Libri

Il popolo italiano

Non è bello da dire, non getta una buona luce su di me, ma se mi guardo indietro, adesso che ho compiuto 48 anni e sembra incredibile, ho l’impressione che tutto quello che ho fatto nella vita sia stato cercare di allontanarmi il più possibile dalla gente ordinaria i cui volti affiorano dalle fotografie di Massimo Baldini. Gente ordinaria: un po’ meno che ‘gente normale’, un po’ più che ‘povera gente’: la gente ordinaria che avevo intorno a me a scuola, nei negozi in cui mia madre faceva la spesa, in vacanza con Estate Ragazzi. Per questo motivo, guardare e riguardare queste 83 fotografie è stato come sfogliare un album di famiglia felicemente dimenticato in un cassetto, perché quasi ogni pagina mi riportava col pensiero ai miei «wrong beginnings», e allo sforzo che ho fatto – decenni di libri e film e lingue straniere e viaggi, e conversazioni con gente non ordinaria, e un sacco di aplomb simulato – per mettermeli alle spalle (Philip Larkin, Aubade):

An only life can take so long to climb
Clear of its wrong beginnings, and may never.

‘Una vita sola può metterci così tanto a liberarsi dei suoi inizi sbagliati, e può non riuscirci mai’.

E in realtà non sono tanto le facce, ad essere familiari, quanto le situazioni. Il cibo, la macchina, la religione, i cellulari. Gli italiani di Baldini hanno soprattutto questo in mente, si dedicano soprattutto a queste occupazioni, a questi piaceri, e ciò dà al piccolo borghese che ha tradito la sua classe un brivido di riconoscimento, perché a parte i cellulari, che erano ancora da inventare, i miei nemici si dedicavano esattamente alle stesse cose (e per reazione mi è cresciuta dentro, e mi è rimasta, non solo una certa indifferenza ma una certa ostilità al cibo, alla macchina, alla religione: e ai loro devoti), salvo che in quelle anime semplici queste occupazioni, questi piaceri, prendevano i tratti della nevrosi e della dipendenza. Mangiare tanto, male, o meglio non male ma malsano, soprattutto fritti e dolci: torta e gelato la domenica, cinque o sei torte pannosissime per il compleanno. Due cucchiaini di zucchero nel caffè, come i bambini, anche a cinquant’anni. Parlare di cibo: la mattina parlare di quello che si mangerà a mezzogiorno, il pomeriggio parlare di quello che si mangerà la sera. Il giorno dopo, in visita ai parenti, parlare di quello che si è mangiato il giorno prima, anche con confidenze sulla digestione difficile, l’evacuazione, e un orgoglio particolare se si è mangiato tanto da stare male. Non per povertà – la povertà era già da tempo alle spalle – ma per incultura, mancanza di altri piaceri e interessi. Comprare la macchina, cambiare la macchina come orizzonte di vita; rinunciare ai viaggi, ai libri per la macchina e la benzina; usarla sempre, anche per andare a prendere il pane, ma soprattutto per imprese irrazionali come andare da una città all’altra per bere un caffè dopopranzo, e tornare subito, senza vedere niente se non l’autostrada. Non credere in Dio ma andare lo stesso a messa, appendere il crocifisso in soggiorno, segnarsi quando c’è il papa in TV, mandare i figli al catechismo, alla prima comunione, alla cresima, sposarsi in chiesa, e al pranzo di nozze mangiare tanto, male e malsano, e come dessert cinque o sei torte pannosissime. The circle of life.

Tutto questo disagio psichico era naturalmente il rovescio, il lato scuro di un sogno realizzato. Negli stessi anni in cui Frank fotografava gli americani Guido Piovene viaggiava per l’Italia per incarico della Rai. Il suo Viaggio in Italia uscì nel 1957, e l’ultimo capitolo tracciava un bilancio dell’esperienza. Nell’insieme era un bilancio positivo. La sempre agognata unità tra Nord e Sud adesso sembrava a portata di mano: «L’attuale dopoguerra – scriveva Piovene – ha iniziato, o sollecitato, alcuni processi fondamentali verso un’unità più profonda, e nel mio viaggio ho potuto coglierne i segni». Ciò che colpiva, nell’Italia del miracolo economico, era soprattutto l’attivismo, la sete di cambiamento. Al Nord: «Un viaggio per l’Italia ci porta davanti alla società più mobile, più fluida e più distruttrice d’Europa»; ma anche nel Mezzogiorno: «Ognuno valuti, con i suoi criteri e i suoi gusti, questa liquidazione del Sud classico e umanistico. Ma essa è inevitabile. Chi è affezionato al Sud dei nostri ricordi si affretti ad andare a vederlo […]. Quel Sud che, dove nulla vi interviene di nuovo, può apparirci decrepito, appena è stimolato dà prova d’una vitalità impressionante». Nello zelo dei provinciali inurbati, al Nord come al Sud, Piovene leggeva i segni di un progresso diffuso presso tutte le classi: «Io credo sinceramente che l’Italia si avvii, se non interverranno avvenimenti esterni, verso un periodo di benessere medio». Presagiva insomma quella metastasi del ceto medio che si sarebbe verificata soprattutto negli anni Sessanta-Ottanta, il ceto medio che «si è ascritta tutta la ricchezza, l’agevolezza del vivere, la scolarizzazione, la casa di proprietà, la prima televisione, la seconda televisione, il settimo telefonino, tutto» (intervista a Giuseppe De Rita, in Carlo Antonelli e Fabio De Luca, Discoinferno. Storia del ballo in Italia 1946-2006, Milano, Isbn edizioni 2006, p. 138). Dalle fotografie di Baldini ci guardano i beneficiari di questo smisurato balzo economico in avanti. Non hanno l’aria felice […].

 

 

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