Libri

Su “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini

Il Foglio6 Aprile 2024

Qualche mese fa è morto mio padre, dopo tre o quattro settimane di agonia in ospedale. Aveva fatto una brutta vita, e gli ultimi anni erano stati anche più brutti di quelli in cui era ancora in discreta salute, e molesto. Al di là del dispiacere (ma per la vita vissuta così male, non per la morte), è stato un sollievo per tutti, e a me è sembrato che la provvidenza mi avesse finalmente liberato del fardello che mi ero portato appresso per decenni. Rispondendo alle condoglianze degli amici mi sono sorpreso a usare un tono stupidamente blasé («Guarda, a dirti la verità cammino molto più leggero, adesso»), non solo inadatto alla circostanza ma in fondo anche insincero. Così non posso dire di aver letto con animo riposato l’ultimo libro di Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio), perché la storia che racconta – che genere di essere umano era sua madre Angela, e quanto l’ha sempre odiata – è una storia per me familiare, e paragrafi interi avrei potuto scriverli io (mentre invece, trovandoli già scritti, e scritti mirabilmente, mi sono limitato a decorarli con punti esclamativi). Per esempio: «Mi ha dato un’educazione a rovescio: i valori ai quali si ispira o li esprime in una forma riprovevole o sono disvalori veri e propri»; oppure: «A chiedere scusa ci si educa – e adesso so che è un processo accidentato – mentre a casa mia non ci si confronta, si grida e si aggredisce, o si sta zitti. Non siamo stati abituati a parlare tra noi, figuriamoci a scusarci» (per la mia esperienza vale soprattutto a proposito dei maschi; i maschi di casa mia avevano adottato senza saperlo il motto dei reali inglesi, never complain, never explain: mio padre diceva sempre che era tutto a posto, anche se era evidente che proprio niente era a posto, e in vita mia non credo di avergli mai sentito pronunciare la parola scusa); oppure: «La detesto da sempre, da quando la mia vita ha cominciato a staccarsi dalla sua e si è aperta sul mondo, perché ci ho messo poco a capire che il mondo giusto – quel luogo inesistente che i giovani sognano e alcuni adulti idealisti si impegnano a fargli credere che esista – faceva, diceva, pensava tutto ciò che mia madre non faceva, non diceva, non pensava» (salvo che il «mondo giusto» esiste, invece: è il mondo di civiltà, intelligenza, buona educazione, tatto, tolleranza, cultura che con molta fortuna e molta fatica si raggiunge una volta che si sia riusciti a staccarsi da quelli che Larkin chiamava i propri «wrong beginnings»; Franchini lo ha raggiunto, io anche, credo).

Dunque come vive una persona che «ha la testa piena zeppa di idee sbagliate»? (Non sono parole di Franchini, sono parole dette da mia madre a proposito di mio padre in un raro momento di autocoscienza). Il libro è costruito non per capitoli ma per paragrafi di due o tre pagine che ricordano un po’ le lasse dei poemi epici, in ogni lassa un episodio nuovo intorno alla vita e alle opinioni di Angela o una meditazione sul suo carattere. La tecnica è simile a quella che Franchini ha collaudato in quello che resta il suo libro più bello, L’abusivo, e poi in Gladiatori: la voce dell’autore che racconta e spiega e, dentro, la voce dei personaggi in presa diretta col loro dialetto, i loro sfoghi tramati di sconcezze, come se chi le mette su carta si fosse limitato a sbobinare monologhi o dialoghi rubati.

Il ritratto di Angela non si compone però, come avviene di solito, per addizione. Di lei sappiamo tutto quello che c’è da sapere già dalle prime pagine, tutto il resto amplifica, approfondisce, precisa, sicché al voltare della pagina il lettore ha il piacere di passare dal raccapriccio al sorriso, dalla Spannung al rilassamento (come tutti i nevrastenici, Angela è vittima della sua stessa foga: parte tranquilla, poi è come se la sua stessa voce fosse carburante per il montare della rabbia, così i suoi discorsi diventano sfoghi, poi insulti, maledizioni, bestemmie: «E gli inglesi se ne vanno, e quanno mai ci sono stati in Europa, gli inglesi? Quanto so’ brutti, tutti cu’ ’e dentiere, portavano tutti ’a dentiera… Seh, seh… L’Unione europea, nun ce sta l’unione dint’ ’e famiglie… Hai sentuto a chella zoccola e’ soreta? Chella gran puttana, aggia avuta studià ’a psicologia p’ ’a spiegà a chella cretina…»). Poi Angela invecchia, e per brevi attimi sembra essere consapevole del male che qualcuno le ha fatto (forse soprattutto sua madre, la virago capricciosa che troneggiava venticinque anni fa nell’Abusivo, il primo tempo di questa storia familiare), e di quello che lei a sua volta ha fatto agli altri; si rivela affettuosa con i nipoti maschi, grata nei confronti del figlio («Io cu te venesse dappertutto. Tu fusse capace ’e me fa piglià pure l’aereo», gli dice alla fine di una bella giornata in montagna). Ma sono appunto attimi, il fuoco che si porta dentro torna subito a consumarla, rendendo la vita accanto a lei impossibile.

