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Su “Giudizio umano e giustizia divina” di Paolo Cammarosano

Domenicale del Sole 24 ore28 Novembre 2021

Trent’anni fa, in uno dei libri più belli e utili che io conosca sul Medioevo, Paolo Cammarosano osservava che «il tratto che possiamo definire in termini di ‘contemporaneismo’, cioè il riferirsi delle narrazioni storiche ai fatti accaduti in vita dell’autore […], fu clamoroso nel XII secolo ma dominò anche in seguito» (Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte). Ricordo di aver letto quella pagina da studente di letteratura e di aver pensato che il contemporaneismo era anche il tratto peculiare di quello strano resoconto storico che è la Commedia: perché è vero che Dante conosce bene e parla diffusamente del passato remoto che si rispecchia nella Bibbia e nei testi greci e latini, ma poi quasi si disinteressa di ciò che è accaduto tra l’età classica e il suo tempo, e a quest’ultimo, agli eventi e alle figure che illustrano il Duecento e il primo Trecento, dedica buona parte del poema.

Questo, del Dante narratore del suo tempo, è uno degli spunti che Cammarosano riprende ora in questo saggio interamente dedicato alla Commedia, saggio che si presenta molto modestamente come un tentativo di spiegare “in maniera semplice cose che semplici non sono” come le vicende politiche di Firenze al tempo di Dante, la questione dei rapporti tra magnati e popolo, il rapporto tra latino e volgare, la teoria dantesca della nobiltà nonché, appunto, le sue strategie narrative (e qui si sottolinea spiritosamente “l’ottica assolutamente contemporaneistica, attualizzante della Commedia. Ce que nous savions déjà, diranno alcuni, e avranno ragione”). Il tentativo riesce spesso molto bene, perché Cammarosano diffida delle categorie interpretative generali (e anzi parte del libro è spesa nello sforzo di vedere che cosa c’è dentro categorie ed etichette che adoperiamo senza pensarci troppo, come nobili vs popolani, o guelfi vs ghibellini) e perché si tiene saggiamente aderente ai testi, partendo sempre da un caso concreto, cioè da un canto o da un passo del poema, sempre interpretando le parole alla luce del contesto in cui vennero scritte. Si illumina lo sfondo, insomma, per fare meglio risaltare l’oggetto che sta in primo piano.

Si sa che gli studi danteschi hanno raggiunto un grado di analiticità impressionante, nei due sensi che la parola può avere. Da un lato impressiona la mole di notizie che gli studiosi hanno saputo desumere da un gruzzolo tutto sommato ridotto di testi (le opere di Dante, i non molti documenti che recano il suo nome, le sue fonti), impressiona l’acume con cui questi testi sono stati letti, dissezionati, fatti reagire con altri testi; dall’altro, questo talento micrologico (dov’era esattamente Dante nell’anno 1304, dove e quando comincia esattamente la stesura della Commedia, o della Monarchia, eccetera) fa quasi spavento, perché ogni tanto si ha la sensazione che il gioco non valga la candela, cioè che il tanto tempo e la tanta fatica che si dedicano al chiarimento di questioni del genere non siano proporzionali ai piccoli frutti critici, al piccolissimo incremento di sapere che se ne ricava.

Cammarosano ha un sovrano – e direi spesso salutare – disinteresse per i dettagli della cronologia dantesca. Scrive cose come “Mi attengo quietamente alle datazioni proposte da Giorgio Inglese” o come “Con una certa disinvoltura e semplicità affronterò il problema del perché Convivio e De vulgari eloquentia non abbiano avuto compimento”; e tende a tagliare corto là dove la dantistica ha battibeccato per decenni: “Secondo alcuni ci sarebbe un’allusione alla battaglia [di Montecatini, 1315] in Pg XXIII, vv. 109-111, ma a me non sembra probabile” (sono i versi in cui Forese maledice le scostumate donne di Firenze: “se l’antiveder qui non m’inganna, / prima fien triste che le guance impeli / colui che mo si consola con nanna”: io sono dello stesso parere, anche a me l’allusione non pare probabile). A un certo punto osserva che “dopo aver concluso la Commedia, Dante pose mano a un trattato teorico sull’Impero, la Monarchia”, salvo rimandare in nota, due pagine dopo, a un saggio di Casadei “che contiene tra le altre cose una discussione approfondita sulla datazione della Monarchia, del tutto divergente dalla mia idea secondo cui il trattato è successivo alla redazione finale della Commedia (probabilmente è il Casadei che ha ragione)”. Quando si dice la sprezzatura.

Ma poi, a fronte di questa indifferenza alle questioni di dettaglio, una chiarezza esemplare nell’analisi di problemi storici sostanziosissimi, nei quali anche l’esperto si addentra sempre con un po’ di timore: “Cercherò di spiegare [i mutamenti socio-economici del Duecento] come sempre nel modo più semplice”; oppure: “E possiamo cominciare col porci una domanda semplice: essendo che il governo cittadino era formato da diversi Consigli e altri organismi collegiali, in quale misura i residenti cittadini avevano la possibilità di parteciparvi?”. Il che non significa che sia tutta sintesi, perché la conoscenza sicura della storia aiuta anche nell’interpretazione puntuale di certi passi anche ben noti. Per esempio a commento di Inferno XXVI: “Ancora due parole su Ulisse. Anzitutto la ‘orazion piccola’. Questo è tecnico. A Firenze si era elaborata una teoria dell’eloquenza pubblica che prediligeva il discorso breve a quello amplificato e ampolloso” (e segue una bella pagina sulle consuetudini retoriche all’interno dei consigli fiorentini: propense appunto alla brevità).

Il libro è istruttivo, e raccomandabile soprattutto a studenti avanzati; ma anche gli studiosi faranno bene a dagli un’occhiata, tra l’altro perché Cammarosano chiama in causa una bibliografia storica che almeno in parte può essere sfuggita ai letterati: o che a me, almeno, era sfuggita. Un editing più attento avrebbe probabilmente migliorato l’equilibrio dell’insieme, rendendo più agevole la lettura (approfondimenti su singoli canti o figure si alternano un po’ disordinatamente a capitoli di sintesi, con rinvii interni non sempre facili da seguire, e l’ultimo capitolo sulla Cronica di Giovanni Villani è un po’ un fuordopera) ed evitato qualche refuso, qualche ripetizione e qualche svista (Bonifacio VIII muore nel 1303 non nel 1305; Giraut de Borneill non Guiraut; Cecco Angiolieri non risponde a poesie della Vita nuova, al massimo vi allude; la Cronica di Giovanni Villani è lunga, ma non misura “diecimila pagine”, eccetera).

Paolo Cammarosano, Giudizio umano e giustizia divina. Una lettura storica della Commedia di Dante, Trieste, CERM 2021.

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