[Supplemento culturale del Sole 24 ore, 1 aprile 2012]
Un mattino, a Reykjavík, faccio colazione con Marco Bancale, 37 anni, bolognese, in Islanda dal 2006. Marco mi racconta dell’industria dei videogiochi in Islanda: c’è la CCPGames, l’azienda che ha creato Eve online (vedi il Domenicale del 10 luglio, p. 2), unica e inarrivabile per dimensioni, fama, introiti; ma poi c’è una decina di altre aziende concorrenti, solo più piccole. Dato che l’Islanda è abitata da… (fate questo test con gli amici, chiedetelo a loro: nessuno indovinerà che gli abitanti dell’Islanda sono così pochi) 320 mila persone, dieci aziende è un numero quasi incredibile, il risultato di rare condizioni tutte favorevoli: la diffusione della rete nel nord Europa, buoni corsi di informatica all’università, i fiumi di denaro – anche preso in prestito all’estero e mai restituito – che hanno inondato l’Islanda prima del 2008 (fiumi che stanno tornando a scorrere: avverto che il momento per una visita è ora, perché presto sarà tutto di nuovo intollerabilmente caro).
Marco lavora alla Gogogic, una game company nata a Reykjavík nel 2006 che all’inizio produceva software e siti internet e ora produce videogiochi. Dal biglietto da visita risulta che Marco è “iOS Lead Developer”, e per quanti sforzi lui faccia non riesce veramente a spiegarmi quello che fa ogni giorno, né aiuta granché la didascalia che nel biglietto sta dopo la qualifica: “Use him to implement touches, gestures and accelerometers to your dreams”. Programmatore, riassume lui con una smorfia di delusione, col che ne so quanto prima, e mi basta. La sede della Gogogic, a dieci minuti a piedi dal centro di Reykjavík, non è imponente come quella della CCPGames ma c’è tutto: c’è il calcio-balilla, il biliardo, il salottino col caffè e le riviste; e c’è anche, per la mia consolazione, un occhio di riguardo per quelli che scrivono i testi, il plot del gioco, che hanno diritto a un ufficio un po’ separato dal resto, sulla porta un foglio con la scritta “Blame Zuckerberg”: perché Gogogic fa soprattutto giochi per i social-network come Facebook, e poi applicazioni per iPad e iPhone. Il loro gioco più fortunato e premiato è un gioco di ruolo che si chiama Vikings of Thule e che ha circa 150 mila iscritti. Scopo del gioco, che ricavo pari pari dal sito di Gogogic: diventare uno dei 39 capi della misteriosa isola di Thule – a occhio e croce un’Islanda ancora più buia e spigolosa dell’Islanda – combattendo contro gli altri giocatori sparsi per il mondo, superando prove di forza, coraggio, astuzia. «E sparando», dico a Marco, perché per me, che sono rimasto a Space Invaders, vale la regola videogioco = sparatoria. «No, senza sparare».
Vorrei tanto evitare di dire che Marco è un ‘cervello in fuga’, vorrei non dover usare questa etichetta logora. Ma quello è. E s’intende che il dramma non è la fuga. Il dramma è, da un lato, l’incapacità italiana di attrarre cervelli stranieri, gente che fugga in Italia; dall’altro, per gli italiani emigrati, l’impraticabilità, l’inutilità del ritorno. Perché Marco – che ha studiato informatica a Bologna – semplicemente non potrebbe trovare, in Italia, un’azienda che gli dia un lavoro paragonabile con uno stipendio paragonabile: in Italia non ci sono posti del genere. “E allora non sarebbe meglio che l’Italia smettesse di produrre esperti come te, dato che il sistema produttivo italiano non li richiede?”, gli domando (sottintendendo: “Perché io dovrei pagare le tasse per formare uno come te, se poi uno come te deve andare comunque all’estero?”). Risposta: “Ma così è un circolo vizioso: l’università non forma professionisti, le aziende non nascono e non si sviluppano, il paese s’impoverisce, deperisce, diventa periferia. È la ricetta per il Terzo Mondo”. Il che mi convince abbastanza, anche se non posso dire che mi tolga tutti i dubbi.
