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L’Italia dei trovatori

La prima poesia d’arte in volgare che abbia circolato in Italia, tra secolo XII e secolo XIII, non era scritta in un volgare italiano. Anche il lettore non specialista lo sa, magari senza saperlo, cioè senza aver messo bene a fuoco la cosa: basta che abbia letto i canti VI-VIII del Purgatorio, là dove Dante e Virgilio incontrano il poeta Sordello, che si commuove quando per caso viene a sapere che Virgilio è, come lui, mantovano: «e l’ombra, tutta in sé romita, / surse ver’ lui del loco ove pria stava, / dicendo: “O Mantoano, io son Sordello / de la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava»; dopodiché parte il famoso lamento sull’Italia di dolore ostello, devastata dalle faide.

Mantovano, Sordello, anzi di Goito, a una dozzina di chilometri da Mantova; ma, come spiegano i commenti, poeta in lingua d’oc, la lingua dei trovatori della Francia meridionale (trasferendo l’azione nell’aldilà, la Commedia non solo può rimescolare le cronologie, facendo recitare sullo stesso palcoscenico, poniamo, il Sinone omerico e il falsario fiorentino Mastro Adamo, ma anche mettere in cortocircuito le lingue: così, in questa macedonia di idiomi, un rimatore in provenzale può parlare a un poeta latino, mantovano come lui, adoperando però il fiorentino di Dante).

Sordello è il più celebre dei trovatori d’Italia, raccogliendo sotto questa etichetta sia coloro che in Italia nacquero sia coloro – più numerosi – che in Italia vennero al seguito di signori stranieri in transito, o vi si stabilirono mettendosi al servizio di signori italiani. Si tratta di un numero cospicuo di autori, e di varie decine di testi. Ad essi Giulio Bertoni dedicò un celebre volume monografico nel 1915 (I trovatori d’Italia); e una buona parte del corpus venne raccolto da Vincenzo De Bartholomaeis nell’antologia delle Poesie provenzali storiche relative all’Italia (1931). Nei decenni successivi, i filologi non hanno poltrito. E al di là delle nuove edizioni critiche dei singoli trovatori, al di là degli studi parziali su questo o quell’aspetto della tradizione trobadorica in Italia (fondativo, tra tutti, il capitolo scritto da Gianfranco Folena per la Storia della cultura veneta, che dava conto del radicarsi di questa tradizione nelle corti venete), si è visto per esempio che anche la più antica poesia d’amore italiana, la canzone Quando eu stava, serba memoria di letture trobadoriche. E non si trovano forse, sullo scorcio del Duecento, poeti italiani che compongono (malamente) anche in provenzale, come il pistoiese Paolo Lanfranchi e il fiorentino Dante da Maiano? In parallelo, la mappa delle presenze trobadoriche in Italia si è arricchita e precisata: si è cioè continuato a lavorare sulle corti nord-orientali (con volumi di sintesi come I trovatori nel Veneto; e con monografie dedicate alle famiglie più importanti: gli Este, i da Romano); ma si è anche studiata la circolazione toscana delle liriche dei trovatori (Asperti, Resconi), e si sono fatte nuove scoperte intorno a quella ligure-piemontese (Bertoletti, Di Girolamo). Insomma, questi studi godono di una vitalità che ha pochi eguali nel campo degli studi umanistici.

