Armando Petrucci (1932-2018) ha avuto un destino che pochi hanno avuto o hanno, nell’università. Professava una disciplina molto tecnica, periferica nell’ambito degli studi storici, la paleografia, ma i suoi lavori sono stati così acuti e originali da influenzare campi di studio anche apparentemente lontani come la filologia, la storia della lingua e la storia della letteratura italiana. Inoltre, è stato un intellettuale pubblico in un senso diverso da quello oggi corrente: non un commentatore da giornale, anche se sui giornali ha scritto occasionalmente durante tutta la sua carriera, ma un professore impegnato anche al di fuori dell’università in modi che oggi potrebbero sembrare (ma non sono) inattuali.
In questi ultimi anni, amici e allievi hanno ripubblicato una parte dei suoi scritti più accessibili anche ai non specialisti. Nel 2017 è uscita un’ampia raccolta dal titolo Letteratura italiana. Una storia attraverso la scrittura (Carocci); l’anno scorso Viella ha messo insieme un volume di Scritti civili; e adesso la Luiss, in una nuova e più che benvenuta collana di ristampe, ripropone il celebre saggio La scrittura. Ideologia e rappresentazione, uscito prima come capitolo della Storia dell’arte italiana (1980), poi come libro autonomo nel 1986.
Dei tre, il libro più bello è il primo, che riunisce soprattutto i saggi scritti negli anni Ottanta per la Letteratura italiana Einaudi (e sia lode a lui che li scrisse ma, come nella poesia di Brecht, anche ad Alberto Asor Rosa che come direttore della Letteratura li seppe volere). Anche altri studiosi, sullo scorcio del Novecento, hanno lavorato combinando storia materiale e storia della cultura e delle mentalità, ma in Italia forse nessuno lo ha fatto con la sua larghezza di visione e, insieme, con la sua minuziosa conoscenza dei dati che quella visione metteva a sistema. Petrucci sapeva vedere e descrivere l’intero, in grandi saggi di sintesi; ma – cosa più rara – aveva un sovrano controllo dei dettagli. I suoi lavori di quegli anni non solo spinsero molti a riflettere su questioni su cui non si era ancora riflettuto, o non con la necessaria chiarezza, ma fecero entrare nell’orizzonte della ricerca nuovi metodi, nuovi oggetti culturali e nuove categorie analitiche (nel magnifico saggio sul Libro manoscritto, per esempio, la nomenclatura relativa ai vari usi, formati e modelli librari: il libro-registro, il libro da banco, da bisaccia, da mano, tutto un apparato terminologico e concettuale che è per esempio ancora costantemente presente a chi oggi si occupa di canzonieri della lirica italiana dei primi secoli). Erano saggi che non si mettevano via una volta terminati e schedati: li si portava con sé in biblioteca come guida metodologica e come cava di informazioni. Di quanti altri studi e studiosi si può dire lo stesso?
