Spettacolo

Su Colombo

Review del Foglio30 Luglio 2022

Colombo, stagione 6 episodio 2. Dialogo tra la nipote e la zia Ruth, che già abbiamo capito essere l’assassina, anche se un’assassina fondamentalmente buona, un’assassina per cause di forza maggiore, come accade spesso in Colombo:

Nipote: «I wish you were my mother».

La nipote si allontana.

La zia, tra sé e sé: «No, you don’t».

Dialogo nella traduzione italiana:

Nipote: «Vorrei che fossi tu mia madre».

Zia: «Fosse così!».

Rivedere Colombo in inglese su Amazon Prime costringe a domandarsi che cosa veramente abbiamo visto e sentito nelle nostre serate televisive di tanti anni fa, ma più che altro fa venire in mente dubbi quasi metafisici circa il perché mai, da quali oscure pulsioni mosso, un doppiatore dovrebbe tradurre «You don’t» con «Magari», ovviamente sapendo benissimo che «You don’t» non vuol dire «Magari», e che anzi così si falsa il senso di tutta la scena (la zia Ruth non sta confessando a sé stessa e allo spettatore un desiderio di maternità ma sta dicendo che sarebbe una madre pessima, anche perché sta per fare fuori due esseri umani colpevoli di voler chiudere il museo di cimeli che lei sgoverna con grande dispendio di denari guadagnati dai suoi antenati).

Ma alla fine, chissenefrega? Uno non rivede Colombo per i dialoghi. Perché, allora? Perché con tutti i film e le serie TV del mondo a portata di mouse, e infinite lacune da colmare – tutti quei Grandi Maestri che non si sono visti, o se si sono visti si sono dimenticati, tutto quel Pasolini mortale che si aspettava il centenario per vedere – uno poi finisce a riempire i minuti liberi della giornata con un pezzetto di Colombo? Domandiamocelo.

Anche perché, rivedendolo tutto insieme dopo anni, ci si accorge subito di quanto le trame siano artificiali, implausibili. (1) Qualcuno viene ucciso, per lo più in modi fantasiosi: sbranato dai doberman, chiuso dentro una cassaforte, avvelenato con l’apribottiglie, suicidato con un nastro registrato che dice di buttarsi dal balcone; (2) il tenente Colombo si presenta sulla scena del delitto tutto stropicciato, già stanco (questa è una delle cose più pazzesche: non è quasi mai al massimo delle sue possibilità, ha dormito poco, ha spesso altre grane che lo distraggono dal caso, gli eventuali assistenti sono più d’impaccio che d’aiuto, eppure alla fine trionfa); (3) si presenta sulla scena e guarda caso tutti gli altri possibili indiziati si fanno da parte, svaniscono sullo sfondo e lui incoccia subito nel colpevole, che di solito è anche il personaggio più gentile e collaborativo, prima che l’insistenza del tenente e il suo senso di colpa gli facciano perdere la pazienza: onde l’insofferenza per questo scocciatore, le proteste, in qualche caso la telefonata ai superiori (telefonata inutile, perché i superiori sanno, come sappiamo tutti, che chi perde la calma è il colpevole).

Dopo le prime domande al colpevole gli indizi cominciano a piovere casualmente, senza neanche troppo sforzo da parte dell’investigatore. Gli basta camminare per la stanza, alzare un bicchiere, chinarsi a raccogliere un filo, rilevare un’impronta. Gli indizi – non tanti, in realtà, e nessuno davvero stringente – si accumulano, i dialoghi con questo o quel testimone fanno venire a galla dettagli insignificanti, che si potrebbero spiegare in mille modi diversi, o semplicemente registrare sotto la parola caso, e invece no, a un certo punto, a una decina di minuti dalla fine, scatta la trappola, una trappola dalla quale a veder meglio non sarebbe così difficile scappare, o che un bravo avvocato non ci metterebbe molto a forzare, magari invocando la sacrosanta insufficienza di prove. Niente: l’indiziato può fare un po’ di resistenza, può anche fingersi indignato, ma alla fine, tra il terzultimo e il penultimo minuto, confessa avviandosi leggero verso l’ergastolo (negli anni in cui viene girato il primo Colombo la pena di morte era stata abolita in California; ma tornerà).

