Firenze

Firenze senza gli Uffizi

Se venite a Firenze per meno di una settimana riflettete sul fatto che il tempo è poco e le cose da vedere sono tante. Se è la prima volta, fatevi la domanda: vale davvero la pena di fare due ore di fila, all’afa, coll’umido, per vedere il David o i fondi oro degli Uffizi? Se li avete già visti, vale davvero la pena di rivederli, a questo prezzo? Riflettete onestamente sul vostro interesse per l’arte. È davvero così profondo? Non state per caso simulando un po’? Non state facendo quello che gli altri (ma chi?) si aspetta che voi facciate? Ricordatevi che il tempo è poco e le cose da vedere sono tante; e che siete liberi.

Dalla stazione, in un quarto d’ora a piedi arrivate in Piazza della Signoria, davanti a Palazzo Vecchio. Alla vostra destra ci sono gli Uffizi. Ignorateli. Prendete Via della Ninna, girate a sinistra per Via del Proconsolo, fate un centinaio di metri e girate a destra per una strada che si chiama Borgo degli Albizi (Àlbizi, con l’accento sulla a). Percorretela fino in fondo, fino a uno slargo in mezzo alle torri, Piazza di San Pier Maggiore. Dato che vivo in questa zona immagino di essere prevenuto, ma pochi luoghi di Firenze, pochi luoghi del mondo somigliano alla felicità più di Piazza di San Pier Maggiore – ma nessuno la chiama così: per i fiorentini è l’arco di San Pierino – a qualsiasi ora del giorno (con una leggera preferenza per la mattina prestissimo, quando non c’è quasi nessuno che passa, e per le sei-sette di sera, quando ci sono tutti), in qualsiasi momento dell’anno (con preferenza per l’estate piena, quando persino i punkabbestia sono troppo afflitti dal caldo per chiedervi dei soldi e se ne stanno, loro e i loro cani, spalmati sull’asfalto in una macchia d’ombra; o per certe giornate innaturalmente miti dell’inverno, mettiamo: il 6 dicembre 2011).

La Piazza di san Pier Maggiore si chiama così perché maggiore era la chiesa che stava lì fino alla fine del Settecento, prima che, giudicandola pericolante, si decidesse di abbatterla. C’erano, ci sono altre chiese intitolate a Pietro o a Piero, a Firenze, e questa era la più grande. Resta in piedi il portico d’ingresso a tre archi. L’arco centrale è ancora aperto e dà su un vicolo che sbocca in Via Verdi, un vicolo che per quanto possa sembrare pazzesco era la navata della chiesa di san Pier Maggiore, e oggi ci si affaccia il retro dell’ottima pasticceria Cosi, e ci corrono i motorini (lo saprà, l’autista dell’autobus numero 14, che la sua fermata è nel punto esatto dove fino a due secoli fa pendeva il crocifisso?). Gli altri archi sono stati murati, e ora ospitano, a sinistra una micro-gioielleria, a destra una macelleria che la mattina è semi-oscurata da un banchetto di frutta e verdura, la sera da una Porsche spavalda parcheggiata di traverso.

La bellezza di Piazza san Pier Maggiore mi si guasta soltanto nel fine settimana, alle due-tre del mattino, quando ragazzi e ragazze usciti dalle discoteche e dai pub della zona si raccolgono davanti alla birreria irlandese e schiamazzano per un’ora buona, prima che l’alcool finisca di stordirli e li mandi a casa. Ma in tutti gli altri momenti della giornata e della settimana Piazza di san Pier Maggiore è un’assoluta delizia. In questo momento, fine pomeriggio di giugno, mentre la guardo dall’alto pioviggina, e pochi passanti – uno ogni dieci, venti secondi – s’infilano nel vicolo attraverso l’arco centrale del portico, che è illuminato dal basso come il palco di un teatro. Non mi stupirei troppo se tra poco tornassero indietro tutti insieme e si mettessero a ballare per la gioia, per la commozione di essere lì, ora.

Di qui potete scegliere. Girare a destra verso la basilica di Santa Croce, come consiglia la guida, o tirare dritto allontanandovi ancora un pochino dal centro. Tirate dritto. Lo sfacelo che state attraversando è l’imbocco di Via Pietrapiana. Se guardato dalla giusta angolazione alle cinque del mattino, l’imbocco di Via Pietrapiana è persino gradevole, con le sue belle facciate antiche un po’ cadenti e la vecchia farmacia al fondo, all’imbocco di un bivio. Ma un lato della piazza è occupato dall’atroce mole color grigio lurido delle «Poste nuove» di Michelucci, l’altro da un supermercato Conad stipato di turisti, e da poco ci hanno interrato i container dell’immondizia di tutto il quartiere. Nell’insieme, è un angolo anche colorito della città, ma non sembra Europa.

