Credo nella verità dei luoghi. Fu soprattutto per questo che nell’agosto di una decina di anni fa risalivo la strada tortuosa verso Barbiana dove don Lorenzo Milani trascorse gli ultimi tredici anni della sua breve vita. Arrivato, visitai subito il cimitero dove don Milani è sepolto accanto alla Eda, la governante, e alla mamma di Eda Pelagalli (che don Lorenzo chiamava “la nonna”). “Con l’Eda ho solo debiti e nessun credito”, scriverà nel testamento. Fui fortunato perché era il giorno di San Lorenzo e antichi parrocchiani di San Donato di Calenzano e di Barbiana, le due parrocchie dove svolse la sua attività pastorale, avevano organizzato una messa in suffragio. A celebrarla era stato chiamato Don Corso Guicciardini, antico compagno di seminario di Lorenzo, dal tratto austero e aristocratico che gli viene dall’antica famiglia della nobiltà toscana a cui appartiene. Poi visitai le povere stanze della Pieve, quelle in cui con Don Lorenzo faceva scuola. C’erano i fratelli Gesualdi, suoi antichi allievi (che mi diedero l’impressione un po’ ambigua di sentirsi i depositari ufficiali dell’eredità milaniana), ma fui colpito soprattutto dalla ristrettezza degli ambienti. Minuscole stanze dove affrontare i rigori dell’inverno dell’Appennino tosco-emiliano.
In quei giorni andai anche a Volterra a visitare Giorgio Pecorini, giornalista e amico di don Milani, che mi rimandò soprattutto ai suoi scritti. Ebbi l’impressione di una persona integra, la stessa impressione di don Lorenzo, che lo ebbe al suo fianco, con intelligenza e lealtà, nelle polemiche giornalistiche che i suoi scritti immancabilmente suscitavano. Poi tornai a Milano e non feci parola con nessuno di questa esperienza. Lessi le belle biografie che gli hanno dedicato Pecorini e Neera Fallaci (quest’ultima su ispirazione di Oreste Del Buono che fu compagno di liceo, al Berchet di Milano, di Don Lorenzo). Ebbi poi occasione di parlarne con Elena Brambilla, nata Pirelli, che con don Milani ebbe un rapporto intenso, nei primi tempi quasi al calor bianco. Elena era molto anziana, semicieca, ma ancora vigorosa intellettualmente. Si rammaricava che in uno sceneggiato su Don Milani era stata raffigurata come una ricca signora milanese con la pelliccia che porta i ragazzi di don Lorenzo a visitare il Grattacielo Pirelli nella Milano del boom. Lei, che era stata una grande amica di padre Turoldo e di don Zeno, accettò la sfida oltranzista di don Milani e fu, insieme a Francesca Ichino, una delle sue più fedeli supporter, colei che contribuiva a pagare i viaggi d’istruzione estivi all’estero dei ragazzi di Barbiana.
Anni più tardi lessi le lettere tra don Lorenzo ed Elena, un incontro tra due persone che avevano messo in discussione i privilegi che le origini gli avevano riservato. Un’ulteriore lettura sul mondo di don Milani fu il bellissimo memoir Non so se don Lorenzo di Adele Corradi, insegnante fiorentina, che coadiuvò don Milani nella scuola popolare di Barbiana. L’occasione di approfondire la vita e il pensiero di don Milani è arrivata per me nell’estate del 2017 quando, in occasione del cinquantesimo della morte (20 giugno 1967), sono usciti due Meridiani, uno dedicato agli scritti, l’altro alle lettere, a cura di Alberto Melloni con tanti validi collaboratori. Ottima edizione con il vizio capitale di non avere l’indice dei nomi. Ad ogni modo in quell’agosto mi sono buttato a capofitto tra quelle migliaia di pagine.