Il volume degli Scritti civili fa riflettere, e non solo in positivo. Per più ragioni, avrei evitato di ristampare la lettera che qui invece secondo cronologia (è del 1972) apre il libro, una lettera di dimissioni dalla Mediaeval Academy of America scritta per protesta contro la guerra in Vietnam, e in cui sciaguratamente si definiscono gli Stati Uniti come «la vivente reincarnazione» della Germania nazista. Mi sarebbe anche piaciuto un titolo più sobrio, ma forse questo è un problema mio: il carrozzone del civismo mi pare così affollato, di questi tempi, così colmo di intellettuali predicanti, da far sì che la parola civile mi suoni quasi vitanda. Ma a lui – che a questa parte del suo profilo intellettuale teneva molto, e che non era immune dalla vanità – probabilmente sarebbe piaciuto. In ogni modo, si tratta per buona parte di recensioni; solo che Petrucci era uno storico e un paleografo, un uomo di archivi e di università, recensire libri non era veramente il suo mestiere, e su certe cose e certi autori gli mancava semplicemente un’informazione adeguata, perché non si può studiare tutto. Elogia Foucault perché Foucault se la prende col potere; biasima Bloom perché se la prende con Gramsci. Non molto più di questo. Era un grande studioso del passato, mentre non direi che sul presente avesse cose particolarmente profonde da dire. Anche le pagine che ha dedicato alle scritture esposte post-68 – graffiti, murales, semplici slogan scritti con lo spray – e su cui molto si è discorso, come esempio di metodo scientifico applicato all’attualità, sono simpatiche ma preteribili. Decisamente più belli, e questi veramente civili, sono invece gli articoli dedicati all’università, che contengono proposte e osservazioni di grande intelligenza, e a distanza di decenni ancora largamente valide, per esempio sull’insensatezza dei giganteschi e finanziatissimi progetti multidisciplinari in campo umanistico, e di contro sulla sensatezza dei piccoli progetti monodisciplinari parcamente finanziati; sull’obbligo di residenza per i docenti, che allora più di oggi avevano la tendenza a fare anche un altro mestiere, e a mandare in aula gli assistenti in vece loro; oppure sul dottorato di ricerca come «precariato per giovani abbienti e meritevoli». E altrettanto belli e partecipi sono poi i ritratti di studiosi amati come Fornaciari, Cardona, Levi Della Vida: Petrucci non ricordava con particolare calore i suoi anni di studente universitario, ma gli interlocutori e i maestri aveva saputo trovarseli più tardi, sia dentro l’università sia nelle altre istituzioni culturali romane.
Quanto a quest’ultima riedizione, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, si tratta di un libro bello e difficile, perché mette in campo e sollecita competenze che rientrano in più campi di studio. Petrucci vi traccia una storia delle scritture esposte dall’Impero romano all’età contemporanea tenendo fermi soprattutto due centri d’interesse: da un lato, il modo in cui sulla scrittura si proiettano le differenze di classe e di cultura, con una speciale, inedita attenzione per gli scriventi che vengono dal popolo (ma già nel 1978 era uscito su «Scrittura e civiltà» un saggio che fece epoca, Scrittura, alfabetismo ed educazione grafica nella Roma del primo Cinquecento: da un libretto di conti di Maddalena pizzicarola in Trastevere; e del 1982 è una mostra fortunata su Scrittura e popolo nella Roma barocca); dall’altro, il modo in cui interagiscono e s’influenzano a vicenda le scritture librarie e quelle epigrafico-monumentali (detta in breve: i lapicidi imparano dai tipografi, e viceversa), con alcuni interessanti casi di studio relativi all’attività scrittoria di artisti come Raffaello e Michelangelo. Nell’edizione Einaudi la struttura stessa del libro non aiutava: il testo faceva di continuo riferimento alle immagini (quasi tutte fotografie fatte dalla moglie di Petrucci, Franca Nardelli), ma le immagini erano disposte tutte quante al centro del volume, sicché la lettura era un continuo, defatigante passare da una pagina all’altra, da una riga a una fotografia. I curatori dell’edizione della Luiss invece hanno disposto le fotografie nel corpo del testo, e questo semplice accorgimento basta a rendere la lettura molto più fluida. Inoltre, il volume è aperto adesso da una bella introduzione di Nicolas Barker, e chiuso da una Guida alla lettura firmata da Antonio Ciaralli. Non si può dire che sia un altro libro, rispetto all’edizione del 1986, ma certamente è un libro migliore, che chiunque si occupi di parole e immagini, o chiunque le ami, dovrebbe leggere con la matita in mano.
