Dante e la cultura fiorentina è un pezzo, un momento di una ricerca in corso da alcuni anni relativa alla cultura di Dante, e in particolare ai testi in volgare – originali o traduzioni – che possono aver influenzato la sua formazione negli anni fiorentini. A coordinarla sono gli studiosi dell’Università di Notre Dame, guidati da un dantista di lungo corso come Zygmunt Baranski (qui si affiancano nella curatela Theodore Cachey e Luca Lombardo): ma vi partecipano molti dei più intelligenti interpreti di Dante sparsi tra l’Italia, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, per lo più giovani (ed è, con l’internazionalità, uno dei meriti del progetto: dare a studiosi giovani la possibilità di portare avanti e di comunicare le proprie ricerche).
Il libro consta di due parti. Nella prima ci sono i saggi ‘di contesto’, nei quali di Dante non è praticamente questione; nella seconda ci sono i saggi diciamo ‘applicativi’, quelli cioè in cui si cerca di adoperare la cultura fiorentina del secondo Duecento per illuminare questo o quel passo dell’opera dantesca, o questo o quell’aspetto della sua mentalità. A unificare le due parti, la figura cruciale, per la Firenze del suo tempo e per Dante, di Brunetto Latini.
Cruciale, perché nella vita e nell’opera di Brunetto Latini s’intrecciano molti fili diversi, tutti pertinenti per la definizione della fisionomia culturale dantesca. Brunetto è l’autore del Tresor, la grande enciclopedia scritta durante l’esilio in Francia, nella prima metà degli anni Sessanta, e perciò uno dei mediatori della cultura francese in Toscana (vedi i saggi, tra i migliori del volume, della storica Silvia Diacciati e della filologa Maria Teresa Rachetta). Ma Brunetto è anche l’intellettuale pubblico che attraverso la scrittura e l’attività politica tenta di modellare la formazione culturale dell’élite fiorentina, in ciò in certo modo anticipando l’analogo tentativo che Dante farà nel Convivio (vedi il saggio di Filippo Gianferrari). Infine, Brunetto è il commentatore dei classici, il volgarizzatore di Cicerone, e questa sua opera di mediazione ha probabilmente influenzato la visione del mondo latino che Dante mostra di avere nella Commedia e nel Convivio (ancora il saggio di Gianferrari e quello di Catherine Keen). A completare il quadro, i saggi di Enrico Faini e Johannes Bartuschat approfondiscono l’opera di un altro intellettuale fiorentino della generazione pre-dantesca, Bono Giamboni; e quello di Luca Lombardo valorizza un Libro di costumanza ampiamente diffuso nella Toscana di fine secolo («il Libro di costumanza – scrive Lombardo – introduceva nel panorama volgare toscano il portato di una tradizione filosofica risalente a Chartres»: e giustamente accenna ai possibili echi di questa tradizione nelle canzoni dantesche Tre donne e Doglia mi reca; ma forse andava citata soprattutto la più ‘neoplatonica’ delle rime di Dante, Amor, che movi tua virtù da cielo).
Queste ricostruzioni storiche sono solide, convincenti: si esce dalla lettura di questo libro con un’idea più chiara, cioè più complessa, della cultura fiorentina nell’età di Dante. Un po’ meno convincenti, per quanto comprensibili, sono i tentativi di rileggere questo o quel dettaglio dell’opera dantesca alla luce di questo o quel frammento di quella cultura. Forse bisognerebbe accontentarsi di illuminare lo sfondo e accettare il fatto che un po’ di penombra avvolga gli oggetti – i testi – che stanno in primo piano. Mi spiego. In uno dei più originali saggi della raccolta, Giulia Gaimari scrive che «c’è ancora molto da fare per inquadrare pienamente il rapporto che Dante intrattenne con Brunetto e con la sua opera, e per valutare il peso del magistero brunettiano in relazione alla formazione intellettuale dantesca».
Immagino che gli storici potrebbero dire qualcosa di simile circa gli eventi che fecero da cornice alla vita di Dante: «c’è ancora molto da fare per inquadrare pienamente…». Ora, commentando anni fa le Rime io ho avuto spesso l’impressione opposta, e cioè che la moltiplicazione degli studi – le migliaia di articoli e libri che ogni anno si pubblicano su Dante – abbia soprattutto generato entropia, e che i tanti approfondimenti volti a «inquadrare» la cultura dantesca, valorizzando fonti, rivelando allusioni, siano stati troppo spesso il viatico alla sovrainterpretazione, di solito con la cauzione di quelle formule apodittiche che ogni tanto fanno capolino anche in questo libro: è evidente che, non può essere casuale che, it can hardly be accidental. Forse di Brunetto in Dante (di tanti autori e opere in Dante) si è detto l’essenziale, forse insistere nello scavo può persino essere controproducente. E qualcosa di simile vale per i riflessi che gli eventi storici possono aver avuto sull’opera di Dante, e per le tracce che in essa, di quegli eventi, si possono trovare. In questi anni c’è stata una specie di gara a datare le poesie di Dante, o a fissare nel tempo la scrittura di questo o quel canto della Commedia. È certo, anche, un effetto collaterale della suddetta moltiplicazione degli studi: fissato il quadro generale, si lavora – minuziosissimamente – sui dettagli. Non dico che non ne siano venuti anche risultati interessanti, ma in questa gara (penso alla bibliografia su canzoni come Le dolci rime e Tre donne, delle quali si parla anche in questo volume) mi hanno sempre colpito due cose: il carattere ancipite degli indizi su cui si fondavano le varie ipotesi, e la virulenza con la quale queste ipotesi venivano sostenute. C’è ancora molto da fare, sì, ma nel senso di ridescrivere lo sfondo, la cultura circostante, come i saggi qui raccolti fanno molto bene: ma credo che di intertestualità o di analogie che can hardly be accidental si sia ormai un po’ tutti stanchi – e chi non lo è dovrebbe.
Dante e la cultura fiorentina. Bono Giamboni, Brunetto Latini e la formazione intellettuale dei laici, a cura di Z.G. Baranski, Th.J. Cachey Jr., L. Lombardo, Roma, Salerno Editrice 2019.