Dunque le trame no, non si ri-rivede Colombo per le trame. Per che cosa, allora? Per la varietà delle ambientazioni, per il mutevole profilo dei personaggi? Sì e no, sì e no.

Certo, c’è quasi sempre un assassino che fa un lavoro strano: ammiraglio in pensione, scrittore di romanzi gialli, psicanalista esperto di ipnosi, attrice in disarmo, cuoco in TV, prestigiatore ex nazista… E c’è sempre un ambiente, un microcosmo bizzarro che Colombo si trova ad esplorare: il mondo dei sommellier, dei gourmet, quello degli specialisti di pubblicità subliminale, degli scacchisti internazionali, l’industria dei cosmetici, i toreri… Ma questa eterogeneità dei tipi è corretta e limitata dalla classe sociale cui questi tipi appartengono: tutti ricchi e, se non ricchi, eccezionali per questo o quel tratto della personalità o del carattere: il topo di laboratorio, il mago dei robot, l’uomo con il mega-quoziente d’intelligenza… Ciò precisato, sì, una delle belle invenzioni degli sceneggiatori di Colombo è effettivamente questa: scegliere i colpevoli nel jet set di Los Angeles, e non tra gangster che delinquono per mestiere ma tra individui spesso anche simpatici, fini, alla mano, spiritosi, persino colti, rispettabilissimi fino a un attimo prima che venga consumato il delitto, spesso anche legittimamente incazzati con la vittima (è chiaro che la moglie di Paul Galesko, in Una mossa sbagliata [4.2], si merita una pallottola nel petto; è chiaro che il milionario ammazzato in Progetto per un delitto [1.7] è un trumpiano ante litteram, e va benissimo farlo fuori; eccetera). Il capolavoro che è la canzone Colombo dei Baustelle fotografa questa costante sociologica:

Siamo architetti ricchi di Bel Air
E vecchie dive del noir.
Abbiamo ville, abbiamo cadillac
Ed uccidiamo per soldi come te.

Puoi controllare i nostri alibi,
Siamo eleganti e sereni.
Siamo avvocati rispettabili,
E ci inchiniamo al denaro come te.

Ci annoiamo, abbiamo mogli e amanti, abbiamo tanti amici
A guardarli bene tutti vermi che siamo costretti a eliminare

Ma anche questa intelligente scelta di sceneggiatura – cercare i colpevoli, tutti, tra i ricchi e famosi – non sarebbe sufficiente se non ci fosse lui, se ad attivare questa reazione a un certo punto non arrivasse l’elemento chimico Colombo.

Colombo – ma nell’originale il nome è Columbo – è uno di quei personaggi iconici che bastano a illuminare un’intera vita di sceneggiatori, un po’ come James Bond o l’ispettore Clouseau o Fantozzi. È andata così. All’inizio degli anni Sessanta Richard Levinson e William Link hanno scritto un testo per il teatro intitolato Presciption: Murder e lo hanno portato in giro per gli Stati Uniti. A un certo punto si sono accorti che il personaggio del poliziotto Columbo, interpretato da un caratterista noto ma non notissimo Thomas Mitchell, prendeva più applausi della star del dramma, Joseph Cotten. Presto fatto: hanno venduto il testo alla Universal, che li ha messi sotto contratto per sette anni chiedendogli di sviluppare un telefilm centrato sul personaggio del poliziotto. Hanno scritturato Peter Falk e gli hanno fatto girare due episodi-pilota, Prescrizione assassinio (1968), appunto, e Riscatto per un uomo morto (1971); trasmessi dalla NBC, hanno avuto ascolti straordinari. «La copertina di una guida televisiva – ricorda Link – proclamò: L’America scopre Colombo. Qualche mese dopo lo scoprì anche il resto del mondo»[1].

