La Fondazione Feltrinelli raccoglie in questo volume, curato e introdotto da David Bidussa, sette saggi sui movimenti e i partiti di destra in Italia. Il saggio d’apertura di Marco Tarchi riflette sulla pertinenza, nel panorama politico attuale, della dicotomia destra/sinistra, e sull’eterogeneità dei gruppi politici che si raccolgono nell’area chiamata ‘destra’. Il saggio di Piero Ignazi fa la storia della trasformazione del principale partito di destra nel corso del secondo Novecento, dal MSI ad Alleanza Nazionale quindi, negli anni Zero, all’alleanza-dissoluzione nel Popolo della libertà di Berlusconi. Quelli di Andrea Mammone e di Pietro Castelli Gattinara sono dedicati alle nuove organizzazioni di destra nate o consolidatesi in seguito alla svolta di Fiuggi (Forza Nuova, Casa Pound, Movimento sociale fiamma tricolore); quello di Manuela Caiani riferisce della propaganda dei movimenti di estrema destra in internet; quello di Damiano Palano riflette sulla nozione di populismo; quello di Corrado Fumagalli, infine, pone e risolve un interrogativo ben preciso, se sia o meno opportuno ammettere nel dibattito anche «il discorso di incitamento all’odio», cioè permettere – da liberali conseguenti – che anche gli odiatori parlino: alla radio, in TV, sui giornali, nelle piazze (la conclusione, pur dubitosa, è che bisogna «lasciare i razzisti liberi di esprimersi […], perché restrizioni e limitazioni non fanno che nascondere l’odio»: conclusione che sembra implicitamente rivolgersi anche a chi, nei mesi scorsi, voleva non solo zittire ma «mettere fuori legge», tout court, un movimento a cui era stato concesso di portare propri candidati alle elezioni).
Materiali molto eterogenei, come si vede, ed è un bene che sia così perché, illuminato da prospettive diverse, l’oggetto – le idee e la prassi della destra – si comprende meglio: Destra è un libro utile anche per il lettore che non sia politologo di professione. Ma la disparità di prospettive è anche disparità di linguaggio e di tono, e qui si genera forse qualche stridore: tra, per esempio, l’approccio scientificamente oggettivo di Tarchi o di Ignazi, e quello invece fortemente valutativo, schierato, anzi addirittura indignato di altri contributori. Esempi: «Si e assistito, negli ultimi decenni, a un processo di rimozione collettiva della realtà fascismo e antifascismo. In altri termini, il paese ha vissuto una sorta di ‘revisione giornaliera del passato’ […]. Un paese il quale, nonostante abbia inventato la parola fascismo dopo la prima guerra mondiale e conosciuto il primo regime di destra, non sia fondamentalmente in grado di fare i conti con il suo passato autoritario e xenofobo accettando partiti che si richiamano a quell’esperienza storica o non condannano la figura di Benito Mussolini». Dell’indignazione si fa sempre volentieri a meno, tanto più in sede scientifica (e del resto sarà lecito affacciare l’ipotesi opposta, e cioè che in questi anni non si sia fatto altro che speculare molto vacuamente su ‘fascismo e antifascismo’, a un buon secolo di distanza dalla nascita di quell’antinomia: «Dopo esserci liberati del fascismo, noi dobbiamo ora cercare di superare anche l’antifascismo» – questo è Ignazio Silone, ottobre 1945).
Il libro esce adesso, ma i contributi sono stati scritti nei mesi scorsi, perciò al lettore resta la domanda intorno a come le categorie impiegate dai contributori reggano a questi mesi di campagna elettorale, e al terremoto del 4 marzo. Per esempio: «In generale si può forse distinguere […] un populismo di destra – contrassegnato dalla delegittimazione dei partiti, dalla mobilitazione nei confronti degli immigrati, nella resistenza delle comunità locali contro il processo di unificazione europea e contro gli effetti della globalizzazione – da un populismo di sinistra, che invece si concentra sulla contrapposizione contro le élite economico-finanziarie».
È davvero una distinzione plausibile? Non sono ormai caratteristiche ampiamente trasversali? Non è, la diffidenza nei confronti delle élite (tutte le élite, non solo economiche ma anche culturali), un tratto condiviso dal populismo che si origina a destra? E non è, la difesa delle piccole patrie e il rifiuto della globalizzazione, un tratto peculiare anche del populismo che si origina a sinistra? «Chi l’ha detto che essere di sinistra significa essere per l’immigrazione? Essere di sinistra vorrebbe dire, Marx e Gramsci docunt, essere dalla parte dei lavoratori» (Diego Fusaro a L’aria che tira, 17.3.2018, col bel latino dei diplomati al liceo classico). E, populismo a parte, è la stessa distinzione tra destra e sinistra che scolora e si perde a mano a mano che le grandi opzioni ideologiche lasciano spazio alla politica politicienne (quella per cui, per esempio, è indifferente allearsi con il PD o con la Lega, ciò che conta è prendere il potere). Tarchi discute le polarità argomentate da Bobbio (tra eguaglianza e ineguaglianza), da Laponce (tra immanente e sacrale), da Cofrancesco (tra emancipazione e tradizione), ma al termine di questa rassegna conclude: «Quel che ci pare certo e che, nelle attuali condizioni, la costruzione di un paradigma puro che sappia polarizzare grandi antitesi costitutive di destra e sinistra rischia di essere un interessante ma astratto esercizio di erudizione intellettuale, che poco ha a che vedere con le dinamiche che attraversano la realtà». I concetti sono vischiosi, così è probabile che questo esercizio di erudizione intellettuale – o di narcisismo – continuerà a lungo, non foss’altro perché è un buon modo per assecondare il nostro congenito settarismo, risparmiandoci la fatica di pensare e di fare delle distinzioni. Forse la polarità davvero significativa, nei prossimi anni, sarà quella tra amici o nemici della società aperta, o meglio ancora quella – culturale prima che politica – tra liberali e antiliberali. In Italia, a occhio e croce, forse il trenta percento contro il settanta, forse meno.
Destra, a cura di Corrado Fumagalli e Spartaco Puttini, introduzione di David Bidussa, Milano, Fondazione Feltrinelli.