Spettacolo

Io, mio fratello e “Profondo rosso” in TV

Snaporaz online17 Luglio 2023

Il primo passaggio televisivo di Profondo rosso fece molto rumore nei corridoi della Scuola media «Caduti di Cefalonia» di Torino (in realtà poteva anche essere il secondo passaggio, erano i primi anni Ottanta, ma per noi era il primo). Nessuno di noi dodici-tredicenni aveva potuto vederlo al cinema, ovviamente, dato che era uscito nel 1975 ed era vietato ai minori, ma i fratelli maggiori ne parlavano come del più terrorizzante dei film di paura, perciò appena il film comparve all’orizzonte, sulle pagine di «Sorrisi e canzoni», si profilò una gara di coraggio tra i maschi: lo avremmo visto tutti, con o senza il permesso dei genitori – a quel tempo del resto molto distratti, e poco informati circa i danni della violenza vista in TV – e poi, il giorno dopo, avremmo commentato insieme le scene più sanguinolente (le avremmo commentate nei corridoi durante l’intervallo, tra noi, non in classe col professore: allora il pop era ancora tabù, oggi potrebbe essere un tema di maturità).

Io avevo una psiche sensibile, rispetto ai miei compagni di scuola, e i film dell’orrore mi terrorizzavano, e mi terrorizzavano il buio, il paranormale, i fantasmi, i cimiteri e tutto il resto della mobilia horror; ma proprio per questo, naturalmente, ero attratto da ogni sceneggiato o telefilm o film in cui questa mobilia veniva sciorinata. Nel paesino di mezza montagna dove trascorrevamo l’agosto c’era un cinema di seconda visione, e qui alcuni mesi prima era avvenuta la mia iniziazione con Quella villa accanto al cimitero di Lucio Fulci, che mi aveva spaventato a tal punto che per settimane avevo trattenuto la pipì, la notte, pur di non avventurarmi al buio nel corridoio che portava al gabinetto. E in TV, la sera del giovedì, se non ricordo male, una serie di telefilm intitolata Thriller, prediletta dai miei genitori, mi obbligava a chiudermi in cameretta col giradischi o la radio accesi a volume altissimo per evitare di essere raggiunto anche solo da un frammento sonoro di ciò che passava sullo schermo.

Così il giorno del primo passaggio televisivo di Profondo rosso sono tornato a casa da scuola pre-terrorizzato. In condizioni normali, i miei genitori mi avrebbero impedito di vedere Profondo rosso semplicemente vedendo loro qualcos’altro: in casa c’era un solo televisore. Ma quella sera si sarebbe verificato un evento più unico che raro nel nostro ménage familiare: i miei genitori sarebbero andati a cena fuori città con certi amici, e sarebbero tornati molto tardi, «dopo mezzanotte». Potevano fidarsi di lasciare da soli i loro figli di dodici e sedici anni, e godersi la serata (no, non avrebbero mai usato un’espressione come «goderci la serata», il godimento non aveva parte in queste rare funzioni sociali: il senso era ‘sottometterci a questa corvée senza troppe preoccupazioni circa ciò che sta succedendo a casa, cioè confidare che voi due, lasciati soli, non vi scanniate a vicenda’)?

*

Tutto questo riaffiora nella memoria adesso perché dopo – quanti? – quasi quarant’anni sto andando a rivedere Profondo rosso al cinema della Compagnia di Firenze, versione appena restaurata in 4K. Proiezione pomeridiana, da solo: è sorprendente quant’è difficile trovare amiche o amici che vengano con te a vedere un giallo-horror di cinquant’anni fa in un pomeriggio infrasettimanale di luglio, nella canicola (invece in sala ci sono più persone di quante me ne aspettassi: trenta-quaranta persone, soprattutto giovani in comitiva, è un film che si guarda insieme; un terzo direi stranieri, per lo più orientali). Nel frattempo sono diventato non un maniaco del genere horror, no, ma uno spettatore affezionato e competente, uno di quelli che cerca «i migliori 100 film horror» su RottenTomatoes e constata di averli visti quasi tutti, uno che nei momenti di noia, di estrema noia, si mette a guardare su YouTube «the most scarying horror scenes». Contestualmente, e non saprei dire quando (questo è anche interessante: non saprei dire quando) l’horror ha cessato di far presa sulla mia animuccia, cioè non mi fa più paura.