Colombo è un italo-americano abbastanza tipico. Viene da una famiglia numerosa (cinque fratelli e una sorella) e rumorosa. Ha una moglie che com’è noto non si vede mai ma che si dovrebbe chiamare Rose. Falk-Colombo lo dice non durante il telefilm ma durante il roast di Frank Sinatra del 1978, presenti tra gli altri Dean Martin, Don Rickles, James Stewart, Ronald Reagan (il video si trova su YouTube). Rose sta a casa, cucina, sovrintende al ménage; ha gusti e passioni elementari: vede molti vecchi film alla TV, compra in edicola le riproduzioni di dipinti famosi e colora gli spazi col numerino. Una delle cose più bizzarre è che questo fantasma di moglie a un certo punto hanno pensato di usarla per una specie di spin-off intitolato appunto Mrs. Columbo: due stagioni, tredici puntate in tutto, molto mediocri, dimenticabilissime, anche se è divertente vedere come tra assassini, testimoni e comprimari tornino in scena molti degli attori di piccolo-medio cabotaggio che avevano fatto Colombo nella prima metà degli anni Settanta. Negli Stati Uniti c’è stata in quegli anni un’enorme compagnia di giro di ottimi attori televisivi, e uno dei piaceri della mezza età, adesso, è aprire la pagina «Cast» su Prime e scoprire i nomi di tutti quei caratteristi che da piccoli ci sono rimasti incollati sulla retina perché rimbalzavano da un telefilm all’altro – gente come Robert Culp, Jack Cassidy, Bruce Kirby, Patrick McGoohan – e poi leggere come sono morti su IMDB. Una specie di spin-off, dicevo, perché in realtà questa signora Colombo non ha più un marito (vedova? Divorziata?), però in compenso ha la stessa vecchia Peugeot 403 e un cane bassethound che però ha l’aria di essere più in salute rispetto a quello del tenente.

Ma tornando appunto a Colombo: a parte la moglie, ha anche un cognato che frequenta spesso, dei nipoti, forse un figlio (ne accenna per esempio in 3.2 L’uomo dell’anno, minuto 78’, ma comunque non lo vediamo mai). Finito il lavoro, non ha hobby o anche solo interessi particolari: sta a casa, se c’è da andare a un matrimonio o a una comunione ci va, e magari dà una mano con le foto (s’indovina una famiglia allargata molto numerosa, feste e vacanze passate insieme). Ha appunto questo bassetthound di nome «Dog» che salta fuori ogni tanto e viene usato come pedale comico: viene portato dal veterinario perché è depresso, viene lasciato in macchina col finestrino aperto ma non smette di uggiolare, se ne sta immobile a terra mentre il padrone gli dice di muoversi, di correre, di fare il cane. Dicono i siti dei fan (Colombo ha un fandom maniacale e ramificatissimo) che il cane doveva essere una presenza quasi fissa, una specie di buffo co-protagonista, ma che poi si è capito che il pedale comico minacciava di guastare la trama gialla, così le pose del cane sono state decimate. Oggi, tra YouTube e TikTok, con la fascinazione per gli animali che si comportano in modo ridicolmente tenero, è probabile che il cane «Dog» sarebbe diventato una star planetaria. Troppo tardi.

È un uomo semplice in ogni sua manifestazione, perciò le occasioni sociali non sono il suo forte. In un salotto elegante appesta l’aria con il sigaro, fa cadere per terra la cenere, se ne esce con battute sconvenienti (anche se mai maliziose), fa danni. Governa male il suo corpo: urta contro le suppellettili, impiccia, si mette in mezzo; soprattutto, da vero italo-americano, gesticola in continuazione, tocca anche chi non vorrebbe essere toccato. Ha una reale, non simulata ammirazione per i divi della TV e del cinema che incontra nel corso delle sue indagini: i famosi lo ammaliano, tanto che quando deve arrestarli lo fa quasi contraggenio. In un caso – Janet Leigh, anziana diva del cinema che ha ucciso ma non ricorda di averlo fatto perché la demenza la sta uccidendo (L’ultima diva, 5.1) – lascia persino che l’assassina la faccia franca. Non ha gusto per l’arte figurativa, per la musica, per la letteratura, non sa apprezzare le cose belle, quando gliene dicono il prezzo non si capacita che costino così tanto.

