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Su “Le regole del lusso” di Maria Giuseppina Muzzarelli

Il Foglio30 Maggio 2020

Nel canto XXIII del Purgatorio, nel girone dei golosi, Dante incontra l’amico di gioventù Forese Donati – tanto magro e consunto da essere irriconoscibile – e con lui si mette a parlare di Firenze: la città che Forese aveva lasciato meno di cinque anni prima, morendo, e che Dante lascerà nel 1301, esule, e nella quale non farà mai più ritorno. Quando parla della Firenze dei suoi anni, Dante ha sempre – nella Commedia, nella Monarchia, nelle lettere – parole amarissime, ma in genere se la prende con i papi e gli imperatori e i loro aiutanti. Qui invece fa dire a Forese qualcosa non a proposito della politica fiorentina ma dei cattivi costumi dei suoi concittadini, anzi delle sue concittadine. È appena venuto nel discorso il nome di Nella, la moglie molto rimpianta di Forese, che con le sue preghiere ha abbreviato il soggiorno in purgatorio del marito, ed ecco che Forese le paragona la mala razza delle donne fiorentine:

O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?

Che vuoi che ti dica, dice Forese a Dante: vedrai che presto alle «sfacciate donne fiorentine» verrà proibito di mostrare in giro il seno mezzo nudo: ma certo è roba degna dei barbari o degli arabi (sic) che, per fare in modo che esse vadano in giro coperte, ci sia bisogno che la Chiesa («spiritali») o il comune («altre discipline») minaccino contromisure, e che qualcuno debba dir loro come si devono vestire per non offendere il comune senso del pudore.

No, non era un’epoca propizia al liberalismo. Ben pochi, forse nessuno, credeva che fosse ragionevole permettere a tutti di pensare quello che volevano, di aver fede in un dio a loro scelta, di leggere i libri che gli interessavano, di vestirsi nel modo che ritenevano più congeniale, di avere rapporti sessuali con chi gli piaceva. Donne? Bene. Uomini? Benissimo. Tre o quattro insieme? Accomodatevi. No, per questa vera rivoluzione del pensiero e dei costumi che possiamo sintetizzare come il diritto di essere lasciati in pace (suona prosaico ma è uno dei più alti e commoventi traguardi raggiunti dall’umanità: fiumi di sangue sono corsi perché alla fine vincesse questa buona causa, anche se non si era del tutto consapevoli che proprio quella era la posta in gioco) bisognerà aspettare età più illuminate, e in sostanza il pieno Novecento, i nostri anni. In tante parti del mondo, là dove la luce della società aperta balugina appena, bisogna ancora aspettare.

Ora, la libertà di pensiero è difficile misurarla, perché sta nei cuori e nelle menti; e la libertà d’espressione ha quasi sempre trovato le sue vie traverse per affermarsi, beffando i censori: per secoli le chiese e gli stati hanno tentato di calpestare l’una e l’altra, a volte riuscendoci a volte no, e la lunga resistenza a questa violenza da parte degli artisti, dei filosofi, degli eretici di qualsiasi specie forma un capitolo eroico della nostra storia, e giustamente la si impara a scuola. A scuola non s’impara granché invece – non si saprebbe forse in quale materia trattarne – sull’altrettanto lunga e severa guerra contro le pratiche e i costumi, cioè contro l’apparenza, che per secoli ha impegnato da una parte l’Autorità costituita (e i suoi zelatori come, ahimè, Dante Alighieri) e dall’altra quelli che volevano essere lasciati in pace non nei reami dello spirito o della fede, per esprimere le proprie idee, ma nella vita di ogni giorno, per poter indossare questo o quell’altro vestito, colorato in un certo modo, guarnito di certi gioielli…

Non si poteva fare? No, per secoli non si è potuto fare, perché le leggi suntuarie punivano il lusso eccessivo e dicevano ciò che si poteva o non si poteva indossare, calibrando tali prescrizioni a seconda delle occasioni del calendario cristiano, dell’età del cittadino o, più spesso, della cittadina, della sua condizione socio-economica (cavaliere/borghese/popolano, maritata/vedova).

Il nuovo libro di Maria Giuseppina Muzzarelli Le regole del lusso (Il Mulino) parla di questi aspetti della vita nel tardo Medioevo e nella prima età moderna, con una particolare attenzione per la Toscana e l’Emilia, le due aree d’Italia per le quali resta una più robusta, e precoce, documentazione. È una lettura interessante, a volte esilarante, perché la normazione raggiunge spesso livelli quasi comici di minuziosità e capriccio. Si eccepisce sull’ampiezza delle scollature (Dante avrebbe approvato), si misura la lunghezza degli strascichi, si vietano i vestiti troppo appariscenti, i tessuti a righe o a scacchi, la policromia, i colori sgargianti (una censura speciale cade sul colore rosso), e insomma lo Strano: «Sembra di capire – osserva Muzzarelli – che fossero proibite le vesti dimidiate, metà di un tessuto e metà di un altro, metà di una tinta e metà di un’altra, ma anche quelle a righe di molti colori, quelle ricamate e infine le vesti di tessuti preziosi come lo sciamito».

E una normativa anche più minuziosa riguardava fibbie, cinture, spille, che non dovevano essere eccessive né nella foggia né nelle dimensioni né nel pregio dei materiali. Leggendo il canto di Cacciaguida ci si può meravigliare del fatto che Dante insista tanto sulle cinture:

Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona […]
Bellincion Berti vid’ io andar cinto
di cuoio e d’osso…

Ma le cinture erano accessori molto più importanti di quanto non siano oggi, perché erano necessarie per serrare tuniche e ‘gonnelle’, e insomma abiti più ampi di quelli odierni, meno aderenti al corpo, e quindi si vedevano di più, e più solleticavano la vanità di chi le portava (una cintura ingioiellata era spesso il regalo di nozze dei mariti benestanti alle mogli).