Negli anni, ho recuperato i tre gialli che lo precedono, L’uccello dalle piume di cristallo, Quattro mosche di velluto grigio e Il gatto a nove code; e ho visto anche un paio dei film successivi, prima che Dario Argento venisse abbandonato dalla Musa. Ma non ho mai più rivisto Profondo rosso. Il quale intanto cresceva vertiginosamente nella considerazione comune. Sulla «Stampa» dell’8 marzo 1975 leggo questa recensione non firmata: «Il nuovo film di Argento non aggiunge molto ai precedenti L’uccello dalle piume di cristallo e Le quattro mosche di velluto grigio; anzi fa sospettare di un’ispirazione stanca, convertita in ricetta. Passi che il film sia lungo; il guaio è che è allungato da un formalismo che non ha paura del prolisso e perde troppo spesso di vista la concatenazione e l’interesse narrativo. Per altre vie, più rapide e realistiche, si stabilisce la vera suspense che qui invece, dovendo lottare con un clima artefatto che non è il suo, si appiglia soltanto per alcuni tratti generalmente simili e ripetuti, oltreché tutti ispirati a vecchi, anche se impreziositi, motivi di Grand Guignol». Dove si deve constatare non solo che l’anonimo recensore ha un controllo dell’italiano imparagonabile a quello dei giornalisti odierni, ma anche che non ha torto: sì, molte scene sono prolisse e divaganti, e alcune sono proprio gratuite, stanno lì solo per fare atmosfera: due cani che si azzannano, due bottegai semideformi che berciano qualcosa di incomprensibile, la bambina che sevizia gli animali; sì, la logica della narrazione si perde, la concatenazione che porta dall’evento X all’evento Y non è affatto chiara (ma non lo si può dire di quasi tutti i gialli, costretti a compattare in due ore, arbitrariamente, un numero infinito di fatti e circostanze?), e sì, certo, c’è tanto sangue: non quanto ce ne sarà negli slasher americani tra i Settanta e gli Ottanta, ma tanto. Semmai si deve obiettare che il recensore non ha occhi per vedere il buono, il molto di buono che nel film c’è.

Non lo vede nemmeno Gianluigi Bozza, che su «Cineforum» (giugno-luglio 1975) s’impunta invece in una lettura politica di Profondo rosso: «Il film è una sorta di allucinazione, priva della lucidità razionale del thrilling, completamente priva di riferimenti alla realtà sociale. In questo incubo abitato da mostri e da mamme con la mannaia facile […] esplodono i connotati propri dell’ideologia fascista». Erano anni così, si capisce, però che c’entrano la realtà sociale e l’ideologia fascista con gli omicidi di una vecchia matta? E anzi, obietta Bozza, non bastava chiuderla in manicomio, la vecchia matta? «L’assassina – scrive – è una mamma cadente, è vero, ma è soprattutto una povera malata mentale che ha ucciso il marito e rovinato l’esistenza del figlioletto; se fosse stata rinchiusa il delitto non ci sarebbe stato». Vero, se i pazzi se ne stessero per conto loro saremmo tutti più tranquilli, ma anche questo che c’entra col film? Tra l’altro il marito aveva pure provato a rinchiuderla, poverino, rimediando una coltellata nella schiena… Infine, il cattivo esempio degli Americani: «Narrativamente – conclude Bozza – Argento costruisce il tutto con l’ottica propria dei film catastrofici che superhollywood ha messo in cantiere per far dimenticare Saigon e Watergate (cioè i dati concreti) senza retrocedere nell’intento di evidenziare che il pericolo c’è e che solo raccogliendo le forze si può fare fronte ai pericoli (divenuti magicamente arcani e non più politici; conviene tirare in ballo il mistero che deresponsabilizza le masse e copre i criminali autentici)».

