[Saturno, 24 giugno 2011]
Non molti si ricordano del terremoto che ha semidistrutto Kobe nel 1995. E pochi sanno del terremoto che devastò Tokyo nel 1923. Il ricordo svanisce in fretta, perché ai disastri seguono sempre altri disastri. Anche il terremoto del marzo scorso in Giappone verrà dimenticato in fretta. Il terremoto come evento. Ma durerà molto più a lungo, nella memoria, e influirà nei fatti, il terremoto come simbolo, o come segno. Si poteva ironizzare sulle paure degli ambientalisti prima di Fukushima; adesso non si può più. L’energia nucleare non è pulita (e lo si sapeva) e non è sicura (e si sapeva anche questo, ma vederlo in TV è un altro paio di maniche): perciò Fukushima costringerà a ripensare l’agenda energetica del pianeta nei prossimi decenni.
Ma Fukushima è un simbolo o un segno anche su una scala molto minore. È una catastrofe che ha avuto luogo nell’età di Facebook e di Twitter, l’età della comunicazione e dell’informazione istantanea; ed è una catastrofe che ha avuto come teatro un paese lontanissimo che pochi conoscono, e di cui pochissimi parlano la lingua. Come se l’è cavata, in questa prova, l’informazione non-istantanea, l’informazione ufficiale, le TV e i giornali? Non bene.
Nel libretto Tsunami nucleare, Pio d’Emilia, corrispondente da Tokyo per varie testate italiane, racconta il suo viaggio nelle zone dello tsunami, e il primo livello di lettura è proprio questo: uno strano libro di viaggio che è anche un modo eccellente per imparare qualcosa sul Giappone attraverso la testimonianza di prima mano di uno dei migliori conoscitori di quel paese. Il secondo livello è l’inchiesta sulle centrali nucleari giapponesi, e anche qui il lettore italiano troverà materia di riflessione in relazione alla politica energetica del nostro paese. Il terzo livello, il più interessante, è appunto la riflessione sul modo in cui del terremoto si è parlato sui media internazionali, e italiani in ispecie. Cosa diremmo se l’Italia venisse spiegata ai giapponesi o ai cinesi da giornalisti che non parlano italiano e passano il tempo tra i loro compatrioti in un ufficio di Roma o, peggio, di Londra? Ma questo è proprio il tipo di informazione che riceviamo regolarmente a proposito di paesi come la Cina, il Giappone, l’India, l’Iran. Brutta cosa in generale, che diventa pessima quando un’emergenza costringe a verificare meglio le fonti e a pesare le parole. In questo senso, il dossier che chiude il libro – un’antologia di articoli sul terremoto pieni di sciocchezze, errori ed esagerazioni millenaristiche – è una lettura da raccomandare a tutti gli aspiranti giornalisti: perché vedano come non si fa il loro lavoro.