Perché tutto questo? Perché i governanti delle città italiane ed europee decidono di legiferare sull’abbigliamento dei loro sudditi o cittadini? La religione naturalmente ha un suo peso: tutte le fedi impongono sobrietà ai loro adepti (non alla loro gerarchia!), ed essendo spesso il potere civile intrecciato a quello religioso si capisce che le leggi suntuarie abbiano potuto essere presentate come provvedimenti bene accetti al Padreterno: «spiritali o altre discipline», scrive Dante, prospettando appunto una collaborazione, un’integrazione tra il potere temporale e quello spirituale. Ma più importante ancora è la pace sociale: il lusso eccessivo attira invidia, e l’invidia può portare con sé la violenza, meglio perciò non dare al popolo questa occasione di scandalo. E c’è del resto, come accennavo, un’etica della convenienza che gli statuti non fanno che ribadire con prescrizioni ad hoc, dedicate alle varie categorie sociali: un certo lusso sarà concesso all’aristocratica, non alla popolana; e certi abiti o colori o accessori saranno dichiarati obbligatori per certi fuoricasta (prostitute, ebrei), con ciò rendendoli vitandi da parte dei normali bravi cittadini: la legislazione sul vestiario vuol anche dire che ognuno deve stare al suo posto («A Siena, dove le donne non potevano uscire di casa con le sole calze o con calze e pianelle e neppure con scarpe aperte o scarpe corrigiate (forse strette da lacci), le meretrici potevano portarle liberamente: un modo piuttosto efficace per costringere le donne a rispettare le limitazioni»). Infine, ma forse bisognerebbe dire in primo luogo, leggendo il libro di Muzzarelli s’impara che le leggi suntuarie convengono al legislatore che le promulga, cioè al suo Stato, perché attraverso di esse si faceva cassa. In due modi.

Da un lato attraverso le multe: «La prima cosa che balza all’occhio scorrendo le norme suntuarie di diversi periodi e differenti città è proprio la centralità della multa: ogni divieto, limitazione o dosatura era accompagnato dall’indicazione della relativa cifra da pagare». Dall’altro attraverso la bollatura. Chi possedeva abiti di particolare pregio, e di foggia o fattura che non avrebbero passato il vaglio degli ispettori, poteva fare ciò che si fa oggi con le opere d’arte: notificava al comune il possesso di certi capi d’abbigliamento, e pagando in anticipo una certa somma di denaro non rischiava che quei capi gli venissero confiscati. Win-win situation per l’autorità pubblica: se il possessore dell’abito pagava, i soldi entravano nelle casse comunali, venendo spesso destinati ad opere pie; se il possessore dell’abito non pagava, l’abito stesso, requisito, veniva smembrato per recuperare il tessuto: «a Bologna nel 1545 si stabilì che gli oggetti proibiti sequestrati alle donne venissero smembrati: “le quali cose perse si habbino a fendere in pezzi, publicamente in piazza, et poi distribuire et donare a’ luochi pii”».

In un libro d’argomento da noi così remoto va segnalato qualche inatteso elemento di attualità. Perché al di là del vantaggio economico c’è anche, nelle antiche leggi suntuarie, un’idea ben precisa di cos’è la virtù, e la virtù è, semplicemente, il conformismo, il non sporgere troppo rispetto alla media, il non dare nell’occhio: dal pulpito e dal broletto si raccomanda la sobrietà, si castigano l’eccentricità e il lusso, ma all’orizzonte c’è la divisa grigia di Mao, con tutto ciò che questo comporta per la libertà del pensiero: bisogna ricordarsene, bisogna benedire il diritto al cattivo gusto, ogni volta che si maledice la smania ostentativa degli influencer.

L’altro elemento di attualità, l’altra cosa che, leggendo questo libro, ci fa pensare alla vita di oggi, all’Italia di oggi, è lo zelo dei delatori. Nella macchina del controllo sociale erano coinvolti tutti i cittadini: la delazione era incoraggiata e premiata, vale a dire che chi denunciava alle autorità la violazione delle norme suntuarie riceveva parte del denaro della multa: «i cosiddetti ‘amorevoli della città’ – scrive Muzzarelli – erano delatori o denuncianti che, ricevuti, ascoltati e “tenuti secretissimi”, collaboravano con i governanti ricavandone vantaggio economico e procurandone ai luoghi pii». La denuncia poteva essere anonima, bastava un biglietto lasciato in un’urna, all’ingresso della chiesa, bastava anche soltanto la «voce pubblica»: ed ecco le multe per i trasgressori, ecco le pene corporali per i sarti e i cucitori (Spoleto, 1582: «tre tratti di corda da darseli pubblicamente nel giorno del mercato»). L’animo e le ragioni con cui si facevano queste denunce si possono facilmente immaginare ma, se l’immaginazione non aiuta, gli archivi ci regalano istantanee meravigliose come questa – Foligno, domenica 3 agosto 1567: «Domenica che furonsi tre di agosto ho visto una giovane della nostra città, figliuola di un cittadino del consiglio, portare una veste di seta quale ha fatto mormorare tutta Foligno et io ho udito parlare questo et quello che diceva: “Mo’ semo per andare in precipitio, che oltre le altre spese che si fanno in maritare una giovane, non ci manca altro che di cominciare a mettere questa maledetta usanza di far vesti di drappo”».

 

 

 

 

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