ieri doveva essere martedì. Ora c’è una luce bellissima su quell’ampio, latteo torrente, e lo Snæfell è blu come inchiostro blu (o carta), e bianco fino a valle, a sud, e c’è sempre e solo il suono della corrente e del vento. C’è stato un acquazzone, oggi, così ho letto una saga che parla di quest’area, finché era abbastanza asciutto per sarchiare e imballare il fieno». Ecco l’idillio che cercavamo, bastava cambiare sguardo. Mentre è vero: c’è, al fondo di Gente indipendente, l’intenzione di smitizzare, di ridicolizzare l’ideale islandese del piccolo proprietario indipendente, del solitario colonizzatore di terre. Al suo posto, Laxness vorrebbe il socialismo. Anche per questo la rappresentazione della miseria spirituale e materiale dei personaggi è così cruda: solo l’unione delle forze – vuol suggerire Laxness – può avere la meglio su una natura così soverchiante. Ma il fatto che la visione sia parziale non implica che le cose viste, le cose raccontate da Laxness fossero frutto di fantasia (i trent’anni che separano Mary Young dai personaggi di Laxness devono aver reso molto meno povera e faticosa la vita islandese), e uno dei piaceri che si provano leggendo Gente indipendente è proprio il piacere del raccapriccio, il tipo di piacere che si prova guardando una di quelle docufictionsui sopravvissuti di un disastro aereo sulle Ande, o nel deserto dei Gobi: non essere lì, non essere come loro, vederli soffrire, domandarsi che altro gli può succedere, e come faranno a cavarsela – è quasi voyeurismo.
E così, leggendo, il voyeur annota, mette insieme il suo piccolo campionario d’orrori. Case come scatole di legno coi tetti in lamiera, piene di muffa, funghi, spifferi; conversazioni sulla tenia e il vermocane anche ai battesimi e ai funerali, come se la tenia e il vermocane fossero gli unici argomenti degni di discussione (e probabilmente lo erano); conversazioni sul tempo, opinioni infondate, assurde sul tempo, e tanto più radicate quanto più assurde; morire di parto, dissanguate; morire a due anni non si sa di che cosa; sposare gente che non si è mai vista; avere come giochi, da bambini, soltanto le ossa delle pecore; avere sempre freddo, anche d’estate; passare l’inverno con porte e finestre sbarrate, l’aria malsana, il buio perenne; il pavimento in terra battuta, il fango in casa, il fango nel letto, la pioggia che sgocciola dalle travi; dormire su materassi di torba secca; dormire con le pecore (tanto «in un certo senso uomini e pecore sono una cosa sola»); la paura del buio, dei fantasmi, dei troll, dei santi cristiani diventati demoni, di Satana, ma più di tutto sempre e comunque il terrore di Dio; l’obbligo di restare vergini fino al matrimonio, le molestie dei padri sulle figlie, i bastardi esposti nella neve; i calci e i pugni alle mogli; essere già vecchi a quarant’anni, essere rimbambiti a quarantacinque, passare dalla giovinezza alla vecchiaia nello spazio di qualche mese («Solo un anno prima era una ragazza dalle guance rosse che la sera si lavava e indossava gli abiti migliori. Improvvisamente era diventata una donna consunta vestita di vecchi stracci di iuta, floscia in volto e grigia, il luccichio le era sparito dagli occhi, il colore dalle guance, la grazia dalle movenze»); credere nei sogni e sognare la carne, il latte; mangiare pesce di scarto, bere caffè annacquato, farsi durare una zolletta di zucchero per una settimana, fare un pasto al giorno, due nelle feste comandate, una bistecca due volte l’anno; l’olio di fegato di merluzzo al posto del latte per i neonati; i ricchi che sputano per terra in casa dei poveri; annegare nel fiume, annegare in mare; le figlie femmine come una maledizione; i pidocchi sempre, in tutte le stanze, su tutti i vestiti; non parlare a nessuno per giorni, per settimane; vedere, nella vita, non più di cinquanta persone; vivere in un’isola e non aver mai visto il mare; morire di tisi, morire di freddo persi nella brughiera; avere i denti neri per il tabacco, la faccia dei bambini blu per la scrofola, dormire in quattro sullo stesso tavolaccio, fare cinque figli e vederne morire tre, mangiare l’erba perché non c’è altro da mangiare, avere l’orticaria cronica, la tosse cronica, il mal di denti cronico, l’aerofagia cronica, lavarsi solo a Natale, smettere di lavarsi quando si diventa vecchi…