Che tempi incredibili, che fanatismo idiota, uno ogni tanto si dimentica come sono stati usati male i libri, l’intelligenza… Ma invece già nei primi anni Ottanta, all’epoca di quel primo passaggio televisivo, con buona pace di «Cineforum», Profondo rosso era diventato Profondo rosso. Visto, tradotto, imitato in mezzo mondo, due milioni di spettatori in Italia nel solo 1975, sesto incasso dell’anno: ma in cima alla classifica c’erano Amici miei e Fantozzi.

*

Naturalmente ci sono un mucchio di cose che non ricordavo, e innanzitutto l’inizio. Pensavo che il film si aprisse col congresso di parapsicologia, con la medium che percepisce in sala una «presenza maligna» e poi giustamente finisce ammazzata, ma in realtà il film non comincia così. Comincia con i titoli di testa accompagnati dalla musica di Gaslini-Goblin che ci ha tutti terrorizzati, ma a un certo punto i titoli di testa s’interrompono e s’intravede il Trauma da cui originano i complessi, e dai complessi gli omicidi: interno di casa borghese, albero di Natale, un’ombra che pugnala un’altra ombra, un bambino o una bambina fermo o ferma in piedi davanti al coltello insanguinato; in sottofondo, la nenia infantile che – anche questa, anzi questa più dell’altra – ci ha tutti terrorizzati.

Non ricordavo neppure i dialoghi piuttosto estenuanti, e quasi sempre fuori tono, tra il pianista-investigatore Marc e la giornalista Gianna Brezzi. In Profondo rosso c’è questa sottotrama comico-romantica che ricorda un po’ Myrna Loy e William Powell nell’Uomo ombra, o altri mariti e mogli o fidanzati e fidanzati che investigano battibeccando, fino a Allen e Keaton in Misterioso omicidio a Manhattan. Anche la polizia è ridicola, un po’ come nella Donna della domenica, che esce al cinema in quello stesso anno; salvo che Argento ha la mano più pesante di Comencini e il commissario Mastroianni è più misurato del commissario Eros Pagni, che qui parla con un’atroce calata toscano-occidentale, forse viareggina, lui che oltre a essere della Spezia aveva una dizione impeccabile. (L’aria del tempo si respira poi, come capita, in certi dettagli che allora suonavano ovvi e oggi sembrano incomprensibili: se le cose non vanno bene – ripete Gianna a Marc, quando cominciano a flirtare – basta partire per il Libano, il Libano era un po’ la Dubai del tempo: qualche anno prima ci era finito Felice Riva, eternato nel verso «chi parte per Beirut e ha in tasca un miliardo»: Rino Gaetano, Ma il cielo è sempre più blu, che esce nello stesso anno di Profondo rosso).

Non ricordavo che il figlio dell’assassina, Carlo, è omosessuale, conseguenza forse del trauma familiare (sic), non ricordavo che Marc va a trovarlo a un certo indirizzo e lo trova in compagnia di un amante. Non ricordavo che hanno quasi tutti gli occhi bistrati: Gianna, Carlo, l’amante di Carlo, sua madre: dettaglio voluto, immagino, perché l’assassino, lo si vede da un primissimo piano in una delle prime scene, ha gli occhi bistrati. E non ricordavo che a fare molta paura non è soltanto la musica dei Goblin ma anche la tecnica di ripresa, soprattutto la cinepresa snorkel che permette di filmare dettagli minuscoli di oggetti sinistri come bamboline, nastri annodati a cappio, lame. Effettacci, ma d’effetto: soprattutto sul pre-adolescente che ero, che queste cose le subiva senza notarle.

Invece ricordavo bene Torino, perché è la mia città. C’è molta Torino anche in altri film di Argento (in Non ho sonno uno degli omicidi è girato addirittura nell’androne del condominio dove abita mio fratello, negli interni di Corso Orbassano), ma in Profondo rosso i posti sono specialmente riconoscibili: il teatro Carignano, dove si tiene la conferenza sul paranormale, la villa Scott a Cavoretto (oggi è di privati, allora era un centro di accoglienza per ragazze tossicodipendenti gestito dalle suore: dicono le cronache che la produzione abbia pagato a tutte una vacanza a Rimini per tutto il tempo delle riprese); e soprattutto, soprattutto la magnifica scena girata in piazza CLN, con le fontane della Dora e del Po e il Bar Blue che sembra The Nighthawks di Hopper, con gli avventori innaturalmente immobili, come manichini.