Non arrendetevi, proseguite. Tanto più che la folla si è diradata, i turisti hanno preferito voltare a destra per Santa Croce, o tornare indietro verso Piazza della Repubblica. Dopo cento metri, Via Pietrapiana sbuca davanti alla chiesa di Sant’Ambrogio. Ignorate la chiesa, così come avete ignorato i musei, voltate a destra e perdetevi nel più bel mercato all’aperto di Firenze. I turisti vanno all’altro, San Lorenzo, che è più grande, più vicino alla stazione, pieno di caratteristici ristorantini al coperto e di ambulanti che vendono le magliette dei calciatori. Voi non andrete a San Lorenzo precisamente per queste ragioni. Il mercato di Sant’Ambrogio è più piccolo, raccolto, familiare. Offre, ai lati, un’ampia scelta di posti per mangiare, dal lussuoso (il Cibreo) al panino in piedi; dentro, poche decine di banchi e botteghe tenute benissimo e per niente care, in un’atmosfera di quasi romana rilassatezza per il passante ignaro (poi tra banco e banco ci saranno le tensioni, gli scazzi che ci sono in regime di concorrenza; ma voi siete i passanti ignari, prendete solo il miele della vita). Ulteriori dettagli su questo luogo delizioso qui. Non lontani da Piazza Sant’Ambrogio, segnalo i due ristoranti-gastronomie molto economici ai quali il sottoscritto versa con gioia parte del suo stipendio in cambio di ottimi piatti pronti; in ordine di densità dei condimenti: La Ghiotta, Via Pietrapiana 7/R (la R a Firenze sta per ‘rosso’, e indica i fondi commerciali, per distinguerli dalle abitazioni); e La Cucina del Ghianda, Via dell’Agnolo 85/R.

Quasi tutte le città sono belle, se le guardate dall’alto, ma guardare dall’alto le grandi città – Parigi dalla Torre Eiffel, Chicago dalla Sears Tower – mette anche sempre un po’ d’angoscia: il vento soffia, le persone si vedono appena e, soprattutto, allungando lo sguardo, a un certo punto il centrocittà finisce, comincia una periferia interminabile, si rompe la simulazione dell’ordine. Invece Firenze dall’alto è sempre rassicurante perché sta tutta in un ovale di colline, è un campo chiuso, protetto, ideale per i claustrofilici.

Perciò trovate un posto da cui guardare giù. Può essere una torre, un palazzo del centro; ma evitate il Duomo, la cupola del Duomo è persino troppo alta, e la ressa dei turisti, Look look!, vi guasterà l’esperienza, che richiede solitudine. Se più della solitudine vi sta a cuore l’eleganza salite sulla terrazza della Rinascente, sedetevi al bar. Una volta lì, mentre bevete il vostro aperitivo da venti euro, giratevi verso sinistra. Il palazzo che vedete è il Bargello, l’antico carcere, oggi museo, il più medievale dei musei fiorentini, e forse il più scenografico. Se un museo dovete proprio vederlo, questo può essere una buona opzione.

Ma la scelta più saggia è uscire dal centro, guardare la città da fuori. Vi tocca l’ascesa a Piazzale Michelangelo. È giusto, va fatta. Attraversate Ponte Vecchio e poi girate subito a sinistra, su Lungarno Torrigiani. All’altezza del ponte successivo, Ponte alle Grazie, girate a destra per Via san Niccolò, una via stretta tra palazzoni medievali, molto scenografica; fatela tutta, e arrivati in fondo vi trovate sulla destra il residuo di un’antica porta, Porta San Miniato. Dopo una breve salita, vi trovate sulla sinistra una scalinata che vi porterà al Piazzale. Non fate tutta la scala, fermatevi a metà, fate sosta al Giardino delle Rose, paradiso delle coppiette e del flâneur. La vista sulla città è più o meno quella che avrete salendo di altri venti metri, da Piazzale Michelangelo appunto, che però è una spianata di asfalto colonizzata dai torpedoni dei turisti e dai venditori di porchetta e – sempre loro – di magliette dei calciatori. La balaustra affacciata sulla collina è bella, il panorama non si discute, ma insomma non andarci proprio, a Piazzale Michelangelo, potrebbe essere un’opzione intelligente. Invece, una volta usciti dal Giardino delle Rose e arrivati in cima alla scalinata, attraversate la strada e salite ancora verso l’incantevole basilica romanica di San Miniato al Monte, e a questo punto non fermatevi neanche lì, salite ancora un po’ e scollinate: a Firenze l’aperta campagna è incredibilmente vicina alla città, e quella che si apre ai vostri occhi commossi, alle spalle della chiesa di San Miniato, è proprio aperta campagna, genere Telemaco Signorini. Una volta, a non più di trecento metri dal Piazzale, mi ha attraversato la strada un daino.