Ora un progetto di ricerca a cui collaborano studiosi dell’Università Federico II di Napoli e della Sapienza di Roma prova a riordinare tutto il materiale, con nuove edizioni e nuovi studi. Una visione d’insieme del progetto, con alcune edizioni di saggio e la bibliografia si trova nel sito www.idt.unina.it; e il volume I trovatori d’Italia curato da Paolo Di Luca e Marco Grimaldi, raccoglie otto studi che fanno il punto della situazione e impostano i lavori futuri. Il metodo è comune, e ovviamente non nuovo: far dialogare i dati filologici con quelli storici, ma con una particolare cura per i secondi, per ragioni evidenti a chi conosca anche superficialmente il corpus. Si tratta per lo più di testi di tradizione non amplissima, spesso anzi monoattestati, ma di difficile interpretazione soprattutto per ragioni interne: la datazione incerta (non basta capire che il tale poeta sta parlando della prossima Crociata: perché di prossime crociate, nell’Italia del Duecento, si parla per decenni) e la densità di allusioni spesso sibilline, sia nei testi diciamo comico-realistici (ci si domanda se le accuse e le minacce che i poeti si scambiano rispecchino una vera animosità, abbiano un vero Sitz im Leben, o se sia tutto un gioco letterario: molto ben calibrate, su questo, le pagine di Di Luca) sia soprattutto nei testi più direttamente implicati nella cronaca contemporanea (ci si domanda se versi che a noi suonano generici non nascondano allusioni a eventi e personaggi contemporanei, allusioni che dovevano essere trasparenti per il pubblico contemporaneo: e si cerca insomma di ricostruire, tentativamente, l’originario contesto di ricezione dei testi).

L’interesse di una ricerca si misura dall’interesse cioè dall’intelligenza delle domande che si pongono agli oggetti che cadono sotto gli occhi dello studioso. Qui si tratta di oggetti non particolarmente seducenti sotto il profilo estetico: serventesi storico-politici, coblas burlesche. Il degustatore di poesia può risparmiarsi la fatica. Ma lo storico della letteratura medievale trova in questo libro molte informazioni e molti spunti di riflessione, in una gamma di approcci che va dall’osservazione al microscopio alla visione grandangolare, cioè dal minuto studio dei testi (Barachini su un sirventese anonimo duecentesco) alla sintesi su un frammento della tradizione (Bampa su Genova, Gatti sulla corte Estense) o sull’intero (Annunziata sui testi scritti intorno a Federico II, Montefusco sul profilo socio-culturale dei trovatori d’Italia). Con, ogni tanto, i rischi che questi diversi approcci portano con sé: da un lato la sovrainterpretazione (la contiguità dei testi nei manoscritti non implicherà necessariamente, tra questi testi, un legame significativo), dall’altro la genericità o la scarsa plausibilità di certe inferenze di natura, diciamo, sociologica, o l’impiego di categorie analitiche moderne nel giudizio su una realtà tanto diversa quale era l’Italia settentrionale di otto secoli fa (i sirventesi provenzali, si legge a un certo punto, come «strumento di propaganda e di elaborazione ideologica […] potente mezzo di formazione e di espressione dell’opinione pubblica»: è dire troppo).

In mezzo, tra interpretazione puntuale e visione dall’alto, è bene che ci sia spazio anche per uno di quei vecchi discorsi sulla storia della letteratura – vecchio è un complimento – che i filologi romanzi fanno sempre meno spesso (o fanno solo col condimento di estenuanti poncif foucaultiano-warburghiani, un bovarismo da stringere il cuore). Il saggio di Marco Grimaldi sui siciliani dice una cosa sola ma la dice con chiarezza. Se questi poeti non usano il volgare nativo per scrivere serventesi politico-morali non c’è bisogno di pensare a chissà quale strategia funzionale a un migliore esercizio del potere da parte del principe, se poi questo principe (Federico II) ammette che di politica e morale si scriva in latino e in greco: è un fatto da valutare alla luce della storia della lingua e dei generi letterari, non alla luce dell’Ideologia. E dal caso particolare si può forse dedurre una norma. C’è, si avverte nelle ricerche recenti sulla poesia medievale romanza, un ritorno allo studio della storia. Si tratta di una tendenza salutare, dopo anni di teorie troppo sottili e di filologia a volte un po’ bizantina. Ma un conto è l’analisi puntuale dei testi alla luce delle fonti storiche, un altro è la nostalgia della Visione, alleggerita della zavorra ideologica e aggiornata con una spolveratura di scienze sociali. Mi pare (e credo che tutti i contributori al volume potrebbero dirsi d’accordo) che la prima strada sia giusta, la seconda sbagliata.

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