Dai libri – tanto dai saggi specialistici quanto da quelli di taglio più divulgativo – emergono alcune caratteristiche dello studioso, e tra le tante ne indicherei soprattutto tre. In primo luogo, Petrucci aveva un’impressionante cultura storica, dall’antichità all’età contemporanea, una cultura che quanto al Medioevo e alla prima età moderna nasceva dallo studio dei documenti originali, cioè dall’archivio più ancora che dalla biblioteca: non per caso tra i suoi maestri alla Sapienza ricordava con speciale ammirazione Federico Chabod, che – studente negli anni Cinquanta – aveva fatto in tempo ad ascoltare; e molto deve aver imparato poi lavorando per anni al Dizionario Biografico degli Italiani, per il quale ha compilato decine di voci, più d’una della densità e dell’estensione di una piccola monografia. In secondo luogo, aveva una formazione classica molto solida e sapeva bene il latino: competenza quasi scontata per i paleografi della sua generazione, forse meno scontata oggi, quando la specializzazione precoce costringe a ridurre lo spettro degli interessi culturali, ed è difficile trovare il tempo per aggiornarsi e, insieme, per leggere Gregorio Magno o Raterio (lui lo trovava). In terzo luogo – me ne sono accorto tardi, durante le riletture, non durante le letture – Petrucci scriveva benissimo, merito un po’ dell’educazione classica, un po’ del sicuro possesso del gergo tecnico dello specialista (in certi passaggi della Scrittura affiora un talento per la descrizione e la definizione che fa pensare alla prosa dei migliori storici dell’arte), un po’ merito di un eccellente orecchio naturale. Come mi ha fatto osservare uno dei suoi allievi più bravi, Marco Cursi, era particolarmente brillante negli esordi. La scrittura. Ideologia e rappresentazione comincia così: «A chi l’avesse percorsa con l’animo e l’attenzione del turista non frettoloso, una qualsiasi città dell’Impero romano, fra I e III secolo d.C., sarebbe apparsa caratterizzata non solo e non tanto dalle statue, dai templi, dai luoghi pubblici di ritrovo, dai colori e dal traffico, quanto dalle scritte, presenti dappertutto, nelle piazze e nelle strade, sui muri e nei cortili, dipinte, graffite, incise, sospese in tabelle lignee o tracciate su riquadrature bianche, diversissime fra loro non soltanto per aspetto, ma anche per contenuto, essendo ora pubblicitarie, ora politiche, ora funebri, ora celebrative, ora pubbliche, ora privatissime, di appunto o di insulto, o di scherzoso ricordo». Un po’ troppo, forse: sembra Times Square. Ma l’immagine del turista «non frettoloso» per le strade dell’Impero è un’invenzione degna di un bravo narratore, e, quanto alla sintassi, non so quanti studiosi o scrittori oggi saprebbero tenere in piedi in maniera altrettanto armonica un periodo così articolato.
Quanto al metodo, è bene chiarire che questa reinterpretazione della paleografia come ‘storia della cultura scritta’ non ha affatto implicato l’oblio dei fondamenti della disciplina. «In realtà – osserva Cursi – Petrucci per gran parte della sua giornata faceva quello che fanno i paleografi tradizionali, almeno i più bravi: descriveva, datava e localizzava scritture. Ampliare i confini della disciplina non ha voluto dire, per lui, sostituire i concetti alle cose, buttarsi sulla sociologia. In questo gli ha giovato molto la lunga esperienza di archivista e di bibliotecario alla Corsiniana, il contatto con la pratica della descrizione e della catalogazione». Di fatto, i libri di Petrucci che quasi tutti quelli del mestiere (e anch’io) hanno in casa sono La descrizione del manoscritto e la Breve storia della scrittura latina, che sono libri diciamo ‘di base’, neanche particolarmente innovativi. «Così, mentre negli anni Settanta e Ottanta a Firenze Casamassima provava a importare nello studio dei manoscritti il metodo strutturale, Petrucci restava fedele, in sostanza, a quello che gli aveva insegnato Bartoloni a Roma, e a quello che aveva imparato soprattutto dai grandi paleografi del pieno Novecento come Cencetti, Mallon, Marichal, Bischoff».
