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Gli Enrico IV della Italian Theory

“Siamo re che si credono mendicanti”, ha ribadito tempo fa l’irremovibile Emanuele Severino al Corriere. Mi sono imbattuto nell’intervista mentre leggevo “Le mani su Machiavelli” di Pier Paolo Portinaro, un’onesta critica liberal-torinese alla cosiddetta Italian Theory, la costellazione biopolitica che va dal dionisiaco Negri all’ombroso Agamben, e di cui Roberto Esposito è il sincretistico banditore. Passando dal giornale al pamphlet, quei due mondi in apparenza lontani – l’uno staticamente parmenideo, l’altro destinato a girare freneticamente sulla sua ruota da criceto in attesa d’imboccare la tangente rivoluzionaria o messianica – mi si fondevano a poco a poco sotto gli occhi. Del resto anche Negri ci avvisa che “il non essere non è”: al diavolo la dialettica. Proprio quando ci sentiamo più atomizzati e irrilevanti che mai, con un gioco di prestigio libresco l’ex operaista ci ripete che l’Impero è appena un incubo della Moltitudine.

Tra i nostri marchi filosofici da esportazione trionfa quindi una positività assoluta. Di fronte ai vip dell’Italian Theory, che fanno a gara a chi è più radicale “nel guscio protettivo delle università”, Portinaro evoca giustamente quel Gentile di cui Severino ha introdotto l’opera, giudicandola l’esito più conseguente delle aporie occidentali. In effetti c’è molto gentilianesimo nell’unione di teoria e prassi a parole, nel cortocircuito tra vertigine metafisica e impeto interventista, nella “esterofilia provinciale” trasformata in “apologetica nazionale”. Parassitando l’asse Machiavelli-Vico-Gramsci, la Theory ripropone la leggenda di un’Italia che prima feconda coi suoi semi la filosofia europea, poi ne riporta a casa i maturi frutti franco-tedeschi rielaborandoli in una sintesi più densa. Nel caso, anziché Rosmini, Gioberti e il neoidealismo, al centro della leggenda sta la parabola che conduce dall’operaismo alla biopolitica. Secondo Esposito gli italiani si muovono “in una sorta di controtempo”; secondo la più sensata traduzione di Portinaro, propongono “versioni estremizzate” e arlecchinesche di idee altrui. Nella costellazione di questa filosofia, che abusa della metafora concentrazionaria e di latinismi un po’ teatrali, convivono attivismo cieco e neutralità, Uno e Molteplice, mito di una nuova carne e creazioni da spirito assoluto, pathos teologico paolino e minacciosi ultimatum alla Schmitt, violenza terribile e carità francescana. Evocando la sospensione dell’odiata legge e il ritorno a un’ambigua, indifferenziata “vita”, certe pagine sembrano ricondurci ad Auschwitz con amore. Se poi si aggiunge la tendenza a risolvere le emergenze geopolitiche per via etimologica, si capisce perché qui “la filosofia dell’atto gentiliana” diventi “filosofia dell’attualità”. Attivi non reattivi, ecco lo slogan. Il pensiero italiano, che per Esposito sarebbe naturaliter “affermativo”, ha una vera e propria fobia della negazione e della mediazione: con la “rappresentazione” rifiuta anche la “rappresentanza”. In termini negriani, il potere costituente dell’Io moltitudinario fa esplodere il non-io del morto potere costituito; in termini portinariani, l’“assemblea” è l’equivalente speculativo del populismo a due facce, erede dell’unico logo originale già esportato dall’Italia all’epoca di Gentile.

Anche oggi, il problema è conciliare antagonismo e immanentismo. La Theory vagheggia una “differenza” che non contraddica il “piano di immanenza”, un “impolitico” che fondi una politica irriducibile all’ordine, un “esodo” che eviti il terreno di scontro tradizionale con l’avversario, una “comunità” fatta di “singolarità qualunque”, sottratta alle appartenenze e all’aut-aut tra privato e pubblico. Ma questi punti di fuga sono sempre figure dell’Irrappresentabile, così come d’altra parte lo sono l’Impero e la Moltitudine, enti non solo deterritorializzati ma incommensurabili, che potrebbero paragonarsi a simboli decostruttivi cambiati di segno o agli spettri di quel misticismo degradato sotto cui Croce rubricava la svolta attualista di Gentile. Convinti che ogni posizione, ogni definizione e ogni identificazione siano reificanti, alienanti o escludenti, i teoreti sembrano credere di poterle esorcizzare con qualche perifrasi-tic, ossia con le gride della loro prosa monocorde. E a proposito di gride, anche e proprio se si coltiva una visione del mondo diversa da quella di Manzoni, bisognerebbe avere almeno la metà del suo coraggio nel dichiarare cosa costa davvero essere un “volgo disperso che nome non ha”, e cosa implicano davvero i “tumulti”.