Mi resta l’impressione di aver incontrato la figura di un rivoluzionario, rarissima in Italia, uno che non vuole lasciare il mondo come l’ha trovato. È noto che Umberto Saba in una delle sue Scorciatoie dichiara gli Italiani incapaci di fare una rivoluzione, simbolicamente l’uccisione del padre, perché discendenti di Romolo e Remo, quindi per destino fratricidi. La prima rivoluzione Lorenzo la fa dentro se stesso: è netto nell’abbandonare il mondo delle origini, una ricca colta sofisticata famiglia fiorentina che ha nel suo ceppo Domenico Comparetti, il grande linguista (Virgilio nel Medioevo) e la famiglia ebraica triestina dei Weiss, che ha tra i suoi membri il primo psicanalista italiano. Crebbe quindi in mezzo a un ambiente culturalmente stimolante, con la possibilità, rara all’epoca, di scegliere il proprio futuro. Non fu un grande studente e a un certo punto pensò di diventare un pittore. Di quello fase è importante soprattutto l’incontro con un artista tedesco rifugiato in Italia, Hans-Joachim Staude, padre di Angela, poi moglie di Tiziano Terzani, che gli rese chiaro cosa non poteva essere e la difficoltà che ogni percorso di creazione comporta. La conversione al cattolicesimo (era stato battezzato solo perché la famiglia con lungimiranza pensò che nel clima politico degli anni Trenta era meglio non dare nell’occhio) avvenne in modo drammatico sotto i bombardamenti di Firenze nella Seconda guerra mondiale, poi il seminario e le prime prove di sacerdozio nel ‘feudo’ di famiglia di Montespertoli.
La scorsa estate incontrai Piergiorgio Bellocchio in Versilia e parlammo di don Milani. Quando morì sui Quaderni Piacentini uscirono dei saggi bellissimi di Giudici, Fachinelli e Fortini, che, più in generale, confermavano la tesi di Piergiorgio, cioè che il pensiero che preparò il Sessantotto è stata più interessante di quel che seguì. Con Bellocchio concordammo che Esperienze pastorali (1959) è stato il grande libro di Don Lorenzo. È un libro di sociologia sul campo, con numeri e statistiche, ma è soprattutto il racconto di una comunità nel momento della sua trasformazione, quando un intero popolo abbandona le aree impervie dell’Appennino per calare in pianura e vivere le prime esperienze della modernità. È lo choc dell’incontro tra un prima fatto delle abitudini della vita contadina (le stagioni, la mezzadria: di fatto il destino immutabile di una condizione sociale), con un dopo che nasce soprattutto dal lavoro di fabbrica e attorno alla attività produttiva, nel quale si può diventare padroni del proprio destino. È un salto enorme ricevere uno stipendio a fine mese, piuttosto che vivere secondo i tempi della natura: significa poter progettare il proprio futuro. Da qui nasce il fenomeno dell’abbandono della Chiesa, sentita fino a quel momento soprattutto come uno strumento di oppressione, che è stato il punto di osservazione di don Lorenzo per comprendere le trasformazioni della società. La Chiesa non è solamente la pratica della messa domenicale ma la struttura che presiede alla vita sociale dalla nascita alla morte (impressiona il fatto che tra i compiti dei preti c’era quello di vegliare chi è vicino alla morte: un’abitudine che si è estinta, almeno nelle città, negli ultimi quarant’anni). La perdita dell’appena acquisita libertà è dietro l’angolo. Don Lorenzo, nelle pagine in cui si occupa dell’oratorio, la individua nella ricreazione: quello è il momento in cui la società dei consumi entra nelle abitudini quotidiane, l’inizio di nuove schiavitù. È un’osservazione formidabile, anche perché la società dei consumi è in quegli anni proprio agli albori.
La pubblicazione di Esperienze Pastorali prosegue la catena di guai di don Milani. Il libro esce nel 1958 – don Lorenzo è già a Barbiana dal 1954, dove è giunto da San Donato di Calenzano, isolato in una parrocchia di montagna, una punizione che prende come sfida – e dopo una serie oscillanti di reazioni della Chiesa, è il successo della critica laica (Jemolo, Carlo Bo…) a far intervenire la Chiesa attraverso il Sant’Uffizio e a far ritirare l’opera dal commercio. Il 1958 è anche l’anno in cui muore Pio XII ed è eletto papa Giovanni XXIII. Purtroppo è un incontro mancato quello tra un papa che si pone come compito di riformare la Chiesa e un prete che vuole trasformare la società. Lo scontro che don Milani ha e in qualche modo cerca, pur professando sempre la massima obbedienza (ma è un grandissimo stratega), è con la gerarchia toscana, con Firenze, dove al tollerante cardinal Della Costa (che ordinò prete don Lorenzo) succede il friulano Florit. Ė la Firenze di La Pira, il sindaco santo, di un cattolicesimo sociale fatto di uomini e donne di valore, qualcosa di nuovo che non si vuole far nascere. Lo sfondo è una Toscana che lontano da Firenze sembra ancora vivere fuori dalla modernità: nelle lettere si assiste al passaggio dal barroccio alla bicicletta, poi dal motoscooter all’automobile, il tutto nell’arco della vita di don Milani.