I libri però non bastano a illustrare le virtù dell’insegnante, uno dei due o tre migliori insegnanti che abbia incontrato in vita mia. Su questo bisogna spendere qualche parola in più. Più d’uno degli Scritti civili sfiora o tocca la questione del mestiere del docente, dei doveri del docente nei confronti della comunità e degli studenti. Per esperienza, direi che più uno pontifica sull’etica del professore più poi all’atto pratico mette da parte quest’etica e queste buone intenzioni, e si comporta da scellerato. Invece in Petrucci mi pare ci fosse una perfetta identità tra ciò che diceva e ciò che faceva. «Che posto meraviglioso sarebbe l’università, se non ci fossero gli studenti!». È una vecchia battuta che a molti professori ogni tanto sarà capitato di pronunciare. A lui certamente no: gli studenti gli piacevano, gli piaceva stare con loro, forse anche perché non aveva figli; quando, in un’intervista, ha detto di aver imparato da loro più di quanto gli avesse insegnato, è probabile che fosse sincero. Sapeva ascoltare, e aveva l’umiltà e l’intelligenza di accettare consigli, anzi di sollecitarli, quando la conversazione toccava campi o temi che non gli erano familiari. Quanto alle lezioni, quelle di paleografia vanno preparate anche meglio di quelle di altre discipline perché bisogna munirsi di riproduzioni, oggi di slide: lui le preparava sempre. Le lezioni di paleografia possono anche essere mortalmente noiose, perché per gran parte del tempo si parla di unità codicologiche, o del tratteggio della ti o della gi, ma lui sapeva ravvivarle con spirito e ironia, e soprattutto attingendo a un repertorio di aneddoti che ancora adesso mi càpita di gabellare come miei per decorare le mie lezioni. Aveva fatto a lungo il bibliotecario ai Lincei, maneggiava perfettamente quelli che si chiamano strumenti della ricerca, cioè quei libri – dizionari, enciclopedie, repertori bibliografici – la conoscenza dei quali fa la differenza principale tra lo studioso e l’amatore. Ci portava in archivio e in biblioteca per vedere i manoscritti e per mostrarci come si interrogano. In quelle uscite, la lezione finiva con cumuli di libri sul tavolo con i quali avevamo imparato a familiarizzarci: così ho imparato a usare la Pauly-Wissowa, il Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, il Briquet per le filigrane, il Cappelli per le abbreviazioni.
A me poi – e non solo a me, ho scoperto più tardi – ha insegnato a scrivere. Non era in senso stretto il mio professore, il mio relatore, in un mondo in cui purtroppo, allora forse più di oggi, ‘si appartiene’ a qualcuno; ma era enormemente disponibile ed enormemente paziente, e non considerava mortificante leggere e correggere riga per riga i compititi di una matricola. Ho conservato i dattiloscritti con le sue correzioni in margine, correzioni precise e indulgenti, anche là dove io col senno di poi tanto indulgente non sarei stato: recte!, quando l’argomentazione tornava; riformulare, quando, più spesso, l’argomentazione non tornava. Ma soprattutto, soprattutto – ed è una parola che mi ritrovo ancor oggi a ripetere e a scrivere spesso, certo a causa del suo imprinting – sciatteria!, ogni volta che una frase zoppicava, o che un rinvio bibliografico era incompleto, o una nota mal congegnata. Tutto questo fatto con olimpica calma, con bonarietà. L’unica volta in cui perse la pazienza, nel corso di una conversazione, fu quando gli nominai Paul Zumthor: ma non la perse con me, la perse con Zumthor, che oltre ad essere un medievista ai suoi occhi un po’ troppo corrivo gli aveva rubato il titolo Leggere il Medioevo che lui avrebbe voluto usare per un suo saggio, poi intitolato Medioevo da leggere.