Per tornare verso il centro, non rifate la scalinata che avete fatto all’andata. Trovate sulla mappa una stradina che si chiama Erta Canina (probabilmente perché è erta, cioè ripida, che neanche i cani…). Imboccatela, ignorate il cartello che a un certo punto vi dice che la strada è senza uscita, proseguite. La strada non è senza uscita, è solo che dal muro di una delle ville che costeggiano la strada è caduta, anni fa, una manciata di sassi ora seminascosta dall’erba, e altri potrebbero caderne ancora, a tradimento, per la mancata manutenzione. Ma è un rischio che si può correre. Scendendo, sostate davanti al numero 44, da dove si gode di una delle più belle viste su Firenze; e sostate davanti al numero 29, dove si trova la sede dell’Istituto La Fantina delle suore stimmatine, con annessa scuola paritaria. L’edificio con parco occupa ettari, forse gli ettari più costosi di tutta la Toscana, annessi all’Istituto a mano a mano che si accumulavano i donativi, le eredità: «L’opera delle Stimmatine – scrive Piero Bargellini, Le strade di Firenze – fu talmente benedetta da Dio e benvoluta dagli uomini, che lungo l’Erta Canina si allargò il nuovo edificio, con danno del paesaggio ma, in compenso, con vantaggio delle anime». Le loro, di anime.

Avete visto Firenze dall’alto più o meno come la vedono tutti. Per un panorama più bello e meno usurato bisogna faticare un po’ di più, fare un po’ più di strada, andare dall’altra parte della valle, un po’ sotto Fiesole, anche a piedi o in bicicletta se non fa troppo caldo. Prendete Via della Piazzuola e salite verso il convento di San Domenico. Appena dopo il convento girate a sinistra per una strada ripidissima, Via Vecchia Fiesolana (chi è in bicicletta scenderà di sella, accompagnerà a mano, senza vergognarsi); dopo un centinaio di metri trovate un incrocio. Andando dritto su Via Fontelucente si scollina, e sulla collina prospiciente si vede il piccolo villaggio di Monterinaldi, una dozzina di case progettate e costruite negli anni Cinquanta dal pre-archistar Leonardo Ricci, sottovalutato landmark dell’architettura italiana: «Volevo – spiega Ricci, Anonimo del XX secolo, Milano, Il Saggiatore 1965 – che l’architettura diventasse paesaggio e il paesaggio architettura, volevo che in ogni momento le case potessero crescere se la vita lo esigeva […], volevo che sembrasse che fosse la terra ad aver partorito quelle case, non che l’architetto le avesse imposte con un atto di imperio». Ed è così.

Ma voi non scollinate, accontentatevi di vedere Monterinaldi da lontano. All’incrocio, anziché andare dritto, girate a destra, fate un altro centinaio di metri in salita e arrivate ai piedi della Villa Medicea a Fiesole. Dalla panchina che vi trovate sulla destra si gode forse il panorama più bello sulla città, e se avete scelto bene l’ora e la stagione siete soli, voi e i vostri pensierini.

Riscendiamo in città e – d’accordo – concediamoci un altro museo, dopo il Bargello, ma che vada bene anche per i bambini.

Al Museo della Specola, un venerdì mattina di inizio giugno, sono l’unico visitatore, a parte due scolaresche che mi precedono e mi seguono schiamazzanti a debita distanza, in gita di fine anno. In questa città di sommi pittori scultori architetti, chi può trovare il tempo per il museo della scienza? Ma è un errore, sia perché il museo della scienza è interessante in sé sia perché molte delle sue vetrine, molti dei suoi animali impagliati, e tutte le sue cere anatomiche appartengono alla sfera dell’arte almeno quanto alla sfera della zoologia.