Marco è arrivato in Islanda prima della crisi economica del 2008 (crisi che in Islanda ha avuto proporzioni immani, senza paragoni nel mondo: le banche del paese sono fallite, la corona è crollata, il debito pubblico graverà sugli islandesi per generazioni). “Fino al 2008 potevo considerarmi benestante qui e decisamente ricco quando tornavo in Italia. Adesso le cose sono un po’ cambiate. L’industria dei giochi non è stata toccata più di tanto dalla crisi, ma certo, l’età dell’oro – sì, era proprio l’età dell’oro – è finita. Oggi me la passo bene in Islanda, meno bene quando torno in Italia a causa del cambio, che è diventato svantaggiosissimo. Ma resta il fatto che in Italia non avrei mai e poi mai lo stipendio che ho qui”.
Ed ecco che di colpo rinasco, rinasco nel Millenovecentottanta, quando i miei genitori decidono di comprarmi il Commodore 64 “perché in futuro bisognerà saper programmare un computer”. Ma tra la potenza e l’atto cade l’ombra. Per un decennio io e i miei compagni di scuola abbiamo adoperato il Commodore e le sue successive varianti come una consolle per giocare a Pac-Man. Intanto, ragazzi come Marco imparavano a progettarli, i giochi. Poi Marco ha studiato informatica. “Ma per fare quello che faccio – mi dice – quasi tutto quello che ho studiato non mi è servito a niente. Niente. Non dico che fisica o analisi non servano per altri indirizzi di studio, per altre professioni. Ma la matematica che uso io da quando lavoro nel ramo dei giochi è questa: addizioni, sottrazioni, più raramente moltiplicazioni e divisioni. Senza contare che in Italia ci sono corsi di laurea in informatica in cui sono previsti esami di Biologia generale, o Chimica, e persino Linguistica italiana. Una distanza siderale dal mondo del lavoro; e anche dalla realtà, direi”. E dunque che tipo di scuola servirebbe, per formare persone come lui, per un settore in enorme espansione, e nel quale già ora l’offerta di lavoro – un lavoro ottimamente pagato – supera la domanda? Che fare? Voglio la ricetta: la voglio applicare alla mia università, già prevedo le sinergie, l’interdisciplinarità, le collaborazioni virtuose tra umanisti che scrivono e scienziati che programmano. Ma la risposta mi spiazza. “Nessuna scuola. O meglio, nessuna scuola, nessuna università per come sono concepite oggi in Italia. Insegnano cose che non servono. Io sono un autodidatta, come la maggior parte di quelli che fanno questo lavoro. Invece di studiare analisi, ho imparato a programmare videogiochi. Contano la passione e l’applicazione: spendere il proprio tempo in queste cose, da soli, o insieme ad altri appassionati. Semmai, ci vorrebbero dei corsi specifici, di due o tre anni, in cui si insegnino tutte le discipline e le tecniche che occorre padroneggiare per realizzare un gioco: e non c’entra soltanto l’informatica, c’entrano anche la musica, la scrittura, i costumi, anche se una ‘stilista’ vera e propria possono averla solo in un’azienda come CCPGames. In Islanda corsi così esistono, ed è per questa ragione che qui nascono e crescono aziende come CCPGames o Gogogic”.
Spiegazione chiara, idee che si possono condividere oppure no, ma che sono comunque da integrare alla discussione che, con mia sorpresa, in Italia non sembra stare a cuore a nessuno, o a pochi – con mia sorpresa perché è una discussione cruciale, vitale: la discussione su ciò che serve imparare a scuola, all’università, e soprattutto su ciò che a scuola e all’università imparare non serve. E le parole di Marco mi hanno fatto tornare in mente l’intervista a un ingegnere biomedico di 31 anni, disoccupato, che ho letto su una delle più belle (e semi-ignote) riviste italiane, Una città (marzo 2011). Se tornassi indietro, diceva l’ingegnere, non farei Ingegneria, farei il perito e andrei a lavorare: «Tutti chiedono la formazione di un perito industriale o elettronico, non quella di un ingegnere biomedico. Insomma, un grado inferiore di studi, ma più preparazione tecnica. Ci avevano illuso sul fatto degli sbocchi. Invece nessuno ha poi trovato lavoro in aziende biomediche. Ora provo dispiacere, se avessi fatto l’Itis sarei già al lavoro, più anni di contributi e più soldi in banca».