Venne a insegnare a Pisa nel 1991, lasciando la Sapienza e Roma. Aveva quasi sessant’anni, e non fu un passaggio sereno, o indolore. A Roma, Petrucci dirigeva l’Istituto di Paleografia, in un ambiente molto vivace e popolato: di colleghi e collaboratori molti stimati, di studenti iscritti e di studenti atipici come quelli che avevano seguito i suoi corsi delle 150 ore. All’interno del dipartimento era nata la rivista «Scrittura e civiltà», di cui era diventato direttore. Ma per una di quelle riorganizzazioni interne che ogni tanto funestano la vita universitaria, l’Istituto di Paleografia venne chiuso. Gli offrirono una cattedra alla Normale: un posto prestigioso, tranquillo, ordinato, «con belle aule e bei cessi, che sono importanti», lontano dalle beghe romane, in una cittadina in cui sarebbe stato più facile invecchiare. A Roma, raccontava, per andare da casa in università gli ci voleva quasi un’ora di autobus. Accettò. Ero presente alla sua prolusione, alla quale intervenne una larga rappresentanza del jet set accademico pisano, e che fu un successo; e ho seguìto i suoi corsi negli anni seguenti (per la verità senza diventare granché come paleografo). La pace e la semplicità della vita pisana gli piacevano, e anche il quarto d’ora a piedi che c’era tra casa sua e la Normale, ma a un certo punto – abbastanza presto, se ben ricordo – la pace e la semplicità furono persino troppe. A Roma, Petrucci non soltanto aveva un numero cospicuo di studenti e di tesisti, non soltanto poteva interagire con colleghi della sua disciplina, ma aveva anche un ruolo pubblico che lo impegnava e lo lusingava. C’erano stati o c’erano la rivista, il sindacato, le lezioni serali per gli studenti lavoratori, le grandi biblioteche piene di vecchi amici, le mille occasioni che una città grande offre a uno studioso così poliedrico. Alla Normale gli studenti erano pochi. Ottimi, per lo più, ma pochi. E i tesisti anche meno. Gli studenti della Normale scelgono il proprio campo di studi molto presto, spesso già al primo anno, ed è difficile che qualcuno scopra dentro di sé, a diciannove anni, la vocazione per la paleografia, di solito ci si orienta verso materie meno strane come la storia o la storia della letteratura o la filologia classica. Intervistato nel 2012 da Francesco Erbani, Petrucci ha detto che aver accettato di trasferirsi a Pisa era stato «un errore». Aveva ottant’anni, le sue condizioni di salute non erano buone; ma non c’è ragione di pensare che non fosse sincero, e che quella convinzione non l’avesse da tempo. Del resto, oggi spostarsi è più facile, pendolare si può con un certo agio; ma trent’anni fa non c’erano ancora le Frecce, e poi Petrucci voleva esserci, voleva fare lezione e ricevere gli studenti e studiare in biblioteca, non passare la sua vita sui treni. Roma però era stata e continuava ad essere la sua città, l’aveva percorsa in lungo e in largo, studiata, descritta: abbandonarla voleva dire abbandonare un modo di essere, e di essere percepito, che gli piaceva molto. E comunque non si cambia città a sessant’anni.
Ma per tutti noi che l’abbiamo frequentato, quella strana decisione di cambiare aria e città è stata una vera fortuna. In quegli anni a Pisa non era rara la figura del professore impegnato, che portava nei suoi studi e nelle sue lezioni le proprie convinzioni politiche. Qualcuno lo faceva con intelligenza, qualcuno con lo zelo e la stupidità dell’ideologo: dopo tanti anni ancora non mi capacito di certi comizi che mi è toccato ascoltare, deprimentissimi non per l’inosservanza dell’etica weberiana ma per il loro infantilismo. Benché fosse dichiaratamente marxista e comunista, Petrucci – almeno il Petrucci maturo che ho conosciuto negli anni Novanta: è probabile che negli anni romani fosse diverso – sapeva tenere distinti i due àmbiti. A lezione parlava del Medioevo e basta; e non credo che ci sia pagina dei suoi studi in cui il suo orientamento politico si sovrapponga o faccia velo al suo giudizio di studioso (anche per questo non mi piace che i suoi Scritti civili si aprano con una pagina così avventata: non era la sua voce, almeno per come l’ho conosciuta). In fin dei conti, mi pare che proprio questo sia stato il suo capolavoro: aver aperto nuove vie alla sua disciplina, fecondandone altre, illuminando la cultura e la vita non solo e non tanto dei grandi uomini – come Coluccio Salutati, o il Francesco Petrarca a cui ha dedicato una monografia ancora esemplare – quanto quelle degli scriventi di estrazione più umile, senza che questo volgersi verso il basso lo abbia portato a forzare l’interpretazione del materiale che aveva riscattato dal silenzio degli archivi, o a flirtare con i pensatori allora alla moda. Non saprei indicare una più intelligente e fruttuosa declinazione dell’impegno.