Gli anni successivi segnano un’escalation drammatica tra la progressiva malattia, un linfoma, di don Milani – trascorre la maggior parte del tempo sul letto o su una seggiola a sdraio da dove manda avanti il programma della scuola popolare, l’attività principale di Barbiana – e lo scontro che diventa frontale con la gerarchia cattolica fiorentina. Per cerchi che si allargano il suo nome diventa sempre più noto e incontra quel mutamento di sensibilità che percorre gli anni Sessanta. Con qualche confusione. La società diventa più aperta mettendo in crisi le figure autoritarie: il ruolo dei genitori, dei docenti, della chiesa. Il confronto tra i genitori e i figli si estende progressivamente all’intera società: è la premessa del ‘68. Don Milani non mette in dubbio l’autorità costituita, è più radicale: la ripensa dalle fondamenta. Chi sale a Barbiana per curiosità o per desiderio di conoscenza è sottoposto a un interrogatorio dal parroco e dai suoi ragazzi. I curiosi sono allontanati, i portatori di conoscenza sono benvenuti. Don Lorenzo è consapevole di essere diventato un’attrazione: articoli (Anna Maria Ortese ci trascorre un Natale insieme), fotografie e filmati lo documentano. Spicca la tonaca nera, il vessillo di un comunicatore naturale. Impressionante una lettera in cui si scaglia contro un’organizzazione che vende pentolame a rate nel povero Mugello (la zona di Barbiana): sono gli avamposti del boom economico, ma per don Lorenzo le rappresentanti della ditta sono strumenti del demonio che tentano con la vendita a rate l’ignara popolazione contadina, creando nuovi bisogni artificiali.
Don Milani vuol cambiare il mondo a partire dalla parola (è il pronipote di Comparetti). La parola va dapprima intesa, poi utilizzata nella scrittura, infine diventa arma di consapevolezza nel mutare (rovesciare?) i rapporti sociali. La polemica sui cappellani militari, sulla loro funzione, e l’obiezione di coscienza, mette nel mirino l’autorità dei militari e la triade Stato, Chiesa, Famiglia che la sottende. Seguono polemiche, poi processi. L’utopia che si vuole realizzare è rendere Barbiana un centro irradiatore di un mondo nuovo in cui ognuno ha le stesse possibilità di partenza, un cristianesimo vissuto secondo i dettami del Vangelo. Lettera a una professoressa, scritto in maniera collettiva con i suoi ragazzi, ne è il risultato. Quello che più resta del libro è la denuncia della disparità sociale che comincia ancora prima della scuola dell’obbligo, e la scuola, premessa dell’ordine costituito, invece di colmare il solco, lo allarga. Una denuncia, una requisitoria, scritta in forme dialogica. Un libro a tesi. Una bomba piazzata sotto le fondamenta della società. Don Milani muore poche settimane dopo la pubblicazione del volume e l’ultimo periodo di vita è un percorso di santità vissuto consapevolmente. Se vogliamo un’ulteriore anomalia, nel senso che nessuno può vivere consapevolmente da santo in vita. Gli unici momenti di debolezza Don Lorenzo se li concede con la madre, nella cui casa fiorentina muore a soli 44 anni.
Non intendo soffermarmi sulla ricezione di Lettera a una professoressa, di come sia divenuto un livre de chevet dei movimenti studenteschi tra molti fraintendimenti (quegli studenti erano i Pierini, i privilegiati figli del dottore della Lettera a una professoressa). La sua è una testimonianza di integralismo in un mondo che si relativizza, che si laicizza in nome della libertà. Don Milani utilizza gli strumenti dell’illuminismo ma ne rifiuta la morale sottesa: una porta stretta per cui è difficile passare. Oggi in un mondo completamente laicizzato dal consumismo, di fatto una nuova religione, con l’asservimento volontario a esso e ai suoi riti, l’apostolato di don Milani ha la forza dello scandalo ed è noto come oportet ut scandala eveniant, è necessario che gli scandali accadano.
Don Milani ha cambiato il mondo? Forse no, certo non lo ha lasciato come lo ha trovato. Non gli ha dato pace. A me pare il più importante uomo di pensiero del suo tempo: l’azione ne ha inverato la parola (disse prima della crisi religiosa a Del Buono: “Sai che ho letto la Messa, è molto più interessante dei Sei personaggi in cerca di autore”). Per i credenti la sua lezione è la rimessa in discussione quotidiana della propria fede, lezione che può essere fatta propria anche dai non credenti, facendo i conti con se stessi alla fine di ogni giornata. Non so se fu un santo, di certo un rivoluzionario.