La verità è che la celebrazione tautologica di tutto ciò che esiste non lascia strade aperte a chi voglia trovare una leva per la prassi senza rinunciare a distinguere caso per caso valori e disvalori. Si può annuire sempre, e tacere; oppure si possono giudicare le singole situazioni con un’analisi davvero immanente, abbandonando l’ontologia (fu la via del gentiliano Calogero); o infine si può restaurare la dialettica, che sola permette di collegare universale e particolare senza trucchi. Altrimenti, se si pretende di assegnare un’aura filosofica a ogni opinione contingente, si finisce per contraddirsi o per cedere a una grossolana classificazione della cronaca: così Gentile su guerra e fascismo, Deleuze sul ’68, e gli italiani del Duemila sui movimenti internazionali.

Questo equivoco spiega la deriva giornalistica della nostra filosofia, che davanti a qualunque evento ripete lo stesso refrain sull’Essere, sul General Intellect o sui “dispositivi” (il gergo metafisico è gemello del gergo burocratico), o viceversa scioglie il suo orizzonte concettuale in sbiaditi editoriali liberaldemocratici. Se si entra nel merito, insomma, l’Ineffabile s’incarna nella banalità, e la filosofia mostra di non saper stabilire le giuste proporzioni, anche linguistiche, tra i diversi piani dell’esperienza, ossia di non saper istituire un rapporto attendibile tra teoria e militanza. Dato il successo di questa falsa pienezza senza negazione né passato, chi indica un male o una mancanza, invitando magari a confrontare l’oggi con l’ieri, è considerato spesso come un moralista o un ingenuo. Non essendoci più un “fuori”, cioè un’alternativa plausibile sulla quale far perno, i teoreti ci consolano con un rovesciamento verbale: “ti senti sconfitto, e non sai che hai vinto”; “sembri impotente, ma sei onnipotente”; “il regno del comunismo è sempre già qui, e lo sfruttamento è appena il suo fantasma”.

Tutto si brucia così nella performance di un presente senza fessure, nella retorica di un atto puro che confonde parola e azione. È una retorica che oltre alla recente “ideologia italiana” coinvolge più generalmente la cultura contemporanea: ad esempio la troppa letteratura che si muove in un vuoto artificiale, e che per ritrovare l’attrito con l’alterità rimossa esibisce stili bombastici o parla di continuo, come la filosofia, di “potenza” e di “sfondamenti”. L’immaginario viene scambiato con il reale. E come annotava Antonio Gramsci, nulla è più comico del demagogo che “non sa di esserlo ed opera praticamente come fosse vero nella realtà effettuale che l’abito è il monaco e il berretto il cervello. Machiavelli diventa così Stenterello”. Sempre nei “Quaderni”, Gentile è associato a Bouvard e Pécuchet. Ma se sfoglio i saggi gentiliani a me vengono in mente soprattutto certi personaggi di un suo corregionale di cui pure Gramsci si è occupato tempestivamente, Luigi Pirandello. A volte immagino che quell’oratoria ansante e quelle astrazioni febbrili, parossistiche, vengano interrotte di colpo da una battuta della signora Frola o di Madama Pace. Anche davanti ai biopolitici mi capita qualcosa di simile. Solo che oggi i sofismi d’inizio Novecento hanno perduto la qualità drammatica. I nuovi pensatori italiani sono calmi, privi di problemi identitari, e appunto per questo possono fantasticare comodamente sull’elisione dell’identità “in teoria”. Nelle loro stanze arredate dal bric-à-brac della filosofia di tutti i tempi, gli Enrico IV della Theory fingono la follia per puro narcisismo, ovvero per l’ebbrezza di un potere accademico che mai dovrà rispondere delle sue idee.

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