Ospite nel Tonight Show di Johnny Carson, Falk-Colombo dice di aver «heard about Gucci’s shoes», ma gli vanno benissimo quelle che ha ai piedi. Non ha il culto maschile e californiano dell’automobile vistosa. Guida una Peugeot 403 del 1959, grigia con capote nera, credendola una fuoriserie («è francese», precisa ogni tanto), mentre è una scassona. In una puntata qualcuno gli chiede se non pensa di farsi un’altra macchina e lui risponde che ce l’ha già, un’altra macchina, ma è più vecchia e la guida la moglie: «it’s just for transportation». La sua, sottintende, è quella di rappresentanza. In un mondo di portatori di Rolex o equivalenti, al polso ha un orologio da trenta dollari, lo apprendiamo in una scena molto divertente, una delle poche in cui Colombo non fa ridere senza volerlo ma fa deliberatamente una battuta (Delitto d’altri tempi, 6.2):

Colombo (esaminando l’orologio della vittima):

«His watch is wrong… My watch costs 30 dollars. His must’ve cost a couple of hundred and it’s wrong: it says May 1st. It goes to show money doesn’t buy quality».
Assistente: «Lieutenant, it is May 1st. Your watch is wrong, his watch is right».
Colombo: «Oh… Well, what do you expect for 30 dollars».

Mangia per sostentarsi, per mantenersi in vita. Se sulla scena del delitto trova del caviale avanzato lo ingurgita a cucchiaiate, trovandolo un po’ salato; apprezza le escargot che gli vengono servite dallo chef del re del Suari, ma ha un moto di ribrezzo quando scopre che le escargot sono lumache. La cucina orientale – che piace a molti dei ricchi delinquenti con cui ha a che fare – non entra nel suo radar. La sua idea di un buon pasto è compendiata in questo dialogo, uno dei più teneri dell’intera serie; Colombo è seduto al bancone di un diner molto popolare, su una strada trafficata (Il terzo proiettile, 2.1):

Ristoratore: «How do you want your chili, Lieutenant: with or without beans?».
Colombo: «Last night I had it with beans?».
Ristoratore: «Right».
Colombo: «I’ll have it without beans»; e poi, con un gesto perfetto della mano: «Variety!».

(Di solito il chili lo mangia con i cracker salati, perché come spiega alla figlia della vittima in Riscatto per un uomo morto, sbriciolandone un paio nel piatto, «You see, it’s the crackers that make the dish». Ripensandoci. Colombo si ri-rivede anche per i dialoghi).

L’unica cosa raffinata è la sua intelligenza, ed è ovviamente questa sproporzione tra ciò che ha in termini di distinzione sociale e ciò che è a renderlo adorabile, un po’ com’è adorabile il Bertoldo di Croce: il meccanismo è sempre quello dell’underdog che mette nel sacco i cortigiani del re Alboino o, che è lo stesso, l’alta società losangelina. A un certo punto anche gli assassini si rendono conto che questo poliziotto dall’apparenza di un «unmade bed» ha un cervello fuori del comune, e che hanno fatto male a sottovalutarlo, che – come dice Pacino nell’Avvocato del diavolo – «non l’hanno visto arrivare». Troppo tardi.

Peter Falk non è stato la prima scelta. Il personaggio doveva essere più anziano, più segnato dalla vita, più esperto. Si era pensato a Lee J. Cobb, che forse non sarebbe stato male ma che certo non avrebbe avuto l’affabilità di Falk; e a Bing Crosby, che boh. In ogni caso non sarebbero state scelte felici, perché tutti e due sono morti quando Colombo si girava ancora, Cobb nel 1976 e Crosby nel 1977. Alla fine, Levinson e Link scelsero Falk: «Non sapevamo come avesse avuto la sceneggiatura», ricorda Link; «ma più pensavamo a lui più ci sembrava perfetto: molto New York, non un protagonista affascinante. Ma non volevamo un bello. Falk era un attore eccellente: intelligente, non particolarmente curato sulla scena o fuori, con uno splendido, originalissimo senso dell’umorismo»[2]. Di fatto, al di là delle sue doti di attore, Falk è chiaramente l’uomo giusto per la parte. È basso, curvo, ha la faccia da povero, un occhio di vetro che lo rende ancora più indifeso; pare che l’impermeabile e le scarpe un po’ scalcagnate che indossa il tenente fossero sue, di Falk. È gioviale senza suonare falso, amabile senza piaggeria; ma è credibile anche nei rari momenti di rabbia, per esempio quando smaschera l’odioso dottor Mayfield (Leonard Nimoy, lo Spock di Star Trek) in Il filo del delitto, o quando incalza un testimone reticente, come in Testimone di sé stesso (4.6), o nel pilota Prescrizione assassinio, quando Colombo era un po’ diverso, più serio e composto rispetto al Colombo degli anni Settanta.

