Come tutti sanno, il periodo che Dante trascorse a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, poco prima di morire (1321) è cruciale per la sua biografia e per la sua opera: è infatti a Ravenna che dovette compiersi il lungo iter della composizione della Commedia, oltre che il lungo girovagare dell’esule. L’ampia biografia che di Dante scrisse Giovanni Boccaccio vuole che quell’iter fosse avviato già prima dell’esilio, ovvero fra il 1300 (anno in cui si immagina l’azione narrata nel poema dantesco) e il fatale 1302 in cui, comminatagli la condanna capitale in contumacia, comincia il ventennale pellegrinaggio del Poeta nell’Italia centro-settentrionale. Come afferma anche il commentatore trecentesco Benvenuto da Imola, i primi sette canti della Commedia, composti a Firenze, sarebbero stati restituiti all’autore solo durante il suo soggiorno lunigianese presso i Malaspina (1306-1307). Ancora il Trattatello in laude di Dante composto da Boccaccio narra che alla morte di Dante non si trovavano ancora gli ultimi tredici canti del Poema: avvertito da un sogno premonitore, il figlio Jacopo li trovò in un anfratto della casa paterna, trascritti su pergamene già molto rovinate: «quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, [gli eredi] videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati», e solo allora potettero dare inizio alla pubblicazione integrale della Commedia. Quest’ultima è tradizionalmente collocata in corrispondenza del viaggio di Jacopo a Firenze nella primavera 1322, ma ormai la filologia dantesca ha da tempo valorizzato le testimonianze emiliano-romagnole, che sembrano muovere da una tradizione settentrionale di grande valore per la ricostruzione del testo della Commedia. Basti pensare che l’ultimo editore critico, Federico Sanguineti, ha attribuito a un codice appunto emiliano, il Vaticano Urbinate 366 del 1352, una importanza equivalente a tutti gli altri antichi manoscritti messi insieme, ponendolo a testo base della sua edizione (Firenze 2001).
Fare luce sugli ultimi anni di Dante, sui suoi familiari e amici a Ravenna, diventa così non solo un importante esercizio biografico sul nostro più grande poeta: attraverso una migliore definizione del suo soggiorno ravennate, si può fare luce sulle dinamiche della prima circolazione della Commedia, compiuta appunto nel capoluogo romagnolo. La questione del primo approdo di Dante a Ravenna è stata finora posta sulla base, oltre che dei vari passi del poema che ne evocano luoghi e personaggi, sul primario fondamento delle egloghe scambiate con Giovanni del Virgilio: nella I, v. 47, quest’ultimo sembra alludere a un soggiorno dantesco alla foce del Po (lo definisce Eridani … mediamne, cioè ‘abitatore del mezzo del Po’). Sia pure nei toni sfumati e allusivi propri del genere pastorale e dei suoi travestimenti allegorici, questo e altri indizi semrano collocare l’inizio del soggiorno ravennate di Dante negli ultimi mesi del 1318. Grazie al paziente sforzo dei curatori Gabriella Albanese e Paolo Pontari, la mostra allestita presso la Biblioteca Classense (e gli approfondimenti contenuti nel relativo catalogo L’ultimo Dante e il cenacolo ravennate) consentono ormai una precisa, “granulare” verifica documentaria dei molti indizi disseminati nelle opere dantesche e nei relativi commenti, con la puntuale e scrupolosa ricostruzione degli ambienti che accolsero l’esule e lo convinsero a stabilirvi una dimora stabile negli ultimi anni della sua vita, grazie a una relativa stabilità economica e alla possibilità di riunirvi la sua famiglia.
Fra i molti approdi del «ghibellin fuggiasco» negli anni dell’esilio, Ravenna non è solo l’ultimo approdo, ma una meta che Dante aveva lungamente preparato non solo per sé, ma per riunire i membri della sua famiglia in un contesto finalmente favorevole. Oltre al rapporto continuativo con la città, lo dimostrano la familiarità con quel territorio, e con la famiglia egemone dei conti da Polenta, certificata da molti celebri passi delle opere dantesche, a cominciare col celeberrimo episodio di Paolo e Francesca (Inf. V, fra i primi canti ad essere composti). Del resto, le fonti storiografiche affermano che fu Guido Novello da Polenta a incaricare Dante di un’ambasceria diretta al doge Giovanni Soranzo, viaggio durante il quale l’Alighieri contrasse fatalmente la malaria di cui morì nel settembre 1321. Ma al favore, spesso mutevole, di una famiglia dominante non si arrivava per caso: l’ampia documentazione raccolta dai curatori mostra come «il trasferimento a Ravenna fosse stato ‘preparato’ con richieste e accordi di tipo economico, sfruttando legami e interessi non solo con i Polentani, ma probabilmente anche con i conti Guidi» (p. 122). Cugini dei primi, questi ultimi erano stati già protettori di Dante nei feudi appenninici di Romena e di Porciano, da cui l’esule, il 16 aprile 1311, scrisse un’accorata lettera all’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo.