La cosa che commuove di più, in questa catena di privazioni, è che si tratta di condizioni di vita che Bjartur e i suoi accettano come normali. L’unico che abbia sogni che vadano al di là della fattoria nella brughiera è l’ultimogenito Nonni, che infatti partirà per l’America. Tutti gli altri sopportano in silenzio. Ciò ha l’effetto di far risaltare meglio, in questo abisso, le piccole gioie effimere che rischiarano la vita. Un pescatore di passaggio con la sua tenda viene accolto dai figli di Bjartur come il salvatore appena sbarcato sull’isola deserta; Ásta Sóllilja, ormai adolescente, vede per la prima volta in vita sua il mare; un libretto di poesie di Ossian diventa per Ásta Sóllilja un confidente e un conforto: «Quello che più le toccava il cuore, il profondo del cuore, e la riempiva di un’emozione primordiale, tanto da sentire di poter abbracciare tutto, erano versi sul dolore che nasce nel cuore quando i sogni non si sono avverati, e sulla bellezza di questo dolore. La poesia sulla nave che sta adagiata in riva al mare freddo d’autunno, quella era la sua poesia; e sull’uccello che cerca di acquattarsi in qualche riparo, implume, anche lui in autunno, che si affanna nel maltempo e ha perso il canto e la via […] – tutto questo lei lo comprendeva bene». Ma sono attimi. Il pescatore parte subito, e non tornerà più. Ossian parla di amori dei quali Ásta Sóllilja non farà esperienza. L’inverno ricomincia.
3. Gente indipendente è l’epopea di un uomo solo, ma la verità è che non ce ne accorgiamo mai, perché Bjartur non ci appare mai veramente come un uomo. Bjartur non ha interessi diversi dalle sue pecore, perché le pecore gli sono necessarie per sopravvivere; non ama nessuno, non ha amici, non ha, non sembra avere quella minima attitudine alla riflessione su di sé mancando la quale, secondo il detto di Socrate, la vita non merita di essere vissuta. Programmato per resistere, non sembra avere desideri e paure che possano definirsi umane. Tutta la sua vita spirituale si riassume in poche massime di piombo come «Le femmine sono da compatire più degli esseri umani», o «La gente vale meno del letame, quando ci sono annate difficili», o «Niente è tanto spietato quanto la vita umana», o «Il più forte è chi resta solo. Uno nasce solo. Uno muore solo. Perché allora non dovrebbe anche viverci, solo?». Laxness ci fa entrare nella mente torpida, buia, di un uomo del genere: è difficile trovare un altro romanzo in cui un esperimento simile venga portato avanti tanto a lungo e con tanto rigore.
Ora, l’elogio della solitudine è un luogo comune umanistico del quale non è difficile avvertire il fascino specialmente oggi, nelle nostre vite troppo concitate. Non bisogna essere dei misantropi per lasciarsi sedurre, e magari convincere, da queste frasi di Thoreau: «Trovo salutare restar solo per la maggior parte del tempo. Essere in compagnia, anche dei migliori, provoca subito noie e dispersioni. Amo restar solo […]. Per la maggior parte, noi siamo più soli quando usciamo tra gli uomini che quando restiamo in camera nostra». Ma la solitudine di cui gli intellettuali come Thoreau o come Orazio fanno l’elogio è, appunto, la solitudine agiata degli intellettuali, è l’Arcadia dei poeti classici: e non è una solitudine imposta, è una solitudine scelta, e la scelta è temporanea e sempre revocabile: Thoreau vive un paio d’anni nella sua capanna sul lago ma poi torna in città e muore nel suo letto, nella casa dei genitori. Nonostante le fatiche e le privazioni, Walden è un libro che ispira serenità, Gente indipendente si legge con pena. Thoreau è libero, Bjaltur ha moglie e figli. Thoreau vive in un bosco sul lago, Bjaltur nel deserto di lava dell’Islanda meridionale. Ma soprattutto: Thoreau sa, pensa, studia; Bjaltur a malapena sente, e reagisce alla vita come si reagisce a uno schiaffo: stringendo i denti o colpendo a sua volta – e i colpiti sono i figli, la moglie, gli animali. Bjartur è solo per necessità, non per scelta: «uscire tra gli uomini», per lui, non è un’opzione. E la sua solitudine non si può alleviare con la lettura, o la scrittura, o la meditazione, o la preghiera. In Gente indipendente non c’è spazio nemmeno per la religione: non ci sono né gli dei pagani né il cristianesimo; c’è solo quella variante degradata della coscienza religiosa che è la superstizione, e i suoi agenti sono il «popolo nascosto» dei demoni e dei troll, e sopra tutti il perfido Kolumkilli, cioè un san Colombano passato al filtro del paganesimo. Bjartur crede alla loro esistenza, come tutti; ma li sente nemici: combatte, e perde, anche contro di loro. La solitudine di Bjartur non è il riflesso della sua diffidenza nei confronti della civiltà: è il riflesso del suo non essere mai stato civilizzato. Thoreau e Bjaltur vivono la medesima lotta contro la natura e la solitudine, ma Walden è una reazione momentanea alla civiltà,Gente indipendente è il resoconto di ciò che precede la civiltà.
