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Su “Senza salutare nessuno” di Silvia Dai Pra’

Io appartengo alla generazione che quando sente i nomi Jugoslavia, Croazia, Serbia, ma anche Slovenia e Istria, pensa subito alla guerra. Negli anni Novanta, quando la Jugoslavia si è dissolta uccidendo una parte considerevole dei suoi cittadini, avevo vent’anni. Può darsi che i ventenni di oggi, quando leggono o sentono quei nomi, pensino alle vacanze in canoa sulla costa dalmata. Io penso al sangue: dev’essere l’unica regione del mondo che mi è più familiare per gli uomini politici e i generali – quasi tutti individui scellerati – che per gli scrittori. Silvia dai Pra’ ha qualche anno meno di me e anche lei ha visto la guerra del 1992, ma più da vicino di me, perché in uno di quegli slanci di idealismo-narcisismo che a un certo punto della vita s’impongono agli animi sensibili a poco più di vent’anni è partita per la Bosnia e qui ha fatto la sua esperienza di volontariato. In Senza salutare nessuno c’è una bella, autoironica descrizione di questa esperienza («avevano bisogno di capitale e di ingegneri e di architetti e di medici e non di rampolli della buona borghesia italiana iscritti al Dams»), ma è un’autoironia che non svilisce la tragedia, qui e in tutto il libro Dai Pra’ è troppo intelligente per essere cinica.

Ma le guerre balcaniche degli anni Novanta erano la conseguenza ritardata di altre guerre e paci novecentesche. Dai Pra’ aveva una nonna di origine istriana, Iole. Morta Iole, Dai Pra’ parte per l’Istria per ricostruire la storia di quel pezzo di famiglia, una storia che mai nessuno le ha veramente raccontato, né i genitori né la taciturna, sottomessa, Giobbe-like nonna Iole, la quale ha appunto attraversato da vittima quella storia novecentesca. Come si vede, la cornice – viaggio alla ricerca delle radici con risposte a vecchie domande inevase – è ovvia. Ed è ovvia anche la rete di relazioni tra i personaggi del racconto: una scrittrice-detective che si mette sulle tracce di un antenato infoibato, una serie di testimoni reticenti, se non proprio ostili, che a volte sembrano gli antagonisti che la scrittrice-detective ha dovuto foggiarsi per rendere il suo viaggio di scoperta più avventuroso; due discreti alleati: il compagno Nicola e la figlia Eleonora. Ma tutto sta a come si tratta, a come si scrive questa materia risaputa.

Risaputo era anche l’argomento di un precedente libro di Dai Pra’, Quelli che però è lo stesso: la scuola. Ma in quel caso Dai Pra’ aveva saputo inventarsi un registro dolceamaro azzeccatissimo (i libri sulla scuola pendolano sempre tra la vibrata protesta civile e il vaudeville, Dai Pra’ aveva avuto l’intelligenza di evitare l’una e l’altro). Ora, tutti i libri che parlano delle guerre mondiali contengono a un certo punto un elenco di morti; ma è stupefacente quanto sia piena di morti questa storia familiare. Morti di malattia, da rammentare agli antimoderni e agli adepti della decrescita felice («Alla sua nascita, sua madre aveva quattordici anni: a sedici aveva già tre figli, a diciotto era morta. Poche settimane dopo era morto anche suo padre – tifo, malaria, polmonite tubercolosi: in Istria si moriva come mosche»); ma soprattutto morti ammazzati, nell’ecatombe che sono gli anni Quaranta al di qua e al di là del nostro confine orientale: «Gli anziani mi raccontavano dei morti nella loro famiglia, li contavano alzando le dita vizze nell’aria calda: lo zio, il fratello, il cugino ammazzato» (di quali morti si parla qui? Degli anni Quaranta o degli anni Novanta?). E qui c’entrano appunto il registro e la voce, e il pericolo di sbagliarli.

Con questo genere di esperienze e di ricordi alle spalle, lo scrittore italiano medio avrebbe gonfiato il petto, si sarebbe messo a ragionare di Storia e delle lezioni della Storia, avrebbe indossato i panni del Testimone. Un po’ perché, forse contagiato dall’indignazione morale che soffoca i social network, anche la voce di chi scrive libri è sempre più spesso viziata dall’enfasi, non si accontenta di registrare ma sottolinea emotivamente, drammatizza; e un po’ perché abbiamo un rapporto sempre più moralistico con la storia nazionale: che non vuol dire soltanto trattare i fatti di un secolo fa con una partigianeria che sarebbe ridicola anche per i fatti di oggi, vuol dire anche pretendere di trarre da quei fatti una lezione edificante buona ‘per la prossima volta’, come se tutto il passato dell’umanità fosse lì sciorinato in attesa di diventare materia da predica.

In Senza salutare nessuno non c’è l’ombra di queste consolazioni: chi sopravvive e chi muore lo decide il caso, i miti sono pedine nelle mani dei violenti, nessuna Erinni aspetta i colpevoli, ‘salvare la memoria’ non è più possibile perché sono tutti spariti, e se è possibile non serve a niente. La pagina più bella di questo bel libro oppone a questo racconto da idioti pieno di furia e strepito l’impassibilità di un notturno leopardiano: «Facciamo lunghe camminate col passeggino per fare addormentare la bambina, strade senza marciapiede, ma tanto non passa mai nessuno: la luna illumina i vigneti, le strade minuscole si perdono in ghirigori e arabeschi tra i colli, ogni volta diciamo “arriviamo fino a vedere cosa c’è oltre quella curva”, e ogni volta oltre quella curva c’è sempre la stessa cosa, altra notte, altri colli».

Silvia Dai Pra’, Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria, Laterza 2019.

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