Si parte, come sempre nei vecchi musei di storia naturale, dall’organismo più semplice e si arriva all’organismo più complesso. Complesso è l’uomo; semplici sono le conchiglie, gli insetti, i vermi inscatolati ed esposti in grandi vetrine senza fronzoli, con gli interni di un bel turchese chiaro. Passerete in fretta, vi fermerete un momento solo davanti agli invertebrati più grossi e/o brutti. In fretta, perché, finito il primo corridoio, cominciano gli animali-animali, una cornucopia di bestie di fogge diverse, e sorprese nelle posizioni le più strane, perché come si faceva un tempo il décor naturale è stato riprodotto in allestimenti che per voler essere iperrealistici diventano surreali.

Intanto, felini – letteralmente – a mucchi: leoni, tigri, leopardi, un lupo fermato nell’atto di addentare un capretto. Poi un tricheco messo accanto a un orso bianco, una volpe artica e un fennec muso contro muso. Più avanti, i cervidi affastellati in una vetrina che occupa tutta la parete di una stanza: un daino col cucciolo accanto, immortalato nell’atto con cui, esitante, sta per alzarsi sulle zampe per la sua prima passeggiata sulla terra. E bufali, mufloni, un alpaca che indossa il suo pelo bicolore come un cardigan, un guanaco troppo grosso che ha il naso schiacciato contro il battente della vetrina. Nelle sale successive decine di scimmie, dagli oranghi enormi alle scimmiette che stanno in una mano, e al fondo della stanza – forse messo lì di proposito, per un confronto stordente tra i primati e voi – uno specchio. E poi uccelli a centinaia, sette coccodrilli di varie fogge e misure, tartarughe giganti traslucide. In alto, quasi invisibile perché si confonde con le macchie d’umido, giallo per la luce del neon, un «pitone reticolato» di una decina di metri. E poi l’ittiofauna: il pesce istrice, il pesce luna, il pesce palla, e sotto ogni esemplare il suo cartellino: «Pescato a Livorno», «Pescato a Viareggio», e la sproporzione tra la prossimità dei luoghi e la distanza nel tempo dà uno strano effetto di vertigine, come se il Tirreno fosse un mare delle fiabe, e i pesci venissero dalle pagine di Pinocchio. Poi. Il basilisco in formalina. Un formichiere gigante. Il bradipo. Il lamantino. Il dugongo. Una volpe indiana volante crocifissa. Il tilacino o lupo di Tasmania: Estinto, dichiara il cartellino – al che si vorrebbe lasciarne a fianco un altro, di cartellino: Lasciarlo vivere, almeno questo?. E a chiudere la galleria delle bestie strane un somaro, normalissimo.

E infine una piccola collezione privata di mirabilia, i trofei di Vittorio Emanuele Conte di Torino raccolti in giro per il mondo nei primi decenni del secolo da quel cacciatore fenomenale, e donati al museo nel 1955: un dente di narvalo di due metri e mezzo; un bel tavolinetto in pelle d’elefante, specie non ancora protetta, un paio di enormi teste di cervi, tre tapiri che sembrano uno la scatola dell’altro, come le matrioske. Per terra, un cotto antichissimo, usurato dai passi di generazioni, che lascia intravedere sotto due, tre strati di vernice stesa in altri secoli, da gente più antica degli animali impagliati che vi fissano dalle vetrine: tracce di muratori che erano già morti quando gli zoologi dell’università portarono qui la moffetta impagliata, il topo pettinatore.

Nelle ultime sale, il gran finale: le incredibili cere anatomiche dell’abate siciliano Gaetano Zumbo (1656-1701) e del fiorentino Clemente Susini (1754-1814), più vere del vero, e francamente un po’ disgustose, che però non sembrano turbare né esilarare una delle due scolaresche che nel frattempo ho raggiunto, e che adesso non schiamazza più, ed è raccolta attorno a una vetrina in cui è sdraiato un cadavere di donna con tanto di capelli e peli pubici (Veneri anatomiche). «Qui c’è un errore», dice la maestra davanti alle frattaglie. «Quale?». Brucio tutti sul tempo: «I polmoni. Mica stanno lì». La maestra mi fa un sorriso di tenerezza. I polmoni stanno benissimo dove sono. «Il diaframma è troppo in alto per essere una donna», dice un ragazzino col ciuffo e una maglietta dell’Inter. «Esatto, bravo», gli risponde la maestra, mentre io annuisco deciso.