C’è del buono, in questo stato selvaggio, in questa vita fuori dalla storia? È interessante leggere Gente indipendente tenendo sullo sfondo certi libri che sostengono precisamente questa opinione, che la strada della virtù sia quella che porta lontano dalla civiltà, libri come l’Emilio o il Werther. Werther rimpiange l’ingenua bontà del popolo, non contaminato dalla falsa saggezza dei libri: «Questo amore, questa devozione, questa passione non è affatto un’invenzione poetica… Tutto ciò vive, si trova nella sua massima purezza fra quella gente che noi chiamiamo ignorante, gretta. Noi, persone educate… Deformate dall’educazione!». Allo stesso modo, Rousseau raccomanderà ad Emilio la lettura di un solo libro, Robinson Crusoe, «il solo libro che insegna tutto ciò che i libri possono insegnare». Gente indipendente illustra la deformità opposta, quella prodotta non dall’educazione e dall’agio bensì dalla povertà, dall’ignoranza e, soprattutto, da quell’atroce autodisciplina che la povertà e l’ignoranza impongono a coloro che ne sono vittime. I lussi dell’educazione producono, secondo Werther, una corrosiva rilassatezza. Ma l’autodisciplina del povero e dell’ignorante paga il prezzo della crudeltà, su se stesso e sugli altri. E la mancanza di educazione rende impossibile ogni rapporto umano: Bjartur tratta male anche chi vorrebbe fargli del bene. No, non c’è assolutamente nulla di buono, secondo Laxness, in questo stato selvaggio. «Crusoe – ha scritto Ian Watt in Le origini del romanzo borghese – trasforma la sua proprietà abbandonata in un trionfo […]; è per questa ragione che il suo fascino è così forte per tutti coloro che si sentono isolati (e chi talvolta non si sente tale?). Una voce interiore ci suggerisce continuamente che l’isolamento umano in cui l’individualismo ci ha posti è penoso e tende, alla fine, verso una vita di animalesca apatia e di sconvolgimento mentale. Defoe ci risponde fiduciosamente che la solitudine può essere l’arduo preludio alla più piena realizzazione di ogni nostra potenzialità». Ebbene, Gente indipendente dà forza precisamente a quella voce interiore che ci ammonisce non in favore ma contro la solitudine. Laxness prende il sogno pedagogico di Rousseau e lo cala nel caso concreto della brughiera islandese. Il risultato non è l’uomo buono naturale, Emilio cresciuto libero nell’armonia della natura; il risultato è Bjartur.