Che cosa pensare? Perché per formazione e per indole io sarei un conservatore, uno di quelli che crede che la fisica e l’analisi servono anche se hanno l’aria di non servire, come altre cose astratte e non immediatamente funzionali come il latino o la filosofia. Un’ampia preparazione scientifica o umanistica, per formare l’Uomo, e poi una specializzazione mirata, per formare il Lavoratore. Ma se poi l’Uomo resta disoccupato, o trova un impiego a 35 anni, dieci anni dopo i suoi colleghi europei o americani, c’è anche il caso che l’Uomo si guasti, e con lui il sistema che l’ha formato. Che cosa pensare? Che fare?
Ho girato la domanda a una decina di scienziati, e le risposte che ho avuto sono interessanti, articolate (dunque impossibili da riassumere qui) e, a parte qualche ingegnere pragmaticissimo, tutte concordi nel dare torto a Bancale. Se le facoltà scientifiche italiane funzionano così male come mai gli scienziati italiani (Bancale incluso) trovano così facilmente lavoro e finanziamenti all’estero? Non è ovvio che la duttilità di Bancale deriva anche dalla preparazione teorica che la scuola e l’università italiana gli hanno dato? E non è ovvio che l’università non è un ufficio di collocamento, e che non può e soprattutto non deve essere orientata a formare dei tecnici capaci di far funzionare il mondo come è oggi bensì degli scienziati capaci di immaginare, di creare il mondo di domani (un obiettivo che si può forse raggiungere attraverso l’analisi matematica, la fisica, l’ingegneria, non certo attraverso la preparazione Itis)? Me lo spiega con molta chiarezza Alessandro Della Corte, matematico: «Caliamoci nel caso concreto: il corso di laurea in informatica non è pensato per preparare solo i futuri programmatori di giochi, ma, in teoria, anche i futuri autori di nuovi linguaggi di programmazione, di nuovi possibili sfruttamenti delle risorse dell’hardware, di nuovi sistemi operativi, fino ad arrivare a coloro che dovranno progettare nuovi hardware. Per tutte queste cose una formazione scientifica seria è imprescindibile. Se non conosci l’analisi non puoi studiare la teoria dell’informazione. Se non hai studiato la teoria dell’informazione non puoi controllare il linguaggio macchina, che è codificabile in stringhe di 0 e 1. Se non arrivi al livello del linguaggio macchina non puoi pensare di ideare nuovi programmi compilatori (cioè i linguaggi come il C, il Fortran, il Basic). Se dunque non vuoi qualcuno che semplicemente utilizzi le risorse esistenti per ottenere scopi immediati, ma qualcuno che possa far progredire le risorse stesse, devi fargli capire fino in fondo quello che fa, fornendogli strumenti concettuali perché possa dominare tutti i livelli».
Ma c’è un certo accordo anche sul fatto che a «far progredire le risorse» può essere solo un numero piuttosto esiguo di persone, e che perciò occorre immaginare percorsi formativi diversi: «La grossa differenza – mi dice Alberto Abbondandolo, anche lui matematico – è che in Italia l’università è l’unico canale di formazione post-scolastico e quindi si trova nella difficile posizione di dover formare sia chi farà ricerca, insegnerà o avrà comunque bisogno di una preparazione teorica di alto livello (se programmi videogiochi su piattaforme già esistenti o se progetti villette a schiera con autocad, delle quattro operazioni tre sono di troppo, ma se fai programmazione più avanzata o se devi progettare un ponte di teoria te ne serve parecchia) sia chi vuole imparare un mestiere. In Germania, il paese europeo dove la scienza applicata ha il maggiore peso economico, alle università sono affiancate le Fachhochschulen, dove si studiano ingegneria, informatica, chimica in maniera più professionalizzante. Invece del 3+2 e del tentativo di convincere l’università a fare quel che non sa fare, sarebbe stato meglio affiancarle degli Itis di secondo livello del tutto indipendenti e tenersi un’università molto più snella di quella attuale».
E non vi càpita mai di essere d’accordo con tutti? A me sempre più spesso, sarà l’età. Come che sia, mi sembra una questione importante, e di cui varrebbe la pena di discutere, e da parte di competenti.