E dunque: lenta vendetta del poliziotto figlio di immigrati italiani che guadagna (lo dice in Concerto con delitto) undicimila dollari l’anno, cioè uno stipendio medio-basso, mentre gli assassini che smaschera ereditano o accumulano milioni? L’intelligenza e la dedizione che prevalgono sui soldi e sulle cattive qualità che i troppi soldi portano con sé: arroganza, prepotenza, disprezzo per i meno fortunati, ma anche futilità, capriccio, mani bucate? Anche tutto questo, certo. Ma è la vendetta che si può prendere nella cornice di una favola: perché a vedere bene Colombo quello è, una favola. Ed è per questo che lo si ri-rivede, e che se ne vorrebbe ancora (ah, il sogno di una puntata, di una serie di Colombo che non si è mai vista perché per qualche motivo non è mai passata su Rete 4! Ma non succede), lo si ri-rivede perché Colombo trasmette quel tipo di rilassante euforia che trasmettono le favole: è questa la spezia, la droga che rende questo piatto diverso da tutti gli altri piatti polizieschi consimili – Ellery Queen, Perry Mason, Maigret – e più degli altri capace di creare dipendenza.

Colombo vive e agisce in un mondo pacificato. C’è l’omicidio, naturalmente, ma è un omicidio rapido, pulito, senza strascichi di agonie e sanguinamenti. La vittima muore sul colpo, si accascia, copre col suo stesso corpo il sangue che deve pur essersi sparso, anche abbondante, ma che lo spettatore non vede mai. A volte (Progetto per un delitto) l’omicidio ha luogo addirittura fuori scena, come nelle tragedie classiche. Comunque: c’è l’omicidio ma al di fuori dell’omicidio va tutto bene. Intanto, non c’è ombra di conflitto razziale. Martin Luther King viene ucciso solo qualche settimana dopo l’uscita del primo episodio-pilota di Colombo (febbraio 1968); tre anni prima, nel 1965, le rivolte di Watts avevano fatto 34 morti e semidistrutto un pezzo di Los Angeles. Ma di tutto questo in Colombo non si avverte neanche l’eco, mai. C’è qualche raro poliziotto nero; ma – cosa notevole, in quarantacinque puntate – neanche un assassino nero, anche perché i neri erano ancora rarissimi nella upper-upper class in mezzo alla quale si muove Colombo.

Ma non è che manchi soltanto il conflitto razziale, manca il conflitto tout court. Le cose brutte della vita sembrano dissolversi, anzi sembrano non poter neppure affacciarsi in questo mondo di ville con giardini fioriti e mobilio d’epoca in cui non piove mai (non piove mai in Colombo), tutto è lindo ed elegante e la servitù vive felicemente nella casa dei padroni. Per evitare anche l’ombra del conflitto, per non contaminare la favola con la realtà, le scene girate in esterni sono rare, di solito solo qualche luogo del delitto, qualche strada anonima, un luna-park pieno di sole e bambini felici, qualche galleria d’arte, qualche negozio per ricchi, coiffeur, ristoranti, nei quali immancabilmente Colombo farà la figura del bifolco.

Una delle rarissime scene di esterni non lussuosi è l’eccezione che conferma la regola. Nel già citato episodio 4.2 il fotografo Paul Galesko ha ammazzato prima la moglie e poi un ex detenuto sul quale intende far cadere la colpa, ma non si è accorto che nella discarica in cui ha ammazzato quest’ultimo c’era un senzatetto che ha sentito gli spari e potrebbe inguaiarlo. Colombo allora va a cercare il barbone e lo trova in centro città, alla missione Saint Matthew, mentre pranza insieme ad altri senzatetto assistito dalle suore. Potrebbe essere l’occasione per vedere un altro pezzo di vita californiana, invece questo snodo di trama ‘preso dal vero’ è solo lo spunto per una delle scene più comiche nell’intera storia del telefilm. Perché la suora prima scambia Colombo per un barbone, e gli dà da mangiare e gli promette un impermeabile nuovo; poi, quando lui le dice che è un tenente di polizia, commenta che certo, ha capito benissimo, è sotto copertura, barbone tra i barboni, può contare sulla sua discrezione, e tanti complimenti per il travestimento… (il barbone vero, intanto, guarito dalla sbronza, è inutile per l’indagine perché non si ricorda niente). Nei rarissimi casi in cui la realtà entra nella favola, lo fa nella forma della farsa.