Poi c’è anche chi le città impara a conoscerle correndo, la mattina presto o al tramonto, ed è un ottimo modo. Solo che se avete presente il centro di Firenze è difficile che vi venga in mente l’aggettivo verde. Visto dall’alto, è una distesa di tetti rossi e terrazze: alcune enormi, sontuose, inimmaginabili dal livello-strada. A starci in mezzo, sono strade strette che sbucano in altre strade strette, senza neanche lo spazio per il marciapiedi. I giardini veri e propri sono un po’ segregati: li trovate nei cortili interni dei condomini eleganti – vale a dire che non li trovate, perché per trovarli bisogna avere le chiavi del cancello – o in qualche spazio pubblico aperto a singhiozzo, in certi giorni della settimana e non in altri, a certe ore e non ad altre. Ci passerete davanti prendendo nota mentalmente del giorno e dell’ora; ma tornandoci vi accorgerete di esservi sbagliati: era martedì, non mercoledì. Aperti sempre, invece, ma con orari da verificare, il Giardino di Boboli (caldamente consigliato) e il Giardino Bardini (consigliato ancora più caldamente, anche perché è meno famoso, meno frequentato), ma si paga per entrare (10 euro biglietto cumulativo, ripeto: ben spesi).

Quindi se volete fare jogging evitate il centro, lasciatelo agli stranieri. Gli stranieri corrono avanti e indietro sui lungarni, ma è un errore, è insalubre, è anche pericoloso. Voi non costeggiate il fiume, attraversatelo. Venendo da Santa Croce (il quartiere, non la chiesa), fate il Ponte alle Grazie e dopo il ponte continuate per una cinquantina di metri finché non andate a sbattere contro un edificio massiccio, scuro, minaccioso, Palazzo dei Mozzi. Girate a destra, poi subito a sinistra, e preparatevi a una salita molto ripida, Costa San Giorgio. È una strada celebre, Montale le ha dedicato una poesia («… Tutto è uguale; non ridere: lo so, / lo stridere degli anni fin dal primo…»), ma facendola di corsa non avrete la forza né di godervi la bellezza né di recitarvi la poesia: quindi sentitevi in diritto di rallentare, di camminare.

In cima, finalmente in piano, ecco il Forte di Belvedere, e di qui si snoda Via San Leonardo, forse la più bella strada della collina fiorentina, eternata in Cronaca familiare di Zurlini, poco frequentata dai turisti, e quei pochi civilissimi, per lo più impegnati a cercare su Google Maps Piazzale Michelangelo, che sta mezzo chilometro più a est. Dietro le stupende facciate ocra e gialle vivono gli ereditieri, protetti da cancelli che hanno in cima leoni in terracotta precisi identici a quelli che Palazzeschi mette di guardia alla casa delle sorelle Materassi: «un cancello bianco mangiato dalla ruggine, sempre aperto a metà, e sui cui pilastri seggono due leoni di terra cotta che […] sembrano piuttosto due vecchie in conversazione estiva crepuscolare, con le bocche devastate e semiaperte per l’afa ed il respiro greve».

Rallentate, provate a spiare dalle rare fessure che si aprono tra i portoni in ferro battuto e i muri, o aspettate che qualcuno esca dal cancello e vi lasci guardare dentro. Nell’attesa, cercate di memorizzare le targhe che commemorano i residenti illustri. Al civico 64, targa per Ciaikovski «dall’immensa pianura russa alla dolce collina toscana approdato» (1878). Al civico 49 «Ottone Rosai visse e lavorò dal 1933 al 1957». Fuori dal civico 50, una testa di Maria in altorilievo «In memoriam Contessa Vay de Vaya», di professione medium. Al civico 41, la casa in cui visse e morì Mario Pratesi, narratore insigne e dimenticato. Al civico 13 una lapide per il musicista «Timoteo Spelman, americanus civis», che nel 1924 fece restaurare il vicino «delubrum aevo hieme dirutum / plaudentes incolae» (‘tempietto rovinato dalle intemperie / tra il plauso della gente del posto’). E tra un civico illustre e l’altro, fondi agricoli con nomi soavi come «L’Ingigliata», «Villino Il Melagrano», «Villa Il Limone», brulicanti di edere, fichi, olivi, cipressi. Camminando o correndo nella canicola uno finisce per intuire qualcosa di simbolico in questa lunga muraglia cosparsa di cocci di bottiglia, qualcosa che sembra alludere alla vita e al suo travaglio. Ma l’errore è costeggiare la muraglia nell’ora canicolare, le due, le tre di un pomeriggio estivo: basta andarci quando cala il sole, oppure ad aprile, a settembre, ed ecco che i muri simbolici tornano ad essere, innocentemente, muri.

 

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