4. Nel deserto umano descritto da Laxness non è strano che gli odi e gli amori più tenaci ruotino attorno agli animali. Dire che le pagine più belle di Gente indipendente sono quelle che descrivono le relazioni tra Bjartur e le sue pecore o tra la seconda moglie di Bjartur, Finna, e la mucca Búkolla non rende l’idea, perché quella che viene in mente, ancora una volta, è l’Arcadia. Invece, anche il rapporto tra uomo e animale qui cade nel cerchio della violenza e del sangue, com’era naturale nel mondo rurale di un tempo, e com’è ancora naturale là dove quel mondo si è conservato intatto. Gente indipendente è una specie di antifavola: gli animali sono protagonisti del racconto al pari degli umani, ma lo sono in chiave tragica, non comico-esemplare. Hanno freddo e fame come gli uomini, e muoiono prima di loro, a causa loro. I due capitoli più memorabili di Gente indipendente contengono appunto questo genere di violenza: l’uomo uccide o cerca di uccidere l’animale. Ma nel resoconto di queste uccisioni e di queste cacce Laxness mette un elemento perturbante che sembra alludere a uno strato di senso più profondo. Nel capitolo undicesimo Rósa, la prima moglie di Bjartur, rimasta sola in casa, fa entrare una pecora per proteggerla dal freddo e dalla pioggia ma la pecora, una volta dentro, non fa altro che belare e saltare per la stanza, pazza di terrore. All’alba, Rósa afferra l’animale e lo scanna. La descrizione dell’atto dura una pagina, una pagina di dettagliatissima macelleria. Ma la pagina più sinistra è la precedente, quella in cui Laxness descrive lo stato di trance – generato da spossatezza, terrore, fame, desiderio di vendetta nei confronti del marito ma anche, si direbbe, da un’oscura pulsione sessuale – che porta Rósa ad afferrare la falce, e i preparativi della macellazione:
Saltò giù dal letto. Non si diede nemmeno la pena di infilarsi i suoi vestiti, se ne andò in giro per la stanza a braccia scoperte, il petto seminudo, pallida per l’insonnia, gli occhi sfavillanti, folle. Avanzò a tentoni sotto l’arcareccio nel chiarore indefinito del mattino, ed estrasse da sopra un puntone la falce di Bjartur avvolta in un fodero di tela, la svolse, la portò sotto la finestra, osservò la lama, ne provò il filo sui capelli. Poi scese al piano di sotto. La pecora saltava terrorizzata per la stanza da una parete all’altra e la donna la seguì, incespicando negli attrezzi e nel cordame che erano caduti a terra durante le turbolenze notturne, ma non aveva più paura, nessuna idea bizzarra poteva più ostacolare la decisione che aveva preso, e dopo qualche inseguimento riuscì ad afferrare la bestia…
Nel capitolo quindicesimo, Bjartur, perdutosi nella brughiera, insegue un branco di renne, ne afferra una per le corna e le monta in groppa, e quella lo trascina con sé nell’acqua gelida del fiume. Il centauro formato dalla bestia e dall’uomo, che corre sul fondo del fiume ghiacciato è un’immagine così potente da evocare i colori delle saghe o dei racconti magici più che quelli del romanzo. Forse solo Cormac McCarthy, tra gli scrittori contemporanei, è capace di rappresentare gli animali con altrettanta verità e forza simbolica: la lupa di Oltre il confine, i cavalli.
Ma gli animali sono anche oggetto d’amore. Bjartur ama il suo cane e le sue pecore; i bambini amano il vitellino, che Bjartur ucciderà sciorinando poi le sue budella sul pavimento del soggiorno. E Finna ama la mucca Búkolla, trova in lei una compagna di pena, e muore di crepacuore quando Bjartur uccide anche quella, per l’assurda ragione che sottraeva erba, luce e attenzioni alle pecore. La seconda parte di Gente indipendentesi chiude su questa scena splendida e straziante:
In quel momento [dopo l’uccisione della mucca] fu tutto finito per Finna di Sumarhús, questa donna di poche parole, amante della musica, che aveva dato alla luce molti figli per l’indipendenza della nazione, ma anche per la morte. Era buona. Aveva amici tra gli elfi. Ma il suo cuore aveva a lungo pulsato nella paura. La vita umana? Era come se la vita umana tornasse a cercare il suo principio, in quel momento. Le si piegarono le ginocchia e si voltò verso la vecchia Hallbera in assoluto silenzio, abbandonandosi come polvere impalpabile nel grembo appassito di sua madre.
5. Nelle ultime cento pagine, Gente indipendente cessa di essere un romanzo di processi e diventa un romanzo di pratiche. Il tempo si precisa e si fa denso: scoppia la prima guerra mondiale, e Laxness mostra le conseguenze di questo avvenimento sul popolo islandese, che alla guerra non partecipa, servendosi di una ‘voce popolare’ non diversa da quella che parla nei romanzi di Verga: «Questa cosiddetta guerra mondiale, forse la benedizione più generosa che Dio abbia mai mandato sul nostro paese da quando le guerre napoleoniche salvarono la nazione dalle conseguenze della Grande Eruzione […]; sì, questa bellissima guerra mondiale, che Dio ci garantisca di averne un’altra simile al più presto». Anche lo spazio si complica: Bjartur e i due figli rimasti lasciano la fattoria e vanno in città, e qui entrano in contatto con i portuali in sciopero. La storia contemporanea entra nel romanzo, il romanzo si fa politico. È la parte più debole del libro. La forza epica della battaglia che Bjartur combatte da solo contro tutti si diluisce. E il finale, col ricongiungimento tra Bjartur e la figlia, è melodrammatico.
