All’inizio di La letteratura circostante Simonetti ringrazia Walter Siti per le conversazioni che ha avuto modo di fare con lui nell’arco di un decennio, e il ringraziamento si spiega: non solo perché Siti è uno degli autori più presenti nel libro ma anche perché La letteratura circostante assomiglia per certi aspetti al più importante libro di critica di Siti, Il neorealismo nella poesia italiana (1941-1956). Si isola un pezzo di storia letteraria, si leggono tutti i libri, anche quelli brutti (ma senza confonderli coi belli: mantenendo cioè una prospettiva critica, non di sociologia della letteratura), si cerca di capire in che modo le loro caratteristiche formali rispecchiano (o deformano) lo stato del mondo in cui sono stati creati. Salvo che il compito di Simonetti è più arduo: perché la sua ricerca ha un compasso temporale più lungo, perché considera non solo la poesia ma anche la prosa e perché lavorare su un’epoca storiograficamente in divenire (gli ultimi trent’anni) è più difficile che lavorare su un frammento in sé conchiuso del passato.
C’è quindi prima di tutto un dato quantitativo. Simonetti vaglia centinaia di opere. È la prima volta, mi pare, che in questo campo si azzarda un’indagine tanto estesa: in orizzontale, coinvolgendo non solo il romanzo e la poesia ma anche le ‘scritture di frontiera’; e in verticale, coordinando i diversi livelli della produzione letteraria, dalla Trivialliteratur ai capolavori, passando per quell’amplissima zona grigia di ‘prodotti medi’ che tracimano dalla TV e dalle ex terze pagine dei quotidiani. Che cosa emerge, da queste 400 pagine di scavo?
Che (1) siamo al tramonto della letteratura ‘di una volta’, fondata su valori di profondità, lentezza, organicità e autonomia. Al suo posto, una letteratura sempre più veloce, frammentaria e eteronoma, ibridata con linguaggi e saperi non letterari (dai cannibali a Saviano, da Moccia a Wu Ming, da De Cataldo a Ferrante).
Che (2) dopo il collasso delle gerarchie ‘di una volta’ si afferma l’egemonia di una letteratura più prossima all’evasione che all’arte: libri pieni di effetti speciali e poveri di pause, consensuali, facili da tradurre, in sintonia con le mode (i romanzi sui giovani di D’Avenia o Giordano, i melodrammi di Mazzantini e Avallone, ma anche molti racconti velleitariamente engagé sul precariato, sulle periferie, sul terrorismo).
Che (3) mentre la letteratura più ambiziosa sopravvive come prodotto di nicchia, dilaga una letteratura legata a un’immagine di marchio: scrittori-brand (i romanzi dei personaggi televisivi, dei cantanti, dei ‘giovani’), scritture seriali e codificate, cioè scritture di genere, sia nel senso che vanno di moda il giallo, il rosa, l’erotico, sia nel senso che elementi di genere compaiono sempre più spesso anche nei romanzi ‘seri’.
Il libro di Simonetti non porta la pace ma la spada; perciò non piacerà a tutti. Primo, perché non si difende con lo specialismo e con le teorie passepartout: parte dai testi e da lì si spinge verso conclusioni realmente innovative. Secondo, perché non milita per nessuna Causa: e deluderà tanto i partigiani della letteratura di consumo (che viene sezionata senza alcuna indulgenza) quanto quelli dello sperimentalismo (la cui ‘ricerca’, ed era ora, è sottoposta a seria verifica). Terzo, e soprattutto, perché annuncia che il re è nudo: che la grande tradizione del Novecento è finita per sempre, che democrazia e mercato sono la stessa cosa, che l’arte vera continua a prodursi ma «il mondo va in un’altra direzione»: cosa che spiacerà a tutti quelli che vedono nella cultura una forma di esorcismo o di resistenza politica. È un saggio profondo e autorevole, che prende sul serio la letteratura e si mette al servizio di lettori disposti a prenderla a loro volta sul serio. Non è ottimista ma dice la verità, e – controcorrente rispetto a una critica letteraria contemporanea che ci dà spesso pagine di vertiginosa bruttezza, ora per adesione snobistica ai gerghi correnti, ora per ingenuità, ora per semplice sciatteria – la dice con uno stile magnifico.