Eppure il narratore ci ha dovuto convivere, i genitori non si scelgono, e anzi proprio quando pensava di essersela lasciata alle spalle, di aver chiuso con lei e con Napoli, ecco che arriva la vecchiaia: rimasta sola, Angela non è più autonoma, il figlio la porta a vivere a Milano in un appartamento accanto al suo, la vergogna del passato si mescola a quella del presente, il lettore spera tanto che il narratore venga alleggerito il prima possibile di questo fardello, e alla fine la speranza viene esaudita. Nelle ultime pagine, dopo la morte di Angela, dopo la concitazione di questa vita così ingombrante, c’è finalmente pace: come c’era pace nello splendido finale dell’Abusivo. Salvo che qui la pace si conquista con l’oblio: si capisce che il libro è stato scritto per cancellare persino il ricordo di Angela. Poche volte dalle pagine di un libro la vanità della vita degli altri, il nostro essere monadi incomunicanti, mi è balzata agli occhi con altrettanta forza. Ma appunto: forse perché anch’io ero impegnato a elaborare un lutto, e un senso di colpa.

Quanto c’è di naturale, di autentico, nel carattere di Angela, e quanto di artefatto, di simulato? Leggere Franchini fa a volte un effetto simile a quello che fa leggere i saggi di Erving Goffman sull’interazione sociale: ci si ricorda di quante maschere indossiamo, di quante parti interpretiamo anche senza saperlo. Alle cene, in vacanza, davanti ai conoscenti Angela recita quasi sempre, e da attrice provetta si compiace di questo suo talento istrionico: «Per alcuni anni […], i nostri litigi furono vere e proprie messe in scena, un teatro rituale per noi, un intermezzo comico per amici e conoscenti che venivano a cena: “Dite la verità, li avete mai visti una madre e un figlio così?” ripeteva agli invitati non del tutto sconvolti solo perché erano stati preavvertiti».

Ma recitano tutti, anche i personaggi di contorno, le comparse, come il giovane poliziotto che  carica il narratore sulla sua macchina e si fa strada nel traffico agitando la pistola («Accussì m’ha ditt’ ’a capa»), o la donna che finge di credere che il figlio morto in guerra sia ancora vivo («Poco prima di spirare, lei li solleva dal continuare la recita, gliel’ha consentita solo per dar loro soddisfazione, ma ha capito da subito che il figlio non c’è più»), o il cognato-sciamano che non si capisce bene se creda davvero ai suoi esorcismi, oppure – in una pagina tra le più belle del libro – il pescivendolo che accoglie cerimoniosamente i clienti e s’informa sulle strategie di cottura dei pesci più raffinati: «A tutti chiede: “Lei questo come lo prepara?”, come se dalla correttezza della risposta dovesse dipendere la concessione dell’acquisto. In realtà fa la stessa richiesta anche a chi compra i più scontati branzini e tranci di tonno e spada». Cioè, in realtà non gliene importa niente, si è scelto quella parte – il pescivendolo che s’informa su che fine farà il suo pesce – e quella parte recita ormai senza pensarci (c’è una pagina famosa dell’Essere e il nulla di Sartre in cui questo sacrificio del sé a vantaggio della funzione è descritto in maniera quasi comica: «Consideriamo questo cameriere. Ha il gesto vivace e pronunciato, un po’ troppo preciso, un po’ troppo rapido, viene verso gli avventori con un passo un po’ troppo vivace, si china con troppa premura, la voce, gli occhi esprimono un interesse un po’ troppo pieno di sollecitudine per il comando del cliente […]. A che cosa gioca? Non occorre osservare molto per rendersene conto; gioca ad essere cameriere»: poteva essere comico anche il pescivendolo di Franchini, ma calato in questo resoconto di decrepitezza e morte – siamo nelle ultime pagine del libro – anche lui resta nella memoria come una figura tragica).