Ma fino a quel punto, a un centinaio di pagine dalla fine, Gente indipendente è davvero un romanzo unico, che racconta cose e persone che nessun altro romanzo racconta, cose e persone di un mondo remoto (ma in realtà, e questo aggiunge fascino alla storia, non troppo lontano né nello spazio né nel tempo: l’Islanda è Europa, e sono passati solo cent’anni), un mondo così desolato che «perfino l’apparizione un uomo con un bastone è un evento fenomenale», e in cui è possibile che gli elfi della brughiera, nottetempo, piantino dei chiodi nella testa degli agnelli, e che un uomo cavalchi una renna nelle acque di un torrente, e passi la notte al gelo dormendo su un pietrone («I brividi facevano parte del pernottamento in quel posto, non era necessario prendersela tanto se si conosceva il trucco per sbarazzarsene. Il trucco consisteva nell’alzarsi in piedi, afferrare il lastrone con le braccia e capovolgerlo finché uno non si riscaldava di nuovo»); un mondo in cui tutti citano le saghe e gli eroi delle saghe come se fossero storie successe il giorno prima, e non vecchie di ottocento anni, e in cui nessuno ha mai visto una mela, per cui non ci si rende bene ragione del peccato di Eva («per loro era un mistero assoluto il motivo per cui la donna avesse avuto questo desiderio irrefrenabile di una mela, in verità non avevano idea delle capacità seduttive di una mela e pensavano fosse una specie di patata»), e anche i quaranta giorni di pioggia del diluvio universale hanno l’aria di un inganno, dato che «c’erano anni lì nella brughiera in cui poteva piovere anche per duecento giorni e duecento notti, quasi senza schiarite; eppure non arrivava nessun diluvio universale».
Secondo Henry James, una delle peculiarità del romanzo moderno sta nel fatto che in esso agiscono personaggi «sottilmente consapevoli» che si possono paragonare, nella letteratura del passato, solo ai grandi eroi tragici come Amleto o re Lear: è questa coscienza che «fa assolutamente l’intensità della loro avventura […]. Noi, e cioè la nostra curiosità e la nostra simpatia, ci curiamo relativamente poco di ciò che accade agli stupidi, ai rozzi, ai ciechi» (prefazione alla Principessa Casamassima, in Le prefazioni, Roma, Editori Riuniti 1986, pp. 110-11). Aver saputo creare dei personaggi problematici e contraddittori: non è questa la massima lode per il romanziere? È in virtù di questo talento rappresentativo, di questa ricchezza di sfumature, che come lettori apprezziamo Musil, o Mann, o Roth. I loro personaggi sono intelligenti e moralmente complessi quanto e più di noi.
I protagonisti di Gente indipendente – la dolce, timida, strabica Ásta Sóllilja e il brutale, stupido, ma a suo modo eroico Bjartur – non assomigliano a questa descrizione. Al contrario, posseggono tutte quelle cattive qualità che, secondo James, rendono impossibile l’empatia: sono stupidi, rozzi e ciechi. Eppure sono indimenticabili. Ciò che li rende esemplari, e straordinariamente toccanti, è il fatto di essere, l’una e l’altro, del tutto ignari di sé e del vasto mondo che si apre al di là dei confini della fattoria di Sumarhús. L’amore e il sesso assalgono Ásta Sóllilja e la stordiscono, perché nessuno le ha mai detto che cosa siano; e Bjartur, accecato dalla sua smania di indipendenza, finisce per diventare il peggior nemico di se stesso. Chi legge oggi Gente indipendente non vede attorno a sé, nella vita di ogni giorno, esseri umani come questi. Ma basta guardarsi alle spalle, arretrare di cinquanta, cento anni, alla generazione dei nostri nonni o bisnonni, per rendersi conto, per ricordarsi del fatto che un numero infinito di esistenze ha seguito questo corso, consumandosi in questo mesto torpore. Gente indipendente è, tra le molte altre cose, una lettura da raccomandare agli antimoderni propensi a idealizzare quel passato: se ne esce più cauti.