E poi? Che altro ricordavo?

*

Quella sera di tanti anni fa, la sera del primo passaggio televisivo di Profondo rosso, mio fratello decise che lo avrebbe guardato (non, devo precisare, contro il parere dei miei genitori, perché i miei genitori non avevano idea che lo dessero in TV). Io potevo fare quello che volevo: andarmene in camera mia oppure guardarlo con lui. Ma in realtà non avevo scelta: un po’ perché avevo detto ai miei compagni di scuola che l’avrei visto, e il giorno dopo mi sarebbe toccato parlarne (e non c’erano estratti-video o siti in cui leggere la trama, non c’erano scorciatoie); e un po’ perché l’idea di starmene in un’altra stanza, da solo, mentre mio fratello se ne stava in soggiorno davanti alle immagini di Profondo rosso mi terrorizzava tanto quanto l’idea di guardare il film: almeno sarei stato in compagnia.

E quindi? E quindi è passata mezza vita, e io ricordo ancora l’angoscia che ho provato quella sera durante la visione del film, e quella ancora più nera che è venuta dopo. Ecco quello che ricordavo perfettamente, nonostante siano trascorsi decenni: gli omicidi. Ed ecco di che cosa abbiamo parlato la mattina dopo a scuola: la medium con il collo segato dai vetri della finestra; l’antropologa messa a mollo nell’acqua bollente; l’assassina decapitata dall’ascensore; lo psichiatra prima sfigurato dai colpi contro lo spigolo del mobile e poi inchiodato alla scrivania da un coltello da macellaio (e prima ancora visitato da un orribile pupazzo semovente che in punto di sceneggiatura non si capisce bene cosa ci stia a fare, ma che fa molta paura – trivia: in origine il pupazzo doveva essere «un Pinocchio di legno multicolore, meccanico, che cammina, muove le braccia e contemporaneamente, a intervalli, spalanca la bocca ed emette una gracchiante, sottile risata»: peccato, forse – guastato per sempre il ricordo di Pinocchio – ci saremmo risparmiati tante brutte riscritture cinematografiche). Sembra siano state quasi tutte invenzioni del co-sceneggiatore di Argento, Bernardino Zapponi: «Credo di avergli dato un consiglio molto prezioso, che è poi ciò che distingue Profondo rosso dalle altre sue opere: secondo me le scene più crudeli del film, per meglio ‘colpire’ lo spettatore, devono riguardare una paura che gli sia vicina, comprensibile. È difficile immedesimarsi in una persona che viene uccisa con un colpo di rivoltella, mentre tutti possono ‘capire’ l’impatto di un evento traumatico più quotidiano […]. Inventai così la scena dell’omicidio nella vasca da bagno perché tutti si sono scottati almeno una volta, quindi conoscono gli effetti dell’acqua calda, e così pure le scene della macchina che schiaccia la testa di Gabriele Lavia, di Macha Meril che sfonda la vetrata o di Glauco Mauri che viene sbattuto ripetutamente contro gli spigoli dei mobili» (L. Cozzi, F. Patrizi e A. Tentori, Profondo rosso, Roma, Mondo Ignoto 2003, p. 157).

Sì: non si può davvero dire che siano morti ordinarie, di quelle che ‘possono capitare’. Ma ha ragione Zapponi: sono omicidi che evocano situazioni e paure familiari. E di fatto, se dovessi spiegare a qualcuno che allora non c’era che cos’è che Profondo rosso ha inventato, almeno per me, quale nuovo genere di paura mi ha fatto entrare sottopelle (e come dicevo ci sono voluti anni per liberarmene: e non del tutto), direi proprio questo: che sì, i fantasmi e gli zombi e gli esorcisti e i demoni fanno paura, ma non è che abbiano molto a che fare con la vita di una persona normale in un normale appartamento di una normalissima città: basta chiudersi in casa, no? Invece Profondo rosso mostrava che la minaccia poteva venire dalla stanza accanto, se la porta non era chiusa a dovere, e che, mentre uno se ne stava tranquillo a casa sua, l’assassino armato di mannaia, per misteriose ragioni che affondavano le loro radici nel suo inconscio malato… Da allora, per anni, stare da solo in casa, soprattutto dopo il tramonto, è stato un piccolo problema, una prova che, se possibile, cercavo di evitare: per la memoria di quelle scene. E di quello che è successo dopo il film, immagino.