Il problema non è la società, la società va bene. In Colombo non si parla di gang, di droga, del Quaalude, di reati sporchi come lo stupro. Non si vedono quasi mai prigioni, e mai le prigioni come sono davvero. La polizia è una forza gentile: niente inseguimenti, niente minacce, niente terzo grado. Addirittura: niente pistole. Colombo non solo non la porta, ma non sa neppure veramente usarla, il che dà luogo a dialoghi divertenti, come questo con la ragazza del tirassegno al luna-park:

Colombo: What do you have to do to win one of them things?
Ragazza: Knock down the ducks ten out of ten.
Colombo: Yeah, my wife would go for that.
Ragazza: Oh, no, sir, Lieutenant. Hey… hey, you’re a pro.
Colombo: Aw, forget about it. If I’m standing on the dock, I couldn’t hit the water.

La società va bene anche perché sono anni benedetti da un dono che a noi è stato sottratto, il dono dell’inconsapevolezza. Non c’erano telecamere di sorveglianza, analisi del DNA, data base, fiumi di notizie e pettegolezzi online, cellulari che permettono di parlare sempre, fotografare tutto, girare video da condividere con mezzo mondo. In Colombo, la vita ha ancora un ritmo lento, governato dagli esseri umani e non dalle macchine. Come La casa nella prateria, ma in città. Perciò il problema non è la società, il problema è un singolo individuo che – generalmente per i soldi – rompe l’equilibrio che fa funzionare questo mondo meraviglioso e ammazza uno o più esseri umani. È il verme nella mela, ma in un cestino pieno di mele sane: e questa illusione è bellissima.

Parlando in generale, la serie peggiora con il passare degli anni. A poco a poco, verso la quinta o la sesta serie, Colombo comincia a gigioneggiare, cioè a sottolineare, a enfatizzare in maniera sguaiata atteggiamenti caratteristicamente suoi, o parole del suo idioletto. Quando comincia a riferirsi a sua moglie come alla «Signora Colombo», quando comincia a gesticolare troppo per far vedere che sta pensando intensamente, o che gli è venuto in mente qualcosa, quando i sospettati si comportano con lui come se sapessero che è il tenente Colombo dell’omonima serie televisiva (come l’insoffribile Louis Jourdan in Vino d’annata, 7.1) – allora tutto diventa maniera. E alla fine degli anni Ottanta sarà appunto questo, maniera, soltanto maniera, la seconda serie di Colombo, che è inguardabile.

Episodio più bello: parecchi, e naturalmente ‘più bello’ non vuol dire senza difetti. Gli episodi di Colombo sono belli e insieme pieni di difetti. Nella trama e nella recitazione, lo si è detto, specie quando il protagonista e/o i comprimari si mettono a strafare (esempio: Vino d’annata, la penosa scena tipo Padrino girata nel ristorante italiano, con Falk-Colombo che parla italo-siciliano con il giovane cameriere appena arrivato dall’Italia). Certi episodi sono belli anche perché sono ben girati. È famosa la splendida scena con cui inizia Un giallo da manuale (1971), che è girato dal venticinquenne Steven Spielberg: pare che Falk abbia detto ai produttori che quel giovanotto era «too good for Columbo». Ma belle invenzioni di regia, quintessenzialmente anni Settanta, si trovano anche per esempio nell’episodio Una trappola di Colombo (1.2), regia di un semi-sconosciuto Bernard Kowalski (vedi per esempio dal minuto 12, il lunghissimo primo piano sugli occhiali dell’assassino Robert Culp, che ‘vede’ ciò che farà nei minuti successivi per sbarazzarsi del cadavere, nascondere le tracce eccetera). Altre volte, l’episodio lo fa il carisma degli attori: vecchie grandi star di Hollywood come Ray Milland, Vincent Price, Janet Leigh, Anne Baxter. Ma anche quei bravi attori da telefilm di cui dicevo prima; e le comparse, gli esordienti: uno mette l’episodio in pausa e va a leggersi in rete le biografie del cast, e scopre cose deliziosamente inutili come che William Shatner è ancora vivo; che Sal Mineo è morto pugnalato solo pochi mesi dopo aver girato Un caso d’immunità; che poco dopo il minuto 56 di quello stesso episodio spunta Jeff Goldblum ventitreenne che fa la comparsa tra i manifestanti antigovernativi fuori dell’ambasciata del Regno del Suari (che non si capisce perché stia a Los Angeles anziché a Washington); che Jamie Lee Curtis esordisce in una particina da cameriera in Prova d’intelligenza (1977). Trivia a parte, nella lista degli episodi più belli ci sono per esempio l’episodio-pilota Prescrizione assassinio; poi Un giallo da manuale, L’illusionista, L’uomo dell’anno con Donald Pleasence, Concerto con delitto con John Cassavetes nel ruolo del direttore d’orchestra, Un killer venuto dal Vietnam

