A mezzo secolo dal ’68, sentiremo ricordare un po’ dappertutto gli opposti significati che gli vengono attribuiti. La sua cifra bifronte indica sia l’ultima rivolta imparentata con i moti ottonovecenteschi, sia l’affermazione di una società affluente dove la tendenza libertaria è indistinguibile dal consumismo; evoca un istinto ludico e anarchico che si rovescia in pratiche settarie; simboleggia un’estetizzazione della politica e una fame d’immaginazione che preparano l’aggressività pubblicitaria; ed è legata a un rifiuto della cultura che sfocia in un enorme abuso di gerghi teorici.
Un tema che attraversa quasi tutte queste dialettiche è quello dell’autorità. Chi vede nel ’68 l’origine di un presunto lassismo lo confonde con l’andamento complessivo dello sviluppo, del quale i movimenti costituiscono un epifenomeno e un’interpretazione eccentrica. La contestazione dei ruoli tradizionali è infatti anche e soprattutto, pasolinianamente, il cedimento ad autorità più forti, “oggettive”, brutali, che s’impongono senza bisogno di raccomandazioni pedagogiche: i diktat del consumo, appunto, così pervasivi da alienare insieme il Personale e il Politico. I palazzi d’inverno sono ormai le banche e la tv, come dice Bianciardi invitando i ribelli alla non collaborazione. Quanto alle vecchie istituzioni, il ’68 evidenzia un equivoco più che mai attuale. Le burocrazie scolastiche, partitiche e statali, con le loro procedure elefantiache e le loro mutrie temibili o patetiche, sono certo oppressive, ma offrono anche riparo da oppressioni più feroci: quelle del branco, dove i rapporti di forza tra duci e gregari non conoscono mediazioni. Quando assemblee, comunità o “gruppi in fusione” vogliono cancellare le “forme”, e al tempo stesso porsi come avanguardie democratiche, l’anarchia si trasforma nella sopraffazione di bulli e demoni dostoevskiani in sedicesimo. L’immagine di Guido Viale che sale sulla cattedra sbeffeggiando un professore sadico è liberatoria; le dinamiche a loro volta sadiche e neoleniniste che inquinano i movimenti, molto meno: anche perché dovendo travestire da rivoluzione esotica una quotidianità prosaica, i nuovi capi producono ideologie assai più intimidatorie di quelle dei loro sclerotici predecessori, condendole con l’ennesima variante della retorica dannunziana. “Non c’è autorità più cieca di quella che non è avvertita come tale”, scrive subito Fortini criticando l’illusione studentesca di potersi sbarazzare delle gerarchie. Se si disprezzano gli “esperti” e “si praticano controcorsi sulla repressione sessuale e sull’imperialismo e sul Vietnam (…) senza bibliografie”, si cerca “qualcosa che si trova in ogni edicola”.
I contestatori dovrebbero semmai chiedere che il riconoscimento dell’autorità si fondi su un sempre più consapevole accordo di uguali: occorre capire insieme, situazione per situazione, quali aspetti degli individui meritino la precedenza, e dargliela senza estendere indebitamente un prestigio momentaneo all’intera vita, cioè senza creare relazioni di dominio arbitrarie. Anni dopo, Piergiorgio Bellocchio denuncia la complicità ingannevole che un’agenda di Lotta continua prova a instaurare con gli studenti, ad esempio invitandoli a liquidare i “fratelli maggiori” come falliti buoni solo a scucire soldi. Nella categoria non rientrano forse gli stessi autori? Negarlo significa riprodurre la “contraddizione tra insegnante e allievo, leader e militante di base, intellettuale e proletario.
È una contraddizione insanabile, perché il più forte eserciterà comunque una certa violenza sul più debole”. Per ridurla al minimo bisogna illuminarla, “renderla esplicita”, anziché fingere “di ‘essere’ operaio o studente, quando sei soltanto ‘dalla parte’ dell’operaio o dello studente”. Dal ’68 in poi, se da un lato a educarci è stata una realtà via via più immodificabile, dall’altro sono stati proprio gli inganni dei seduttori politico-culturali. Riabituati a inchinarci al più sfacciato darwinismo sociale, ma insieme pronti a gridare che “uno vale uno”, siamo vaccinati contro le guide dall’aria trombonesca: non crediamo più all’autorità, e ogni restaurazione ci appare comica. Appunto per questo, però, gli aspiranti tiranni e manipolatori si mascherano da “uguali a noi”: eludendo le responsabilità, oltre al potere dei padri pretendono la libertà incondizionata e irridente dei figli.
Questi cattivi maestri puntano sui mimetismi adolescenziali, e ci ricattano con nobili cause: sono i tartufi che Garboli vide spuntare ovunque verso il ‘70. In loro l’autorappresentazione pubblica ha divorato le istanze emancipatrici che sole la legittimano. Riflettendo sul ’68, Perniola parlò di passaggio dall’età dell’azione all’età della comunicazione. In forme più estreme, abitiamo ancora questa epoca: conta accumulare “esperienze” con disinvoltura manageriale, e tradurle subito in “immaginazione” mediatica. Chi esita torna a somigliare al “cretino”, comunista e moralista, che negli anni Sessanta Fortini difese da una nuova sinistra in cui si annidavano lo snobismo e la sete di visibilità dei ceti medi nati con il boom.