*

Devo premettere che mio fratello e io non avevamo un bel rapporto. Lui aveva, ha tuttora quattro anni più di me, e una chiara superiorità fisica che non si peritava di far valere ogni volta che lo ritenesse necessario, cioè almeno una volta al giorno. Inoltre, era sprovvisto di psiche. Io, devo ammetterlo, ero così insopportabile – saccente, capriccioso, querulo – da meritare di prenderle anche più volte al giorno. Quella sera, finito di vedere il film, o meglio di intravederlo, sbirciando tra le dita che mi coprivano gli occhi, mi sono fatto forza, ho attraversato di corsa il corridoio buio e ho acceso la luce della nostra camera. Poi sono andato al mio letto, ho acceso la lampada che stava sul comodino, ho indossato in fretta il pigiama, sono corso a spegnere l’interruttore del lampadario e mi sono messo sotto le coperte col cuscino schiacciato sulla testa, aspettando che mio fratello venisse anche lui a dormire nel suo letto, a due-tre metri dal mio.

Però i minuti passavano, e mio fratello non tornava. Nell’appartamento non si sentiva nessun rumore; ma avevo lasciato aperta la porta della nostra stanza, e dal fondo del corridoio, forse dal bagno, sembrava venire una luce tenue. Mi sono rifatto forza e sono sceso dal letto per vedere che cosa stesse succedendo, e affacciandomi sulla soglia ho visto che sì, effettivamente c’era una luce che filtrava dai vetri smerigliati della porta del bagno. Tornato di corsa a letto, ho aspettato ancora qualche minuto, un suono. E se mio fratello per qualche strano motivo fosse uscito di casa, lasciando la luce del bagno accesa? Se gli fosse successo qualcosa, se lo spirito maligno covato da Profondo rosso fosse uscito dalla pellicola e se ne fosse in qualche modo impadronito? Se nel bagno adesso non ci fosse mio fratello, ma…

Mi sono riaffacciato sul corridoio, ho chiamato pianissimo il nome di mio fratello: volevo che mi rispondesse, ma non volevo che sapesse che avevo paura, urlare mi avrebbe reso ridicolo. Nessuna risposta. Allora, scalzo, mi sono avventurato nel corridoio, che nel ricordo è ovviamente infinito, ma che in realtà sarà stato lungo una decina di passi. La luce veniva effettivamente dal bagno, non dal lampadario ma dalle due lampadine disposte ai lati dello specchio. Sono arrivato davanti alla porta, che adesso era aperta, ho guardato dentro, e dentro, davanti al lavandino, c’era mio fratello in pigiama con le mani coperte di sangue. Il rubinetto era aperto (seconda scena di Profondo rosso: l’assassino nei bagni del teatro). Senza chiuderlo, mio fratello ha alzato lo sguardo verso di me, e in quel momento ho pensato… Che cosa? Ahimè, non ricordo più, e non voglio mentire. Ricordo l’immagine: io e mio fratello che ci fissiamo, lui con le mani che gocciano sangue nel lavandino, io immobile a bocca aperta (ma è chiaro che questo sarà almeno in parte un falso ricordo: sono io che reinterpreto il bambino del film). Poi mio fratello si è messo a ridere, deve aver capito che cosa mi stava passando per la testa: «Ma no, ma va’… È che mi sono tagliato col rasoio…». Erano le prime rasature, si usavano le lamette, che se tagliano tagliano in profondità, con abbondante flusso di sangue. Abbiamo trovato in un cassetto lo stick emostatico che mio padre usava quando si faceva la barba e lo abbiamo applicato ai tagli sulle dita di mio fratello; poi abbondante acqua ossigenata e abbondantissima carta igienica. Pulito alla meglio il lavandino, siamo andati a letto, e l’indomani a scuola ho tenuto banco.

 

 

Condividi