Episodio più brutto: parecchi, anche in questo caso. Le rare volte in cui Colombo lascia Los Angeles e va in trasferta all’estero la qualità ne risente, la ricerca del colore locale produce troppe scene macchiettistiche. L’episodio girato a Londra è brutto; quello girato in Messico anche peggio. L’episodio dell’omicidio in crociera invece non è male, ma perché stare su una nave è come stare in una grande stanza chiusa. Anche Un caso d’immunità (5.2) è piuttosto insipido: l’arabo col caffettano non è un delinquente abbastanza interessante per Colombo, che dà il suo meglio quando ha a che fare con il jet set losangelino.

Tra i colombofili c’è comunque un certo accordo nell’indicare in L’ultimo saluto al commodoro l’episodio peggiore in assoluto. Non sono d’accordo, ma in effetti è un episodio strano. Come tutti sanno, la struttura di Colombo non è quella consueta dei gialli, con l’investigatore che va in cerca di un colpevole del quale il lettore-spettatore ignora l’identità (chi è stato: whodunit); in Colombo lo spettatore sa subito chi è l’assassino, e quello che conta è il modo in cui l’asssassino verrà acciuffato. Hanno inventato una parola inglese anche per questo: howcatchem, ‘come arrestarli’ (o qualcosa di simile), ma se non suona troppo tronfio si può fare un paragone con l’epica classica e medievale, in cui sappiamo sin dapprincipio come andranno a finire le cose (Ulisse tornerà a Itaca, i Troiani verranno sconfitti, Enea raggiungerà le coste italiane, Gano tradirà Orlando e re Carlo), dunque non c’è suspense circa la direzione che prenderanno gli eventi ma quella che in una celebre lettera a Schiller, Goethe chiama la Spannung auf das wie, ‘la suspense del come’: in che modo il tenente Colombo arriverà a capire come sono andate le cose, in che modo smaschererà l’assassino. Levinson e Link hanno detto di essersi ispirati al Porfirij Petrovic di Delitto e castigo, il giudice istruttore che dopo aver scambiato poche parole con Raskol’nikov capisce che l’assassino è lui, e potrebbe anche essere vero. Più modestamente, un romanzo giallo di Francis Iles che Link e Levinson potevano conoscere, Delitto premeditato, è congegnato allo stesso modo; inizia così: «Passarono parecchie settimane prima che il dottor Bickleigh cominciasse a mettere in atto la decisione di uccidere sua moglie»[3]. Ebbene, anziché cominciare con un omicidio, e proseguire con il tentativo da parte di Colombo di scoprire un assassino che noi conosciamo già, L’ultimo saluto al Commodoro comincia e si sviluppa come un giallo normale: omicidio, non si sa perché né per mano di chi, poi indagine che porta alla scoperta dell’assassino, che viene smascherato in base a indizi anche più deboli del solito durante una riunione familiare che sembra presa di peso da un episodio di Ellery Queen – e chi si era fatto le ossa nel team degli sceneggiatori di Ellery Queen? Ma Levinson e Link, i creatori di Colombo!

Sono stati due giganti.

 

[1] William Link, The Columbo Collection, Cincinnati, Crippen & Landru 2010, pp. 12-13.

[2] Link, The Columbo Collection, p. 12.

[3] Francis Iles, Delitto premeditato, Milano, Garzanti 1959, p. 3.

 

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