La schiettezza, la sincerità, è dei pochi personaggi interamente positivi del libro: lo zio avvocato che ospita in casa sua il giovane Antonio al suo arrivo a Milano, e che ha tra l’altro la funzione di far rivivere il ricordo dello zio, soldato e pittore, omonimo del narratore, e che il narratore non ha fatto in tempo a conoscere perché è morto in guerra, ma che era una presenza sensibile anche nell’Abusivo e in uno dei racconti di Leggere possedere vendere bruciare: «Tonio Franchini si firmava Tonio perché voleva fare l’artista e aveva letto Tonio Kröger?» (l’autore sembra camminare sulle sue orme: diventando artista, praticando sport violenti che sono una versione laica dello spirito bellico, adempiendo insomma il destino dell’antenato morto; questo ruolo di testimone che vive vicariamente la vita di un defunto a lui caro è anche uno dei Leitmotiv dell’Abusivo, salvo che qui il defunto è Giancarlo Siani: «Così per ogni morto c’è un coetaneo che vive e passa la giornata su una spiaggia inaccessibile e pulita, una di quelle su cui un battello a una certa ora del mattino ti scarica e verso il tramonto ti ritorna a prendere. Allora colui che vive fa tutto ciò che si può fare in una giornata simile…»).

E il narratore? Il personaggio che dice io? Come esce da questa lunga confessione?

Mi pare che anche da giovane Franchini abbia sempre scritto libri per persone adulte, persone che, senza essere ciniche, stanno serenamente al di là della linea delle illusioni, e non chiedono troppo agli esseri umani e alla vita, ma nemmeno se la prendono troppo se gli esseri umani e la vita li deludono: un Saggio, più che un Narratore, e così me lo sono sempre immaginato, da quando tanti anni fa ho letto Quando vi ucciderete, maestro?. Questa saggezza potrebbe anche essere un altro nome del cinismo, il cinismo che intacca l’anima dei rassegnati. Nell’Abusivo a un certo punto si legge: «La consapevolezza che nessuno è mai in grado di aiutare nessuno aveva già trovato spazio dentro di me. Te ne potevi accorgere dal distacco, dalla sufficienza che ostentavo verso i dolori, gli amori e ogni altro affanno». Ma questo era il cinismo della gioventù. Nel nuovo libro, invece, il Franchini sessantacinquenne è pieno di attenzioni non solo per una madre che palesemente non le merita ma anche di affetto e di pietà per le vittime che la follia della madre ha mietuto nel corso degli anni: il marito, una figlia troppo debole per resistere al suo impeto, una galleria di donne – vicine di casa, badanti – destinate all’infelicità e all’abbandono. Tanto poco è cinico, l’autore di questo memoir, da struggersi anche per la propria incapacità di dimostrare l’amore, non l’amore-passione ma l’amore discreto, sommesso che dovrebbe illuminare la normalità della vita: «L’amore è il cruccio di tutti, ma sempre nel senso delle forme assolute: quella, puramente attiva, dell’amare, e l’altra, perfettamente passiva, dell’essere amati. Del dimostrare amore nel modo più giusto e del farsi amare, cioè dei modi del sentimento, non della sua essenza, non si preoccupa nessuno. Gentilezza e tenerezza sembrano l’elemosina, la declinazione degradata delle passioni». È proprio così, e a un certo punto si capisce quanto sia davvero sventurato chi non sa esercitare, né suscitare negli altri, queste «forme minori dell’amore».

Solo ricordi amari? Naturalmente no, la vita è lunga: «In realtà – scrive Franchini – più volte nel nostro salone si è ballato, e Angela è stata felice e mi ha invitato con un semplice gesto di seduzione che avrei visto fare ad altre donne». Col passare delle settimane, dei mesi, anche a me sono tornate in mente occasioni in cui mio padre è stato, se non felice, sereno e sorridente. Non era vero quello che confidavo ai miei amici prima che morisse, che di lui non mi sarebbe rimasto «nemmeno un bel ricordo, solo angoscia e vergogna». Lontani ricordi piacevoli continuano a riaffiorare ogni tanto, forse purificati dalla distanza. Chissà poi che cosa ci è successo, che cosa è andato storto: «forse – come Franchini scrive di sé e della madre – niente di speciale, solo l’ordinario disfacimento delle nostre vite».

 

 

 

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