Figura chiave del trasferimento a Ravenna fu il figlio secondogenito del poeta Pietro Alighieri, che almeno dal 1317 era titolare ufficiale di rendite che permettevano all’intera famiglia Alighieri una relativa agiatezza: il catalogo descrive una sentenza di scomunica che è comminata a Pietro il 4 gennaio 1321 per non aver mai versato le decime dovute «pro Ecclesia Sante Marie in Zenzanigola et Santi Symonis de Muro» (p. 122). Ma altri documenti riguardano anche la figlia di Dante, Antonia, che a Ravenna era entrata in monastero con il significativo nome di Suor Beatrice: nel 1371 quest’ultima è già morta, ma Donato Albanzani (professore di grammatica e retorica, amico di Petrarca e Boccaccio) dona tre ducati d’oro al suo monastero d’appartenenza, in esecuzione di un beneficio ottenuto oltre vent’anni prima dallo stesso Boccaccio presso la Compagnia fiorentina di Orsanmichele.
Grazie al mosaico documentario ricomposto dai curatori, le carte d’archivio dimostrano anche come i rapporti di Dante con membri eminenti della società ravennate possano risalire molto più indietro nel tempo: è infatti molto probabile che, durante i suoi soggiorni a Bologna negli anni Ottanta del sec. XIII (che segnano un già intenso rapporto con lo Studio felsineo), l’Alighieri abbia conosciuto e frequentato diversi rampolli della città romagnola, come Fiduccio de’ Milotti, di origine certaldese, che a Bologna aveva in quegli stessi anni studiato medicina (p. 59) e che di Dante era coetaneo e amico stretto. Secondo l’annotazione autografa di Boccaccio nello Zibaldone laurenziano, proprio Fiduccio si cela dietro all’alias bucolico di Alfesibeo nella IV egloga dantesca (certamente composta a Ravenna e databile all’inizio del 1321). È proprio attraverso questi poemi pastorali, ricchi di riferimenti autobiografici, che il connubio fra opere letterarie e appigli documentari – solitamente molto difficile da ricomporre – offre per Ravenna la possibilità di una ricostruzione molto fine dell’ambiente dantesco. Oltre al Milotti, il catalogo ha il merito di mettere a fuoco, attraverso un ricco mosaico di testimonianze d’archivio, un intero ambiente sociale e professionale che mescolava i molti fuoriusciti fiorentini (pp. 27-28) con altre figure di primo piano quali Pietro Giardini, che Boccaccio indica come il più intimo amico ravennate di Dante, e non solo: secondo il racconto boccacciano, quando il Poeta appare in sogno al figlio Iacopo per rivelargli l’ubicazione degli ultimi tredici canti del poema, è proprio Pietro Giardini il primo a venire informato del decisivo ritrovamento.
Esiliato in vita, a quasi 700 anni dalla morte Dante continua ad essere conteso fra i Comuni che hanno maggiormente segnato la sua parabola biografica: dalle ricorrenti controversie otto-novecentesche fra Firenze e Ravenna sulle spoglie del Poeta, si è passati a contendersi la permanenza dantesca negli anni dell’esilio, con una recente ipotesi (P. Pellegrini, in «Alias» del 16 settembre 2018) che vorrebbe estendere la permanenza dell’Alighieri a Verona addirittura dal 1312 al 1320, dove il primo termine sarebbe suggerito da argomenti stilistici: stilemi danteschi (la carducciana granfia del leone) comparirebbero in una lettera di Cangrande della Scala inclusa in una più tarda raccolta di modelli epistolari. Com’è noto, il secondo termine sarebbe dato dalla esposizione orale della Questio de aqua et terra, che Dante avrebbe pronunciato nella chiesa scaligera di Sant’Elena il 20 gennaio 1320. Il condizionale è d’obbligo perché, nei confronti di un’attribuzione da sempre assai discussa, le ultime ricerche hanno sollevato riserve molto importanti: la Questio, testimoniata solo da un’edizione di quasi due secoli più tarda (1508), presuppone teorie sul rapporto fra emisfero acquatico e terre emerse che non solo contrastano (come si è da tempo rilevato) con quanto Dante afferma nella Commedia, ma difficilmente possono risalire a prima del 1335 (G. Fioravanti, in «Studi Danteschi», 2017). Da tali questioni, e dai molti spunti desumibili da questo catalogo, emerge un’importante lezione di metodo: solo dal paziente recupero di una molteplicità di tessere storico-documentarie (dalle pergamene d’archivio alle testimonianze dei contemporanei) può emergere una serrata verifica della biografia dantesca, troppo spesso soggetta a opinioni preconcette: sulla base di queste, plasmate da secoli di esegesi delle opere, quando non a rigurgiti di un mai sopito campanilismo, non sono mai mancati studiosi e cultori pronti a forzare la già scarsa evidenza dei documenti per “strattonare” il Dante esule di qua, di là, di su, di giù per l’Italia.
L’ultimo Dante e il cenacolo ravennate. Catalogo della mostra (Ravenna, Biblioteca Classense, 9 settembre-28 ottobre 2018), a cura di G. Albanese e P. Pontari, numero speciale della rivista «Classense», VI (2018): Ravenna, Longo Editore.